Il valore del materiale scavato arriverà a toccare i 90 milioni, ma sul territorio resterà soltanto il 2,4%. E un grande buco
Monte Gazzo – Foto Wikipedia CC Bbruno
La Regione Liguria con deliberazione del 26 maggio 2020 ha approvato il nuovo PTRAC, ossia il Piano Territoriale Regionale delle Attività di Cava. Vent’anni dopo l’approvazione del precedente ‘Piano Cave’, la Liguria si dota di un nuovo strumento al passo con le attuali ‘esigenze produttive’ della regione. Il Piano assicurerebbe l’approvvigionamento dei materiali da costruzione necessari al fabbisogno regionale delle opere edili, conciliando allo stesso tempo l’interesse economico e strategico dello sfruttamento dei giacimenti con la tutela del paesaggio e del suolo. Almeno sulla carta.
L’attività di cava è un’attività economica di non trascurabile importanza, finalizzata al reperimento di materiali litoidi fondamentali per realizzare infrastrutture, opere di difesa costiera e spondale, per l’edilizia e il ripascimento delle spiagge. Le attività estrattive in Liguria risalgono al Medioevo, perciò troviamo nei centri storici della regione – nei muretti a secco e nei rivestimenti architettonici ad esempio – i materiali litoidi che una volta venivano impiegati nelle costruzioni: da qui la necessità di reperire la materia adeguata alla manutenzione delle infrastrutture urbane tramite nuove escavazioni.
L’attività estrattiva ha subito negli ultimi anni la crisi del settore edilizio e questo nuovo piano tenta di stabilire un equilibrio tra gli interessi del settore estrattivo e la necessità di preservare la riserva del giacimento, in quanto si tratta di risorsa non rinnovabile. Il settore estrattivo in Liguria interessa 53 Comuni e impegna un migliaio di persone nell’intera regione, ne deriva quindi la necessità di difendere dei posti di lavoro all’interno di un’attività strategica e di primaria importanza per l’economia. A conti fatti, il nuovo Piano Cave di Regione Liguria restringe da 75 a 53 i siti estrattivi, regola il ripristino del paesaggio per le cave ormai chiuse e mette ordine al settore dopo un ventennio. Il PTRAC non ammette l’apertura di nuove cave e miniere – compresa l’effettuazione di sondaggi a scopo minerario –, riduce del 30% il numero di cave e del 50% il numero dei depositi degli scarti da estrazione dell’ardesia, ma consente di reperire i materiali necessari nelle attività che già operano nel settore, per le quali si prevedono ampliamenti del 14%. Inoltre, è stato stabilito l’obbligo, per tutte quelle cave che hanno esaurito l’attività estrattiva, di ricomporre il paesaggio e l’ambiente nell’ottica di una valorizzazione dei siti a scopo turistico-ricettivo. Il recupero dovrà essere realizzato a fini naturalistici, privilegiando la creazione di zone umide e boschive.
“La legge regionale che si occupa dell’attività estrattiva è la legge n. 12 del 5 aprile 2012: questa prevede l’adozione di un piano di attività di cava, il quale è stato approvato in Consiglio regionale per il luglio di quest’anno, dopo 20 anni. Ha valenza decennale e disciplina quelle che sono le attività d’estrazione possibili all’interno della regione Liguria”, ci spiega il consigliere del Partito Democratico Luca Garibaldi. “Rispetto agli anni passati – continua – molte cave che avevano la possibilità di essere utilizzate, sono state invece cancellate dal piano, mentre in altre le previsioni di estrazione sono state limitate e c’è un’attenzione particolare alla parte degli interventi post esaurimento delle cave, in termini di ricomposizione ambientale. Tuttavia, noi, ci eravamo astenuti perché c’era ancora una lettura poco convincente”. Per quanto concerne il meccanismo economico che ruota intorno alle attività di cava, il quadro normativo prevede quanto segue: “Il titolare della concessione – ci racconta Garibaldi – è tenuto a versare un contributo al comune e alle Regione, il quale è commisurato al tipo e alla quantità di materiale estratto l’anno precedente. Oltre a questo, il titolare dell’autorizzazione deve corrispondere al proprietario del fondo anche un indennizzo annuo per ogni metro cubo di materiale estratto e, se ha ereditato altri materiali, impianti od opere da terzi, deve corrisponde a questi soggetti una parte di indennizzo. La contribuzione quindi per il titolare dell’autorizzazione è di tre tipi”.
