"L’uomo nella fotografia era Luigi Barretta, il prozio di mio padre, partito nel 1904 con destinazione New York. Aveva la mano veloce, ma a differenza dei suoi compaesani cuciva e non sparava..."
Era una tiepida mattina di maggio, il sole aveva fatto un cammeo durante le prime ore per poi non presentarsi più, lasciando il posto a una grigia foschia.
Leggevo La Baia di H.J.Michener, un capolavoro semisconosciuto della letteratura del Novecento ricevuto in regalo da mia zia (era un’edizione risalente al 1980 perfettamente conservata, dal valore umano inestimabile): racconta quattro secoli di storia nordamericana romanzata ad arte, dall’arrivo dei primi europei nelle Americhe fino quasi ai giorni nostri.
Al suo interno, tra due pagine ingiallite e incollate dal tempo ho trovato una busta, conteneva una fotografia in bianco e nero ritraente un uomo di bell’aspetto, magro ed elegante, che indossava un abbondante abito grigio e scarpe in cuoio con la punta consumata, teneva in mano un cappello e al suo fianco una valigia legata solo da uno spago, dietro di lui, oltre la prua di una nave si stagliava il ponte di Brooklyn.
L’uomo nella fotografia era Luigi Barretta, il prozio di mio padre, partito nel 1904 con destinazione New York. Aveva la mano veloce, ma a differenza dei suoi compaesani cuciva e non sparava, tagliava le stoffe più pregiate componendo abiti su misura come nessuno nel suo paese natio, Stilo, un piccolo borgo medioevale, pigramente adagiato ai piedi del monte Consolino in provincia di Reggio Calabria.
Agli inizi del Novecento la vita era polverosa come le strade del paese, la fame si incontrava per strada e ti guardava negli occhi, come un vecchio sporco cane randagio, fino a farti morire.
Era apprezzato per la qualità dei suoi abiti, tuttavia i guadagni si riducevano al lumicino, i lavori più onerosi scarseggiavano e nell’ultimo anno si limitava a rammendare indumenti lisi e sgualciti di chi non se ne poteva permettere di nuovi.
Decise così di intraprendere il primo viaggio verso l’America con l’intento futuro di portare tutta la famiglia nella terra dei sogni, trasferendosi a Brooklyn.
Svolse i lavori più umili prima di essere assunto come sarto dentro un magazzino di abbigliamento, dove il suo talento fu finalmente riconosciuto e, grazie alla parsimonia e alle cospicue mance, in breve tempo riuscì ad aprire una bottega tutta sua.
In due anni la piccola bottega divenne una catena precorritrice dei moderni supermercati, dove era possibile acquistare generi alimentari, abbigliamento e articoli per la casa.
Cedette le sue attività a un facoltoso magnate e fece perdere le sue tracce in circostanze ignote, forse avido dei soldi guadagnati o semplicemente perché li doveva a qualcuno. In Italia lo aspettarono invano, di lui è arrivata solo quella fotografia e delle cartoline spedite a parenti ormai scomparsi.
Ho riposto la busta nel libro e dopo un’ultima occhiata alla fotografia sentivo ardere una missione dentro di me, ripercorrere la strada di Luigi Barretta e, contrariamente a lui, ritornare a casa.
Esattamente dopo quattro mesi ero in fila ai lunghi controlli del JFK di New York. Diversamente dal mio antenato, vestivo pantaloni corti e t-shirt, in mano tenevo ben salda la reflex pronta a scattare non appena avessi ricevuto il via libera per entrare negli States.
Il taxi viaggiava oltre i limiti consentiti, il conducente era un loquace ragazzo afroamericano improvvisato cicerone che spacciava luoghi apparentemente anonimi come scenari di alcuni dei film più famosi. Dal finestrino passavano le immagini delle case a schiera e i campetti da basket del Queens fino a sfociare nell’East river per poi entrare nel muro di grattacieli proprio quando il sole, calando, disegnava l’inconfondibile silhouette di Manhattan nel cielo serale.
L’appartamento era piccolo e confortevole nella tranquilla ed elegante Chelsea, la proprietaria, una ragazza con cui non ho avuto modo di parlare se non tramite email, aveva lasciato tutto a mia disposizione, compresa una collezione dei suoi personali oggetti di piacere.
Il Chelsea Market era il luogo adatto dove trovare una vasta scelta di ristoranti, distava pochi isolati. Dopo una doccia rinfrescante, mi sono incamminato lungo i viali alberati illuminati dalle insegne al neon dei locali, come nei migliori quadri di Hopper. Dopo la cena a base di aragosta e sushi, sono rientrato per riposare: la mattina seguente dovevo affrontare la prima tappa del viaggio di Luigi Barretta, la piccola Ellis Island.
Una leggera coperta di nubi conferiva al mare un aspetto non diverso da una colata di piombo fuso, un peschereccio rientrava dalla notte accompagnato dalla danza dei gabbiani sulla cresta dell’onda e una frotta di turisti era assiepata sul molo, in attesa del battello.
