add_action('wp_head', function(){echo '';}, 1);
Il capoluogo ligure è diventato sede ‘solo’ di un deposito di smistamento, ecco come stanno andando le cose
Con l’apertura, a ottobre, del nuovo deposito a Campi Amazon rafforza la sua presenza anche a Genova, nell’anno della crescita record favorita dal covid. Ma il dibattito, fermo ai numeri sui posti di lavoro creati e al grido di dolore del commercio tradizionale, non inquadra i veri termini della questione.
Negli ultimi giorni di ottobre di quest’anno, qualcuno o qualcuna ha acquistato su Amazon il romanzo di Nancy Springer “Enola Holmes: il caso del marchese scomparso”. È stata la prima volta che un acquisto effettuato su Amazon è passato dal nuovo deposito di smistamento della stessa Amazon a Genova Campi, entrato ufficialmente in funzione lo scorso 28 ottobre. Il lettore/la lettrice è probabilmente genovese ma potrebbe risiedere anche a La Spezia o Alessandria, altre province in parte servite dalla nuova struttura.
In queste settimane, con la stagione degli acquisti natalizi e un settore del commercio tradizionale martoriato dal covid-19 (ma in crisi, almeno a Genova, da ben prima della pandemia), di Amazon si sta parlando molto. I commentatori si dividono tra chi crede che il colosso dell’e-commerce faccia una concorrenza troppo forte e persino sleale a negozi e centri commerciali fisici e chi invece sostiene che questi dovrebbero adeguarsi e, per esempio, aprire un proprio spazio sulla piattaforma. Le circostanze di quest’anno portate dalla pandemia, con milioni di consumatori di tutto il mondo costretti a casa e altrettante attività fisiche costrette a chiusure parziali o totali, hanno rafforzato ulteriormente Amazon e l’e-commerce in generale e dato ulteriori argomenti a entrambe le posizioni. La ribellione dei piccoli contro la multinazionale o lo sbarco nell’inevitabile nuovo mondo dell’e-commerce, poco importa se visto come un destino da accettare o un’opportunità da cogliere.
Le associazioni di categoria assumono posizione spesso difensive. Quest’anno hanno chiesto al Governo di fare come in Francia, dove la giornata principale del Black Friday è stata rinviata al 4 dicembre, quando l’allentamento di alcune delle restrizioni in vigore potrebbe aver consentito ai negozi fisici di concorrere in modo più equilibrato con il super evento di sconti annuale di Amazon. Il Governo italiano, però, non ha modificato le date dell’evento, che si è concluso lo scorso 27 novembre. In Francia è nata anche la campagna a sostegno dei negozi fisici #NoelSansAmazon (Natale senza Amazon) che alcune organizzazioni del piccolo commercio hanno cercato di proporre anche in Italia. La Camera di Commercio di Genova e delle Riviere della Liguria per la stagione degli acquisti di Natale ha proposto la campagna #comprasottocasa, dai contenuti simili.
Eppure, quando Amazon ha aperto il suo centro di smistamento a Genova il dibattito si è limitato agli annunci sui nuovi posti di lavoro che si sarebbero creati e a una polemica presto disinnescata sui camion per il trasporto delle merci, che lo scorso inverno sembrava dovessero parcheggiarsi nell’area di Villa Bombrini, destinata però ad altri progetti per gli abitanti di Cornigliano. La scelta sembrava essersi resa necessaria dall’indisponibilità dell’autoparco di Campi, di proprietà dell’ingegner Aldo Spinelli, a causa dei lavori di ricostruzione del ponte Morandi. Ma dopo le polemiche degli abitanti di Cornigliano fu lo stesso Spinelli ad annunciare la disdetta degli accordi con i sindacati dei trasporti e una rimodulazione del progetto (diluito nel tempo in attesa di un autoparco definitivo).
Forse anche questi imprevisti hanno costretto al ridimensionamento degli annunci sui nuovi posti di lavoro, ad oggi ben meno trionfali di quelli iniziali. In un’intervista rilasciata sempre a Primocanale per i suoi 80 anni, lo scorso 10 gennaio ancora Spinelli prevedeva 125 posti di lavoro sin dall’apertura dell’impianto e 300 in vista della stagione natalizia, quando il carico di lavoro aumenta. Ma al momento dell’apertura, il 28 ottobre, il comunicato di Amazon prevedeva che il nuovo centro avrebbe creato “nei prossimi anni” 30 posti di lavoro a tempo indeterminato per operatori di magazzino e 70 a tempo indeterminato per autisti incaricati di ritirare gli ordini dal deposito e di distribuirli ai clienti finali (oltre a quelli già attivi da prima dell’apertura del centro). A nostra richiesta, l’ufficio stampa di Amazon ci ha informato che ad oggi lavorano presso il deposito «circa 23 dipendenti a tempo indeterminato, più gli autisti dei nostri fornitori di servizi di consegna». «Le selezioni degli operatori di magazzino – ci dice sempre la compagnia – vengono gestite da agenzie interinali locali. Amazon non ricorre in nessuna occasione a cooperative. Gli autisti sono invece assunti direttamente dei fornitori locali di servizi di consegna che collaborano con Amazon Logistics».