Per quanto riguarda il contributo di estrazione, l’articolo 14 della legge n. 12/2012 stabilisce che “il titolare dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività estrattiva è tenuto a versare entro il 31 maggio di ogni anno un contributo commisurato al tipo e alla quantità del materiale estratto nell’anno precedente, applicando i seguenti parametri: materiali da taglio e da rivestimento 0,35 euro a tonnellata; materiali per usi chimico-industriali, edile stradale e per manufatti: 0,58 euro a tonnellata; sabbie e ghiaie da terreno alluvionale: euro 2,36 a tonnellata”.
Materiale che entra nella filiera edile, e che dopo vari passaggi arriva al consumatore con un carico di prezzo vertiginoso, se si pensa che una tonnellata di ghiaia può arrivare a costare fino a 45 euro, vale a dire il 1900% di quanto rimane sul territorio, cioè del costo della materia prima.
Tale contributo annuale è di spettanza del Comune o dei comuni interessati per territorio – ad eccezione della quota di un trentesimo di tale contributo, che è da versare direttamente alla Regione per le attività di programmazione e gestione – i quali destinano i contributi percepiti ad interventi di riqualificazione ambientale e di riequilibrio idrogeologico. Per il titolare dell’autorizzazione vige poi l’obbligo, entro il 31 marzo di ogni anno, di fornire i dati sull’attività svolta nell’anno precedente, compreso il quantitativo di materiale estratto e l’importo del contributo di estrazione da versare al Comune e alla Regione.
Monte Gazzo, le cave – Foto credits CC Ivano Dapino
Per via della sua struttura calcarea il Monte Gazzo di Sestri Ponente nel corso dei secoli è stato protagonista di un’intensa attività estrattiva che ha pesantemente intaccato e modificato il suo aspetto originale, distruggendo anche le numerose grotte che si aprivano sui suoi fianchi, lasciandone soltanto alcuni tratti. Lo sfruttamento del monte risale all’Alto Medioevo: lo testimoniano la presenza di antiche calcinaie, cioè dei forni per la cottura del materiale calcareo da cui si otteneva la calce, reperti ancora in ottimo stato e che ne arricchiscono il paesaggio. A partire dagli anni Cinquanta, però, l’attività estrattiva ha assunto un aspetto industriale ad alto sfruttamento, allargando l’estrazione alle rocce di dolomia triassica le quali forniscono materiale molto resistente da costruzione.
La produzione di inerti è fondamentale per tutto il settore dell’edilizia e delle opere pubbliche, ma insieme alla salvaguardia occupazionale, dovrebbe essere assicurata anche la completa tutela del patrimonio naturale, dalla cui protezione dipende anche il contrasto al dissesto idrogeologico tanto diffuso nella fragile Liguria. Nelle schede depositate dalle associazioni ambientaliste nelle commissioni di competenza, tra fine gennaio e metà febbraio 2019, già si chiedevano ‘bonifiche urgenti’ dei siti abbandonati, oltre ad un occhio di riguardo per il rispetto dell’equilibrio dell’ambiente e delle sue biodiversità. Le numerose cave attive, oggi in parte dismesse, hanno avuto un notevole impatto sulla morfologia dell’area. Infatti, il Monte Gazzo è divenuto celebre forse più per la sua sagoma ‘mangiata dalle cave’, riconoscibile a chilometri di distanza, che non per l’antico santuario che sorge sulla sua vetta ospitante la statua della Madonna. Sulle sue alture permane una convivenza assai difficile tra zone meravigliose dal punto di vista naturalistico e improvvise diramazioni di ampi fronti di cava, che si sviluppano per centinaia di metri.
