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Quello che sfugge ai più, che è poi anche l'unica vera lezione politica che la vicenda greca ci consegna, è che non si può fare la lotta all'euro a giorni alterni. La moneta unica in questa fase è la minaccia principale alla democrazia: e chi non è disposto ad ammetterlo, finisce inevitabilmente per accettare una serie di compromessi
Sostiene Becchetti che le ultime elezioni hanno confermato un fatto: i greci non vogliono uscire dall’euro. L’economista de La Sapienza, nonché blogger di Repubblica, ha così sintetizzato con un tweet un’interpretazione abbastanza diffusa. Se in effetti Tsipras è stato rieletto nonostante i tanto criticati accordi con la Troika, e se la scommessa di “Unità Popolare” (l’ex-fronda interna di Syriza, che si era staccata in polemica sulla moneta unica) è fallita, tanto che il partito non ha raggiunto nemmeno il quorum del 3%, ha forse senso concludere, allora, che i greci non sono interessati a un discorso critico sull’euro.
Ma le cose non stanno così. In realtà nessuno ha mai chiesto al popolo greco cosa ne pensi della moneta unica; né c’è mai stato un serio dibattito pubblico sul tema. Ci vuole un bel coraggio, quindi, anche solo ad ipotizzare una simile ricostruzione dell’inestricabile marasma ellenico. Il modo, anzi, in cui queste leggende metropolitane nascono e si diffondono, tralasciando totalmente avvenimenti epocali e dinamiche macroscopiche, merita una volta tanto di essere smontato pezzo per pezzo per mettere in luce le menzogne che vi si annidano.
Se anche fosse vero che i greci non vogliono uscire dall’euro, ciò non significa che questa sia automaticamente una saggia decisione. Una votazione democratica ha un valore esclusivamente politico: deve misurare la “volontà popolare”, non dare una patente di verità. Ciò significa che un conto è quello che si vuole fare; un altro conto è come stanno in realtà le cose. La volontà è una cosa, la verità un’altra.
Che l’euro sia stata una pessima idea da un punto di vista economico, lo do per acquisito ormai da lungo tempo. Che per la Grecia non esista alcuna prospettiva di vera ripresa economica fintanto che rimane nella moneta unica, lo disse Paul Krugman già nel 2012; e non ha cambiato idea recentemente – perché ovviamente nel frattempo nessuno è riuscito a dimostrare il contrario. La realtà delle cose, dunque, non è in discussione. Naturalmente questo non impedisce ai greci e a tutti gli altri popoli di eleggersi i rappresentanti che vogliono: ma non si vede come un’elezione, per quanto legittima, possa spostare di una virgola il dibattito scientifico.
Pertanto chiunque pensi che lo scarso sostegno elettorale sia la dimostrazione dell’insensatezza di una critica alla moneta unica farebbe una pessima figura; non diversamente da chi pretendesse di dedurre l’inutilità della fisica nucleare dal fatto che al bar sotto casa non se ne parla mai. Si può porre, invece, un problema politico: è possibile coalizzare consensi intorno al tema dell’uscita dall’euro?
Se la Grecia, il paese più colpito dall’austerità, si dimostrasse ancora massicciamente attaccato alla moneta unica, allora si spiegherebbe dove stanno le difficoltà dei partiti euroscettici. Tutto questo attaccamento, però, nei numeri del voto non si vede.
Nel corso del 2015 la nazione che ha inventato la democrazia è andata alle urne ben tre volte: alle politiche del 25 gennaio, al referendum del 5 luglio e alle politiche dello scorso 20 settembre. Nel corso di questi tre eventi si è registrato un vistoso calo dell’affluenza, passata dal 63,9% al 62,5% per poi precipitare al preoccupante 56,6% dell’altro giorno, in cui su 9.826.357 aventi diritto ben 4.269.102 hanno preferito rimanere a casa.
Ora, se a questo numero sommiamo quelli che hanno annullato o lasciato in bianco la scheda (134.297) e quelli che hanno votato per forze nettamente euroscettiche, come Alba Dorata, Unità Popolare e Antarsya (611.340), otteniamo un totale di 5.014.739 elettori (il 51%), che è superiore ai 4.811.618 (il 49%) che hanno votato per gli altri partiti (non tutti, tra l’altro, propriamente “euroentusiasti”, come Anel o i comunisti del KKE).
Certo, in democrazia chi sta a casa non conta. Il Parlamento si compone con i voti di chi si è recato alle urne: e questo rende Tsipras un premier pienamente legittimato. Tuttavia mi chiedo se si possa dire che i greci si vogliono tenere l’euro, quando la maggioranza delle persone o si esprime contro o non va neppure a votare.
Non si tratta di un cavillo: la questione è sostanziale. Alle politiche del 2007, appena otto anni fa, l’affluenza era stata del 74,2%, e i due partiti principali (Nuova Democrazia e i socialisti del Pasok), entrambi di orientamento europeista, totalizzavano insieme quasi 6 milioni di voti. Oggi le due forze maggiori (con Syriza al posto di Pasok) non arrivano a 4 milioni; e questo benché il numero degli aventi diritto sia rimasto praticamente lo stesso (poco sotto i 10 milioni).