Opportunità persa o pericolo scampato?
Il nuovo magazzino aperto a Genova è un “deposito di smistamento”. Nel gergo di Amazon, con questo termine si indica una struttura più piccola e con meno funzioni di un “centro di distribuzione”. «I centri di distribuzione – ci spiegano dall’azienda – sono in generale centri logistici di grosse dimensioni in cui i prodotti vengono stoccati e spediti una volta ricevuto l’ordine del cliente. I depositi di smistamento sono invece funzionali alla gestione dell’ultimo miglio. Si tratta di centri di dimensioni più piccole, situati in posizione strategica rispetto ai centri urbani, in cui ogni giorno arrivano ordini provenienti dai centri di distribuzione che vengono smistati in base alla loro destinazione finale».
il paradosso di merci che sbarcano a Genova, viaggiano in camion a Torino o Piacenza dove vengono stoccate per poi tornare nel nuovo deposito di Campi ed essere distribuiti a clienti genovesi
Per farci un’idea il nuovo deposito genovese occupa un’area di 7mila metri quadrati, contro i 60mila del centro di Torrazza Piemonte a Torino, uno dei sei (di cui due aperti nel 2020) presenti in Italia. Come possiamo vedere dalla mappa, di questi sei cinque sono distribuiti nel nord Italia. Forse per questo a Genova Amazon ha optato per questa scelta – se vogliamo – di serie b, nonostante la presenza di un’infrastruttura come il porto. Anche con il rischio di generare il paradosso di merci che sbarcano a Genova, viaggiano in camion a Torino o Piacenza dove vengono stoccate per poi tornare nel nuovo deposito di Campi ed essere distribuiti a clienti genovesi.
Difficile quindi quantificare con precisione l’impatto che un magazzino dalle funzioni limitate avrà. Il contesto economico per molti versi inedito generato dalla pandemia rende anche scivoloso ogni parallelo con situazioni esistenti. Ma è grazie a questa infrastruttura di magazzini, estremamente fisica a dispetto dell’idea di azienda “digitale” che spesso associamo ad Amazon, che la piattaforma fondata nel 1994 da Jeff Bezos si diffonde in modo sempre più capillare. Ogni centro di distribuzione e ogni deposito di smistamento fa arrivare un po’ più velocemente il nostro ordine a casa nostra e rende Amazon un po’ più conveniente rispetto ai negozi fisici.
Ospitare un’azienda come Amazon in una città non è quindi una scelta neutrale, ma si porta dietro una serie di conseguenze che vanno ben oltre i posti di lavoro diretti o generati nell’indotto. Non è un caso che se ne siano accorti ormai da tempo negli Stati Uniti, dove Amazon è una realtà più radicata che in Europa e il dibattito e quindi più maturo. La regolamentazione delle grandi corporation è centrale nel dibattito politico americano soprattutto a sinistra, dove nel corso delle primarie del partito democratico poi vinte da Joe Biden una candidata come la senatrice Elisabeth Warren proponeva il loro spezzettamento per contrastare il loro potere di monopolio.
Nel 2019 le forti polemiche di cittadini e amministratori locali hanno spinto Amazon a rinunciare alla costruzione di un quartier generale nel quartiere di Queens, a New York City. Un impianto che avrebbe dovuto ospitare circa 25mila lavoratori e, secondo alcune stime, avrebbe garantito allo Stato e alla città di New York un gettito fiscale di 27,5 miliardi di dollari nei successivi 25 anni. In cambio però di generosi incentivi fiscali che in definitiva i legislatori hanno ritenuto eccedere i benefici. Come spiega l’autore e accademico Nicola Melloni sull’edizione italiana di Jacobin, magazine della sinistra radicale, Amazon sfrutta da anni i meccanismi del federalismo competitivo statunitense, bandendo delle specie di aste in cui gli Stati competono a suon di sconti e incentivi fiscali per ospitare i magazzini dell’azienda con il loro carico di posti di lavoro. Con il risultato però che le casse pubbliche si svuotano, i fondi per i servizi sociali si assottigliano e le città sono talvolta costrette ad adattarsi ad Amazon, più che l’opposto.
