In Portogallo è accaduto un fatto grave che in pochi hanno sottolineato. Nonostante la maggioranza assoluta in Parlamento, il presidente Silva si è rifiutato di nominare il governo in quanto quest'ultimo porta avanti un programma ostile ai dettati di Bruxelles e dei mercati finanziari. Questo gesto conferma che il processo d'integrazione europea non può essere arrestato da un'espressione di voto democratica
Nel silenzio generale lo scorso 22 ottobre il Presidente del Portogallo Cavaco Silva ha rivolto un discorso cruciale alla nazione (qui in lingua originale), tentando di spiegare perché si sia rifiutato di nominare un governo di sinistra, anche se gode della maggioranza assoluta nel Parlamento. Questa decisione clamorosa, che non ha precedenti, è stata motivata dalla prima carica dello Stato portoghese facendo esplicito riferimento al fatto che la coalizione guidata dal socialista Antonio Costa porta avanti un programma ostile ai dettati di Bruxelles e dei mercati finanziari.
Secondo Cavaco Silva non solo: «L’Unione Europea è una scelta strategica per il paese»; ma anche «il rispetto degli impegni assunti nell’ambito della zona euro è decisivo». Pertanto egli ha ritenuto di doversi avvalere delle sue prerogative costituzionali per «impedire che vengano mandati falsi segnali alle istituzioni finanziarie e agli investitori internazionali».
La gravità di queste parole è già stata sottolineata da Ambrose Evans Pritchard sul Telegraph: esse teorizzano esplicitamente il principio che il processo d’integrazione europea non possa essere arrestato da un’espressione di voto democratica. I cittadini possono eleggersi dei governi solo a patto che siano governi favorevoli a quello che si è stabilito a Bruxelles: altrimenti la questione viene dichiarata subito di “interesse nazionale strategico” e, in quanto tale, non più sindacabile.
Questa idea di “democrazia”, dove si può scegliere “liberamente” una sola alternativa, non è nuova alle logiche di chi vuole l’integrazione comunitaria a tutti i costi: basti pensare, a titolo di esempio, alla vicenda del doppio referendum irlandese. La novità della vicenda portoghese, tuttavia, è che non sono più necessarie giustificazioni per salvaguardare le apparenze.
Dire quello che dieci o vent’anni fa sarebbe suonato orrendamente fascista, ossia che non bisogna sempre rispettare la democrazia, oggi non desta più tutto questo scandalo. Nel frattempo, infatti, sono passati alcuni messaggi che hanno contribuito a rendere accettabile questa prospettiva: e forse conviene soffermarsi un attimo a considerarli.
Il più diffuso argomento a favore della sospensione della democrazia è che i diritti e l’autonomia politica non sono gratis, ma bisogna guadagnarseli. Secondo i vari teorici della “durezza del vivere” che si aggirano per social network e talk-show, un paese che non è stato in grado di gestirsi finanziariamente non ha il diritto di lamentarsi, se poi diventa dipendente dai soldi degli altri.
È rimasto famoso, a questo proposito, il tweet del giornalista del Corriere Beppe Severgnini, che lo scorso luglio, quando l’eurogruppo a guida tedesca si preparava a fare carne da macello della Grecia con una serie di richieste pesantissime, dopo la farsa del referendum, commentò compiaciuto: «Se i bambini si comportano male, è inevitabile: arriva la babysitter tedesca. Informare @yanisvaroufakis, per favore».
Alla base di questa visione sta la distinzione tra paesi (e relativi governanti) che sanno fronteggiare i problemi reali e paesi che non lo sanno fare. La capacità di sapersi ricavare le condizioni materiali necessarie a sostenere la propria autonomia, insomma, giustificherebbe non solo l’effettiva indipendenza di cui gode un popolo, ma anche la pretesa di esercitare un ruolo guida rispetto agli altri.
Questo darwinisimo dei rapporti internazionali, tuttavia, non ha alcuna giustificazione morale o politica. Innanzitutto non è così semplice determinare di chi è la colpa e quali responsabilità debbano essere accettate come conseguenza di questa colpa. Infatti, benché non si possa escludere a priori che una classe politica inadeguata abbia commesso degli errori, non si può nemmeno fingere che i paesi creditori non abbiano interesse a colpevolizzare i paesi debitori per costringerli ad adottare misure di contenimento della spesa e rientrare così dai crediti.