Da gennaio a settembre questi grandi partiti moderati hanno perso più di mezzo milione di voti, corrispondente al 5% dei greci sopra i 18 anni. I partiti anti-euro, al contrario, hanno tenuto botta. Alba Dorata, ad esempio, è passata dalle 388.387 preferenze di gennaio alle 379.149 dell’altro giorno: una flessione praticamente nulla, se si considera l’elevato astensionismo. Antarsya ha addirittura incrementato il proprio bottino, passando da 39.411 a 46.096 voti. Unità Popolare, infine, che a gennaio nemmeno esisteva, ha ottenuto dal nulla 186.185 preferenze (in proporzione, poco meno di quello che ha preso SEL qui di noi alle ultime politiche).
È impossibile non leggere in questi numeri un chiaro segnale di insofferenza che colpisce praticamente solo il voto moderato. Vi è una tendenza innegabile, progressiva e inesorabile, a snobbare la tradizionale contrapposizione destra-sinistra, proprio mentre si fa più evidente la sudditanza della politica greca nei confronti di Bruxelles. E dunque si può ben dire che sono i partiti che hanno predicato e/o praticato la stabilità in Europa i veri sconfitti.
Ciò detto, una volta appurato che “euro” ed “Unione Europea” non acquisiscono appeal, ma lo perdono, resta da capire perché non c’è stato un travaso significativo di voti.
Ci sono molte ragioni che possono spiegare come mai la protesta non si sia incanalata verso posizioni euroscettiche, ma si sia dispersa nell’astensionismo. La più importante di queste è sicuramente il fatto che il referendum di luglio è stato ignorato.
È vero che Tsipras era riuscito nell’impresa di creare grossa confusione su quale fosse il senso della consultazione da lui stesso voluta, dato che ai cittadini veniva chiesto di votare su una proposta di accordo con i creditori (quella dell’eurogruppo del 25 giugno) mentre i negoziati di fatto proseguivano. Purtuttavia difficilmente si può negare che l’intento di ridimensionare le logiche spietate del debito usando la forza del voto democratico non sia stato recepito da tutti i greci.
Tsipras cercava chiaramente di dimostrare al mondo che la Grecia non intendeva appaltare ad altri il proprio destino; di modo che ogni tentativo di costringere lui e Varoufakis ad accettare le condizioni imposte dai partner apparisse immediatamente come un tentativo ingiustificabile di marginalizzare la democrazia. Una volta vinto il referendum, insomma, nessuno avrebbe potuto raccontare che il premier greco metteva a repentaglio l’avvenire del suo popolo per un’iniziativa personale, senza avere un preciso mandato.
Questo non significa che Tsipras avesse la minima intenzione di lasciare l’euro: ma era stato abbastanza onesto, se non altro, da ammettere pubblicamente questa possibilità. Pertanto, se i creditori avessero reagito ad una vittoria del no irrigidendosi e chiudendosi ad ogni trattativa, i greci sapevano che avrebbero pagato un prezzo per la loro libertà: il ritorno alla moneta nazionale.
Questa prospettiva non spaventò più di tanto il paese. Votando in maggioranza per il no, i greci consegnarono al loro premier quello che egli, teoricamente, voleva: una carta in bianco per tirare la corda fino al limite, in modo da avere più margine di trattativa. Ma non ci fu più alcuna trattativa.
Tsipras, nonostante avesse ottenuto il sostegno del suo popolo, cedette immediatamente ai creditori, siglando un accordo ritenuto da molti peggiore di quello rifiutato con il referendum. Ritornato in patria difese il compromesso raggiunto “per evitare il disastro” e riuscì a farselo approvare dal Parlamento.
Cosa dovevano pensare i greci a quel punto? Che il loro beniamino, il leader che era diventato il simbolo della sinistra europea, che si era battuto contro l’austerità, che aveva sfidato in solitudine nel corso di numerosi ed interminabili colloqui i creditori di mezza Europa, che aveva osato opporre la forza della democrazia agli accordi sottobanco tra i ministri delle finanze, che aveva guidato la resistenza mentre la BCE negava ulteriori rifornimenti alle banche, che aveva vinto un referendum apertamente osteggiato dai partner europei, che aveva osato parlare di uscita dall’euro, che aveva ricevuto il pieno sostegno del suo popolo; dovevano credere che questo eroe, insomma, semplicemente all’ultimo momento se l’era fatta sotto?
Purtroppo i popoli europei a tutt’oggi non hanno maturato alcuna coscienza delle perverse dinamiche politiche che la moneta unica porta con sé. Pertanto né i greci né gli altri sono in condizioni di capire quello che su questa rubrica abbiamo detto sin da subito e che ci ha permesso di fare facili previsioni: ossia che Tsipras non avrebbe mai portato la Grecia fuori dall’euro, a meno che non lo avessero cacciato fuori.