Per i poli estrattivi oramai chiusi da decenni il piano ne ha previsto l’eliminazione: dovranno essere predisposti tutti gli interventi di carattere igenico-sanitario-ambientali finalizzati al ripristino dei siti oggetto di cessazione dell’attività di cava, rispettando la natura e la salute pubblica, evitando che possano divenire – come è già accaduto – vere e proprie discariche di rifiuti, anche speciali. Oggi è in via di istituzione il ‘Parco Urbano del Monte Gazzo’ sotto il patrocinio del comune di Genova: il nuovo polmone verde prenderà forma sul versante sud del monte, sarà esposto al mare e limitrofo al centro abitato. Il progetto di ricomposizione ambientale e paesaggistica del sito dovrà prevedere l’utilizzo di essenze tipiche dei luoghi, in maniera tale che possano svilupparsi autonomamente e riportare l’intero complesso ad uno stato di naturalità, seppur con forme fortemente antropizzate.
1Dall’analisi inclusa nel Piano emerge che – per il prossimo decennio – per la Liguria occorrerebbe un fabbisogno di 30 milioni di metri cubi di inerte da costruzione, di cui 24 milioni di calcare. Unicamente per l’area di Genova sarebbero necessari oltre 5 milioni di metri cubi di calcare, volume non coperto dalle cave attuali, la cui produzione è già quasi interamente prenotata per il Terzo Valico. Nel momento in cui dovesse prendere il via la Gronda, gli approvvigionamenti raggiungerebbero livelli critici, anche perché il documento evidenzia un notevole divario tra la disponibilità nelle cave attive del genovesato – ma non solo – e il reale fabbisogno di inerte. Un gap che poteva essere in parte colmato con la riapertura dell’ex cava Conte, che vale circa 4 milioni di metri cubi di materiale calcareo per edizlia; tuttavia, soltanto le cave Gneo e Giunchetto, posizionate a Nord dell’ex cava Conte, sono state considerate nel PTRAC, per una previsione estrattiva di circa 3 milioni di metri cubi, principalmente dalla cava Giunchetto. Per esse sono stati presi in considerazione degli ampliamenti, mentre l’ex cava Conte – coltivata sino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso – è stata esclusa, con conseguente abbandono potenziale di una cubatura notevole di calcare dolomitico, considerando il contesto molto deficitario per gli approvvigionamenti. I poli di calcare dolomitico in provincia di Genova, infatti, sono soltanto due, il Monte Gazzo a Genova e il Monte Castellaro a Campomorone.
Le attività di cava, in generale, generano più risvolti negativi che positivi, soprattutto in termini di impatto ambientale e, di conseguenza, di qualità di vita per l’uomo. Gli effetti di tali attività si ripercuotono sull’aspetto dei luoghi d’insediamento, distruggendone inevitabilmente il valore paesaggistico e facendone decadere il valore turistico. In secondo luogo, le operazioni di cava richiedono un enorme movimentazione ed escavazione di terreno, perciò esercitano un impatto fortemente negativo su flora, fauna ed sugli habitat. Si tratta di opere che vanno spesso a sconvolgere gravemente gli equilibri degli ecosistemi e che possono comportare danni a intere comunità animali e vegetali. A livello di ecosistema si devono affrontare, tra le altre cose, le conseguenze che l’alterazione dei flussi idrici superficiali e sotterranei avrebbero a catena sulle specie più vulnerabili e specialistiche, in particolare quelle minacciate a livello globale.