Il Portogallo secondo gli ultimi dati disponibili ha un rapporto debito/PIL molto elevato, al 128,7%: il che sembrerebbe confermare un eccesso di indebitamento riconducibile allo schema “colpa”. Eppure nel 2007, alla vigilia della crisi Lehman Brothers, questo indicatore era solo al 68,4%: praticamente la metà. Ancora nel 2010, prima che il paese si consegnasse nelle mani dei creditori, ci si era fermati a quota 94%, che è equivalente all’attuale media di tutta l’eurozona (92,2%).
È evidente, insomma, che al Portogallo è stato fatale, per precipitare nella spirale del debito soprattutto lo scossone dei mutui sub-prime americani, prima, e le politiche di austerità magnificate da Bruxelles, poi: e dunque non ha molto senso scaricare tutte le colpe sulla politica locale. Senza contare che, naturalmente, il debito pubblico non c’entra nulla con la crisi; cosa che recentemente ha dovuto ammettere persino un economista mainstream come Francesco Giavazzi.
La realtà, dunque, è che è facilissimo dire che la colpa è dei popoli: ma il rischio concreto è che si finisca deliberatamente per scambiare le vittime con i carnefici. Il punto essenziale, tuttavia, è un altro. Se anche fosse possibile stabilire con rigore e assoluta imparzialità di giudizio chi è responsabile di che cosa, rimane comunque il fatto che questa valutazione non darebbe a nessuno la prerogativa di tirare in ballo questioni finanziarie per intromettersi nell’autonomia politica degli altri.
I diritti e la democrazia non dipendono in alcun modo dalle condizioni materiali: al contrario, sono i rapporti economici che si devono sviluppare a partire da un dato contesto di principi politici. Se così non fosse, allora, si potrebbe trovare il modo di argomentare anche che, in condizioni di particolare penuria, è lecito buttarsi nel commercio degli schiavi; magari sostenendo che sì, la schiavitù non è una bella cosa, ma bisogna prima mangiare: e i diritti non apparecchiano la tavola.
Naturalmente oggi nessuno sosterrebbe una cosa del genere: eppure il principio è esattamente lo stesso di chi vorrebbe aggirare la democrazia, accusandola di condurci verso la strada della povertà. Ma la democrazia, come possibilità di tutti di partecipare alle decisioni politiche e di condividerne la responsabilità, non è un principio negoziabile: non è qualcosa che si possa sospendere quando i risultati non sono conformi alle nostre aspettative. Si può (e si deve) discutere se un dato sistema politico sia o meno corrispondente all’ideale democratico: ma si tratta di un’altra questione; che comunque andrebbe sollevata ben prima di votare, non dopo.
Se in particolare una decisione democratica avesse davvero l’effetto di condurre un paese verso il tracollo finanziario, allora bisognerebbe interrogarsi seriamente sullo stato di salute di quella democrazia (perché di solito non è nell’interesse di un popolo suicidarsi); ma se anche non ci fosse stata alcuna distorsione, se non altro quel paese dovrebbe prendersela solo con se stesso. È questo, infatti, uno dei vantaggi della democrazia: che minimizza le recriminazioni seguenti a decisione sbagliate (dato che la responsabilità è condivisa dal più ampio numero di persone possibile).
Non esistono, dunque, ragioni materiali per derogare a fondamentali principi politici. Quando facciamo questo giochino di evocare la “dura realtà” per far vedere che sappiamo, al di là delle belle parole, come vanno davvero le cose al mondo; quando parliamo con leggerezza delle colpe dei popoli; quando scrolliamo le spalle di fronte a evidenti abusi delle nostre più elementari conquiste politiche; quando facciamo tutto questo, insomma, non dobbiamo illuderci di aver capito: perché ci stiamo solo abituando a farci andare bene quel che è peggio. E come è noto, al peggio non c’è mai limite.
Andrea Giannini