La presenza di Amazon ha delle conseguenze anche molto dirette nei luoghi dove sceglie di far sorgere i suoi quartier generali. Il quartiere South Lake Union di Seattle, capitale dell’impero globale di Amazon, ha un rapporto stretto con l’azienda di Jeff Bezos, al punto da essere stato soprannominato Amazonia dai suoi stessi abitanti. «La città ha avuto una spinta senza precedenti dal punto di vista economico, con la creazione di 220mila nuovi posti di lavoro negli ultimi dieci anni – scrive Harrison Jacobs in un suo reportage del 2017 pubblicato in Italia da Business Insider – ma ha dovuto pagare un prezzo elevato». L’espansione immobiliare dell’azienda (che a Seattle ha uffici dove lavorano impiegati di alto livello, oltre a magazzini) l’ha resa tra i principali locatari cittadini, con possibilità di scegliere a quali realtà concedere i suoi spazi e a quale prezzo. L’arrivo in massa di lavoratori ben pagati e l’espansione della compagnia ha inoltre fatto lievitare i prezzi di abitazioni e uffici. Un tempo città economica, negli ultimi 10 anni Seattle ha visto crescere il valore medio degli affitti fino a tre volte la media nazionale ed è diventata la terza città degli Stati Uniti per numero di senza tetto. Vivere nel centro di Seattle richiede ormai un reddito annuale di almeno 96mila dollari. E il traffico è costantemente congestionato dai fattorini della compagnia.
La capacità di creare posti di lavoro e ricchezza (pur con tutte le controindicazioni del caso) si traduce inevitabilmente in influenza politica. Nel 2018 il Consiglio cittadino stava discutendo l’introduzione di una tassa sulle maggiori compagnie che operavano in città, inclusa ovviamente Amazon. L’azienda finanziò l’opposizione al progetto e minacciò di sospendere la costruzione di un nuovo centro che avrebbe dato lavoro a 7mila persone, e la legge fu ritirata. Una tassa è poi stata introdotta quest’anno per contrastare gli effetti economici della crisi portata dal covid e per iniziative a favore di poveri e senzatetto.
La situazione italiana ed europea è molto diversa da quella statunitense e un deposito di smistamento non renderà Genova la “Amazonia” italiana. Il racconto di Jacobs e lo scontro con il Consiglio cittadino di Seattle sulle tasse sono però utile per farsi un’idea di fino a che punto può spingersi l’influenza di Amazon e di quanto le grandi corporation di nuova generazione siano diventati a tutti gli effetti soggetti politici, capaci di influenzare le scelte collettive e la realtà che li circonda e di rimodellare i tessuti urbani in cui sono inseriti.
Da parte sua, Amazon non vuole certo passare per la multinazionale assassina delle realtà più piccole e tradizionali che molti descrivono. In un tessuto economico fatto soprattutto di piccole e medie imprese come quello italiano, lo scorso 24 novembre Amazon Italia ha lanciato “Accelera con Amazon”, un piano di formazione per la crescita e la digitalizzazione delle piccole e medie imprese. All’evento erano presenti anche i ministri degli Esteri Di Maio e dello Sviluppo Economico Patuanelli.
Inoltre «Sono oltre 14.000 le piccole e medie imprese italiane che vendono su Amazon.it e che hanno registrato vendite all’estero per più di 500 milioni di euro – ci fanno sapere dall’ufficio stampa di Amazon Italia – Di queste, circa 600 le realtà che hanno superato il milione di dollari in vendite. Ad oggi, le piccole e medie imprese italiane che vendono su Amazon.it hanno creato oltre 25.000 posti di lavoro. Da giugno 2019 a maggio 2020, i partner di vendita italiani hanno registrato vendite per una media di oltre 75.000 euro ciascuno, ed hanno venduto in media più di 100 prodotti al minuto nei nostri negozi online».
Inoltre i lavoratori impegnati a tempo pieno nel periodo del picco natalizio riceveranno un bonus in busta paga di 300 euro lordi (il bonus sarà parziale per chi lavora part-time). Un investimento del resto pienamente abbordabile da parte dell’azienda, che quest’anno è stata senza dubbio tra le vincitrici nel contesto della crisi causata dalla pandemia. Tra settembre 2019 e settembre 2020 Amazon ha realizzato un flusso di cassa operativo (le entrate al netto degli investimenti) di 55,3 miliardi di dollari, in aumento del 56% rispetto all’anno precedente. Nel terzo trimestre del 2020 l’utile netto è stato di 6,3 miliardi di dollari, il triplo di quello dell’anno precedente. Numeri che hanno consentito ad Amazon di quasi raddoppiare la propria forza lavoro solo tra gennaio e ottobre, assumendo 427.300 persone (in media 1.400 assunti al giorno) e arrivando ad avere 1 milione e 200 mila dipendenti in tutto il mondo . Un ritmo di assunzioni che alcuni studiosi paragonano a quello dell’industria bellica statunitense ai tempi della seconda guerra mondiale. La crescita è stata particolarmente pronunciata proprio in Italia, tra i Paesi più colpiti dalla pandemia e dove l’abitudine di fare acquisiti era relativamente meno diffusa che altrove.
Numeri di una realtà ormai inevitabile, con cui le autorità pubbliche e le associazioni di categoria non possono evitare di fare i conti. Iniziando, tanto per cominciare, a inquadrare i termini della questione.
Luca Lottero