Monte Gazzo visto da Sestri – Foto credits CC Alessio Sbarbaro
Dapprima il Piano prevedeva l’ampliamento e la realizzazione di nuovi poli estrattivi in aree ancora integre e ad alto valore paesaggistico, ma l’avanzamento di tale programma ha subito uno stop: spesso le aree di cava, se non vengono prontamente ripristinate e ri-ambientate, possono essere oggetto di fenomeni di dissesto erosivo ed idrogeologico, con grave pregiudizio per l’ambiente oltre che per la salute umana. Ampliamenti e/o nuovi interventi di attività sarebbero in grado di incidere negativamente, per effetto indiretto e cumulativo, sugli elementi della natura presenti. Alcuni luoghi, data la valenza che ricoprono a livello storico e paesaggistico, non possono essere oggetto di una trasformazione così incisiva, anche perché l’estrazione non ricompenserebbe l’elevato costo che eventuali disagi produrrebbero, basti pensare al transito dei mezzi pesanti funzionali all’attività di cava in un contesto di viabilità totalmente inadeguata, alle interferenze con l’abitato, all’impatto ambientale e a quello acustico.
Ma non solo: il gap tra valore di mercato del materiale e contributo versato dal privato che lo estrae all’ente pubblico è molto svantaggioso per il territorio che ospita una cava. Quanto viene estratto dal Monte Gazzo è un inerte calcareo ottimo per l’edilizia, che sul mercato ha un prezzo che oscilla tra i 14 e i 20 euro a tonnellata, mentre come abbiamo visto al territorio rimane circa 0,5 euro a tonnellata. Tenendo conto che un metro cubo di materiale equivale a circa 1,5 tonnellate di peso, il calcolo per il Gazzo è presto fatto: i 4,5 milioni di tonnellate che saranno estratte nei prossimi anni produrranno un valore di circa tra i 63 e 90 milioni, contro un “questua” lasciata agli enti locali di appena 2,2 milioni, ovvero un valore tra il 3,5 e il 2,4% del valore “prodotto” dal monte svuotato.
Conclusioni: a quando la ricerca di fonti alternative?
Sì che il settore estrattivo occupa una fetta importante dell’economia Ligure e che tali materiali sono necessari per la manutenzione delle città e la costruzione di nuove infrastrutture, ma a quale costo? Il risultato è un monte deturpato dall’uomo, la cui bellezza originaria è scomparsa ormai da tempo e un ecosistema a rischio: davvero non c’è un’altra soluzione alle estrazioni? In un’ottica di ‘green economy’ forse la Liguria dovrebbe orientarsi verso la ricerca di strade alternative di reperimento dei materiali adeguati alle costruzioni, rispetto alle pericolose estrazione di materiali vergini. O rivedere alla radice le esigenze che creano questa “fame” di materiale da cava.
Una soluzione in grado coniugare la salvaguardia del lavoro degli operai, e allo stesso tempo dell’ambiente, potrebbe essere quella di recuperare i materiali provenienti dalle demolizioni. Mentre negli altri paesi europei – ai primi posti troviamo Olanda, Irlanda, Germania e Danimarca – si ricicla fino al 98% dei rifiuti provenienti dalle costruzioni e dalle demolizioni, l’Italia sembra rinunciare ad aprire le porte ad un settore innovativo come quello del recupero degli inerti, che vanno praticamente tutti in discarica. Oltre a sostituire o comunque ridurre al minimo l’attività di cava, si risparmierebbero i paesaggi e si aumenterebbero i posti di lavoro. Il rapporto di Legambiente 2017 stimava, infatti, che per una cava da 100mila metri cubi gli addetti in media sono 9, mentre per un impianto di riciclaggio di inerti gli occupati sono più di 12. Ma questa non è l’unica alternativa, perché tonnellate di materiale utile potrebbe essere recuperato dalla pulizia dei fiumi e dall’asportazione dei litoidi dagli alvei: in questo modo si chiuderebbe un cerchio che vedrebbe i letti dei fiumi più puliti, meno alluvioni e più materiale per le costruzioni e/o manutenzioni. Sono soluzioni di riciclo ‘momentanee’ poiché l’asticella della produzione tenderà sempre a salire, ma il punto è che non si potrà scavare per sempre. Occorre probabilmente impegnarsi in un’altra direzione, piuttosto che nell’ennesima operazione di escavazione e investire nella bioedilizia al fine di realizzare del materiale da costruzione totalmente green e in armonia, finalmente, con la natura e con l’uomo.
Paola Alemanno