Questo isolotto, ormai adibito a museo, in passato aveva accolto 12 milioni d’immigrati, tra i suoi muri si respira ancora l’odore dei corpi ammassati in attesa delle visite mediche e delle valigie di pelle accatastate.
Vecchie stampe sulle pareti ritraevano i volti provati ma felici delle famiglie appena sbarcate, gli occhi inconsapevoli dei bambini e quelli pieni di speranza e illusione delle famiglie, come quelli di Luigi ai piedi del ponte di Brooklyn.
L’emozione è diventata ancora più grande quando negli archivi pubblici ho trovato un documento attestante che il 17 maggio del 1904 all’età di diciannove anni Luigi Barretta era sbarcato negli Stati Uniti d’America sulla nave Palatia partita da Palermo.
Mia zia, che nel frattempo seguiva le mie gesta oltre Atlantico, era riuscita a reperire un indirizzo grazie ad una vecchia cartolina: al 1430 di Coney Island Avenue di Brooklyn, Luigi aveva aperto la sua prima bottega, la meta adesso era concreta, ma prima c’era da visitare la Grande Mela.
In estate a New York fa caldo, per usare un blando eufemismo, un umido vento torrido soffiava e si fermava come il mantice di un camino, l’asfalto si scioglieva e dalle viscere saliva un nauseabondo vapore, un odore acre come di verdure avariate.
I graffiti sui muri appaiono senza preavviso, inerpicandosi in alto come edere abbandonate. Lo sguardo si perde nello zigzagare delle scale antincendio delle palazzine fino ad arrivare sui tetti dove grosse cisterne d’acqua ricordano razzi pronti a partire.
La città è un serpente che cambia pelle. È sufficiente cambiare strada per trovarsi dalla sporca e caotica Chinatown ai colori allegri e la musica di Little Italy, dalle pericolose facce di canal street all’eleganza del Tribeca e del Financial district.
L’aria vintage del Greenwich village e dei negozi di abiti e vinili usati, lo stile british di Chelsea e quello artistico di Soho e delle gallerie d’arte mentre tutto ruota attorno a un centro, dove il tempo non esiste, si ferma e ti accoglie in qualsiasi veste tu sia, quel luogo si chiama Times square.
Camminando tra le insegne luminose dei teatri e delle pubblicità, s’incontrano cespugli di capelli e pantaloni a zampa, predicatori e mendicanti, artisti di strada, suonatori improvvisati e narcolettici sdraiati negli antri più impensabili distesi come fachiri e vagabondi che camminano senza meta con la sola anima come fissa dimora.
Il fumo dei carretti ambulanti e quell’aroma speziato del Kebab si aggrappa ai rivoli di vento arrivando fino a Central Park per poi svanire disperso tra le fronde dei rami di quercia rossa e le fragranze acerbe dell’erba fresca.
Le foglie, mosse da una lieve brezza, ballano al ritmo di una fisarmonica gitana, altre si staccano come lacrime a ogni accordo di chitarra dedicato a John Lennon, le più intraprendenti si sono spinte fino al lago per galleggiare insieme alle barche a remi circondate da una corona di grattacieli, ormai diventati un uniforme ombra nera.
Una ragazza, capelli castani al vento e il volto coperto dalla sua fotocamera, tenta di scattare un’immagine di un papà che tiene in braccio il suo bambino: era la sua foto e così ho lasciato che fosse, un’immagine bellissima di chi l’aveva vista e inseguita con tanto amore da non voltarsi nemmeno un secondo per svelare un viso che resta un mistero.
Brooklyn intanto scalpitava, ed io con lei. Sentivo un fuoco scoppiettare dentro di me, solo la notte ci divideva, aspettavo quieto e pensante come un cowboy di fronte a un falò in una notte stellata, soltanto il sole avrebbe svelato la strada.
Le sue popolose strade sono un groviglio di etnie e stili differenti, lunghissimi viali alberati s’incrociano con le interminabili file di negozi e ristoranti per poi svanire nel nulla in perfetto stile americano.
L’indirizzo era quello giusto, l’insegna gialla riportava caratteri orientali in quella che un tempo era la bottega di Luigi, ora sorgeva un pessimo ristorante cinese.
Mi sono guardato allo specchio, dove era riflesso quell’orribile gatto che mi salutava con la zampa e che pareva sbeffeggiarsi di me. Il mio viso deluso era un libro aperto, ma non potevo aspettarmi altro dopo un secolo dalla sua chiusura.
Chinandomi per andare via, un uomo con un abito grigio mi scontra: due scarpe in cuoio consumate sulla punta si avvicinano a me, la sua mano raccoglie il mio zaino e me lo porge, pronunciando con una voce calda e familiare un semplice “chiedo scusa”. Poi, si allontana e, prima di voltare l’angolo, calza il cappello per sparire con la sua valigia mischiandosi tra folla.
Diego Arbore