In effetti, per un certo tempo, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble aveva provato a suggerire l’ipotesi di una “grexit” concordata; ma l’intervento deciso degli Stati Uniti e il saggio disinteresse di Russia e Cina hanno poi fatto capire a tutti che l’Europa non avrebbe potuto giocarsi quella carta. A quel punto, messo davanti alla scelta tra mangiare quella minestra o saltare dalla finestra, Tsipras ha dovuto semplicemente sedersi e svuotare il piatto.
Ma tutto questo i greci non lo sanno. Per la maggioranza Tsipras ha combattuto fintanto che ha potuto; e poi ha cercato di strappare il miglior compromesso. Se non altro, ha fatto arrivare al paese prestiti freschi e ha fatto riaprire le banche. E se non è arrivato al punto di spingere il paese fuori dall’euro, evidentemente è perché questo non si deve fare o non è concesso farlo.
Giusto o sbagliato che sia, se alla riprova dei fatti i politici non prendono questa decisione, neppure quando è l’ultima rimasta, che senso ha sperare in questa soluzione?
Quello che sfugge ai più, che è poi anche l’unica vera lezione politica che la vicenda greca ci consegna, è che non si può fare la lotta all’euro a giorni alterni. La moneta unica in questa fase è la minaccia principale alla democrazia: e chi non è disposto ad ammetterlo, finisce inevitabilmente per accettare una serie di compromessi che fanno a pugni col buon senso, che rendono chi li ha sottoscritti corresponsabile e che impediscono vieppiù di fare marcia indietro.
I Becchetti fingono di non vedere che la bandiera dell’uscita dall’euro è finita nelle mani inadeguate di queste persone: leader come Tsipras, che non avevano alcuna voglia di imbracciarla fin dall’inizio; oppure sparuti esuli di sinistra, come Panagiotis Lafazanis in Grecia o Stefano Fassina in Italia, che hanno maturato questa convinzione con fatica e solo dopo aver collaborato dall’interno con partiti super-europeisti.
I primi, benché si mostrino possibilisti per tattica o per necessità, non prenderanno mai autonomamente una decisione dolorosa che vivrebbero come una sconfitta personale. Tsipras non avrebbe potuto rivendicare come una vittoria l’uscita dall’euro, dopo aver combattuto anni di battaglia politica nel mito dell’Europa: sarebbe stato come ammettere di aver sempre sbagliato tutto, oltre a diventare l’unico responsabile politico e capro espiatorio di un percorso di emancipazione che nei primi mesi sarebbe stato inevitabilmente assai difficile. Molto più facile negare di aver firmato una resa incondizionata, dando risalto a piccole concessioni oppure invocando la famosa T.I.N.A. (There Is No Alternative).
Quanto ai secondi, cui va riconosciuto per lo meno il coraggio politico di ammettere gli errori commessi, non ci sono migliori chance di vittoria. Il loro problema è quello di riuscire ad organizzare una campagna politica credibile, che sia in grado ad un tempo di giustificare le ritrosie passate, di dissipare il dubbio degli elettori di trovarsi di fronte a mere faide di partito e di neutralizzare il terrorismo mediatico sulle catastrofi che seguirebbero ad un’uscita unilaterale. Inutile aggiungere che si tratta di un’impresa praticamente impossibile.
Rimangono a questo punto solo partiti più o meno populisti, che però possono essere facilmente etichettati come “cattivi” e contro i quali si può sparare ad alzo zero. L’unica forza in Europa ad aver mostrato di potersi sottrarre a questo gioco, grazie ad una strategia politica intelligente e ad un contesto favorevole, è il Front National di Marine Le Pen. Altri partiti in condizione di condurre una battaglia contro l’euro per ora non ce ne sono: per cui è probabile che la moneta unica imploda su se stessa, anziché venire smantellata da una decisione democratica.
Ecco perché la tesi di Becchetti è irricevibile. Non si può sottintendere che lo scarso seguito elettorale dei partiti anti-euro dimostri la necessità della moneta unica; né si può sostenere che i greci si siano in qualche modo dimostrati favorevoli, visto che essi:
– non sono mai stati chiamati ad esprimersi sul tema;
– non sono tenuti ad essere preparati su questioni tecniche, che dovrebbero essere rimesse a consulenti preparati ed onesti;
– hanno progressivamente abbandonato i partiti moderati europeisti;
– quando hanno votato referendum in grado di conferire un mandato politico potenzialmente rivoluzionario, sono stati ignorati;
– hanno a disposizione partiti anti-euro politicamente impresentabili, indecisi o con le spalle troppo piccole per caricarsi una simile battaglia;
– sono costantemente bombardati da una propaganda terroristica sull’uscita, che esalta i rischi di breve periodo ma sorvola sui benefici del medio.
Si dimostra invece l’ipocrisia di chi difende l’euro, costretto a ignorare questioni macroscopiche come queste pur di instillare nella gente un messaggio di rassegnazione.
Andrea Giannini