La storia della movida genovese è molto più antica di quanto possa sembrare: facciamo un salto nel passato della Superba per conoscere i vari tentativi, spesso falliti, di normare la vita in città, tra "scontri" di estrazione sociale e lotta generazionale
A Genova impazza la movida. E’ un dato di fatto. La recente ordinanza volta a regolamentarne modi e tempi ha creato scalpore, tanto che il sindaco Doria, di fronte alle proteste degli esercenti, s’è detto disponibile a rivedere la norma, in modo da tutelare sia i residenti, sia i commercianti, sia quella massa crescente di turisti che vediamo la domenica vagare tra serrande chiuse e strade deserte (ebbene sì: pare che qualcuno non abbia ancora compreso quale sarà il futuro di questa città). D’altronde, se decidi d’abitare in un luogo che possiede circa 2500 anni di storia, devi necessariamente fare i conti col passato. Ma la movida è un’altra cosa. Bere e fare chiasso paiono aver ben poco a che fare col manufatto storico-artistico, anche se vi sarà pur un motivo per cui un luogo come il nostro centro storico esercita un fascino crescente su giovani e meno giovani. D’altra parte, si tratta degli stessi luoghi dove, grossomodo seicento anni fa, si svolgeva ben altro tipo di movida. Le recenti ordinanze anti-gozzoviglio sono paragonabili – naturalmente mutatis mutandis – ad alcune norme rientranti nel complesso più generale delle cosiddette leggi suntuarie, volte a disciplinare l’ostentazione del lusso; e ciò, per evitare contrasti tra i ceti sociali (o, forse, per evitare un’eccessiva mescolanza tra ceti?). Tali norme, infatti, non erano rivolte soltanto alle vesti e agli ornamenti, bensì anche alla conduzione di banchetti, magari in occasione di battesimi e matrimoni.
Austerità e decoro erano le parole d’ordine, in particolare per il nuovo Ufficio delle virtù istituito a Genova nel 1466, volto a circoscrivere i vizi, consistenti essenzialmente nell’andare a donne, nell’abbandonarsi al gioco e nell’immergersi nelle crapule. A quanto pare, tuttavia, le ordinane dell’Ufficio non apportarono giovamento alcuno, sì che, nel 1482, fu necessario procedere nuovamente alla nomina di magistrati appositi: Lodisio Centurione, Giovanni Bigna, Pietro di Persio e Giovanni Francesco Fieschi, i quali istituirono un sistema che potremmo definire delatorio, basato su qualcosa di simile alla ronda. E’ in questo periodo che compare, infatti, nel giuramento dei gonfalonieri e dei rettori delle conestagerie cittadine (per semplificare, i quartieri), la seguente formula: “Se voi saverei che in le conestagie sean zoveni discoli e mal acostumé, o altre persone le quali fessen mangiaressi o altre cose excessive e dezoneste, voi le manifesterei a lo spectabile messer lo Vicario Ducà e a lo Officio deputao”.
“Zoveni discoli e mal acostumé”, dunque. E il pensiero non può che ritornare all’oggi. D’altra parte, non si trattava unicamente di differenze cetuali, bensì – oggi come allora – d’uno scontro generazionale. Se l’uomo maturo era abituato a destreggiarsi tra l’amministrazione della casa, della bottega, degli affari, della cosa pubblica, degli uffici religiosi, i giovani, al contrario, ostentavano leggerezza, abbandonandosi agli ozi, agli amori, ai divertimenti e agli scherzi. E’ il caso, ad esempio – siamo in pieno Seicento – d’un gruppo di svogliati assiepati in Sottoripa, intenti a lanciare uova e bucce d’arancia ai mercanti indaffarati e a tendere cordicelle in modo da farli inciampare. Non di rado, l’obiettivo principale era la molestia: di giovani fanciulle, ovviamente. Gli esempi si sprecano. Racconta un certo Giuseppe Giovo, abitante alla Chiappella (e, cioè, nell’omonimo borgo, che si trovava ai piedi del colle di San Benigno, ora spianato; per intenderci, di fronte al Terminal Traghetti), di come quattro nobilissimi fratelli facessero “in essi contorni grossi disbaratti e spropositi, con gravi lamente di quel popolo”, impadronendosi sulla pubblica via d’una giovane donna con l’intento di sollazzarsene. La ragazza, tuttavia, riuscì a sfuggire loro di mano e, “tirando una savata, ne ferì uno di detti signori in testa”. La scena doveva essere piuttosto frequente. Secondo il nostro: “Tutto dipende dal commercio che essi signori hanno tutti quattro d’accordio con diverse cortigiane di bassa conditione habitanti ivi alla Chiappella in le case di Nicolò Vertema, con le quali tutta la notte loro signori e suoi servitori inquietano tutto quel vicinato; et ognuno dice che se da chi comanda fussero discacciate da quel luogo sarebbe cosa ottima”. Nome e cognome, dunque, e solo possiamo immaginare gli esisti dell’esposto recato ai magistrati. Insomma, eccessi a parte – ovviamente da sanzionare, e in maniera esemplare –, nulla di nuovo sotto il sole.
Antonio Musarra
E’ bello notare, una volta portato il genovese del Quattrocento in grafia moderna, e adattata la fonologia a quella attuale (caduta di “l”, “r” e qualche altro dettaglio), come la lingua si sia evoluta: “Se voî saviei che inte conestagie sean zoveni discoi e mäcostummæ, o atre persoñe e quæ fessen mangiaresci ò atre cöse eccescive e desoneste, voî le manifestiei a-o spettabile messê lo Vicäio Ducâ e à l’Uffiçio deputou”. Non dimentichiamoci mai che quello che oggi chiamiamo dialetto è una lingua, con secoli di usi pubblici ufficiali. Anche questo è cultura, e va messo in risalto!