La seconda puntata della rubrica “Nuovi genovesi” è dedicata a Edith Ferrari, psicologa di origine peruviana, unica bilingue a lavorare in questo settore all’interno di un ospedale. La sua presenza è fondamentale per far emergere episodi di violenza relazionale
In molte libere professioni l’ostacolo per l’affermazione professionale dei cittadini stranieri è rappresentato dal riconoscimento dei titoli accademici conseguiti nel paese di origine. La storia di Edith Ferrari, psicologa e psicoterapeuta residente a Genova dal 1991, nata in Perù da padre di origine italiana, e attualmente presidente del Colidolat (Coordinamento ligure donne latinoamericane), ci parla di un percorso a ostacoli costellato da studi universitari che è stata costretta a riprendere quasi da capo, dalla necessità di spostarsi per lezioni ed esami in una città diversa da quella di residenza e dalla difficoltà di trovare gli impieghi temporanei necessari per sostenere i costi del percorso di studi.
Ora ha raggiunto il suo obiettivo professionale e opera nella nostra città come psicologa/psicoterapeuta libera professionista, collabora con la Casa circondariale di Pontedecimo e con l’ospedale Galliera nell’ambito del progetto SOSstegno Donna, dedicato alla cura e all’assistenza delle persone vittime di maltrattamento relazionale che accedono al pronto soccorso. In passato si è occupata dell’inclusione scolastica degli alunni di origine straniera.
Grazie alla sua esperienza, in questa seconda puntata di “Nuovi genovesi” ci soffermeremo sul tema del contrasto alla violenza relazionale e, in particolare, alla intimate partner violence (violenza sulle donne ad opera del partner). Un fenomeno strutturalmente e storicamente sommerso, spesso confinato tra il segreto di mura private, tanto che correntemente viene utilizzata l’espressione “violenza domestica”, e che solo recentemente sta iniziando a emergere in maniera più significativa.
Ribaltando un radicato stereotipo che rappresenta l’aggressore come lo sconosciuto per eccellenza, la stragrande maggioranza degli autori di violenza relazionale sono mariti o ex mariti, conviventi (o ex), fidanzati (o ex). Il senso comune (e molte analisi superficiali o strumentali) correlano la violenza di genere all’origine geografica, alla confessione religiosa, al disagio economico-sociale o a un mix di questi fattori; non è infrequente chi lega direttamente l’apparente aumento delle violenze sulle donne (che potrebbe essere dovuto invece a una maggiore emersione) all’accresciuta presenza di immigrati e residenti di origine straniera.
La testimonianza di Edith ci racconta una realtà diversa, una realtà assolutamente trasversale.
Non esistono rilevanti differenze di origine geografica, istruzione e posizione sociale fra gli aggressori e simile è la tipologia delle violenze inflitte; solo, in alcuni contesti o culture, le donne possono tendere a sopportare di più la violenza relazionale.
La presenza di una professionista di origine straniera e bilingue, che ha vissuto personalmente l’esperienza migratoria e che può comunicare in maniera immediata con donne della comunità linguistica ispanofona, la più diffusa a Genova, si è dimostrata un valore aggiunto per aumentare la consapevolezza delle donne immigrate rispetto al fenomeno della violenza relazionale e a renderla sempre meno tollerata e sopportata dalle donne stesse e dalla sensibilità pubblica.
Quando sei arrivata in Italia eri già in possesso di una laurea. Che percorso hai dovuto fare per vedere riconosciuto il tuo e l’esercizio della professione di psicologa?
«Mi sono laureata in Psicologia clinica in Perù nel 1990 e abito in Italia dal 1991. Mi sono re-iscritta a psicologia nel 1992 e mi sono laureata in un’università italiana nel 1995! I miei studi precedenti sono stati riconosciuti solo parzialmente, ho dovuto reiscrivermi all’Università e frequentare il terzo, quarto e quinto anno. Mi sono dovuta spostare a Torino, perché allora a Genova non esisteva il corso di laurea in Psicologia. In seguito ho conseguito la specializzazione in psicoterapia ad indirizzo lacaniano all’Istituto freudiano per la clinica, la terapia e la scienza di Roma e un master in Criminologia all’Università di Genova nel 2012. Ci sono stati molti sacrifici: spostarsi in altre città, non tornare per molti anni in Perù, conciliare studi e vari lavori temporanei per sostenere le spese della laurea. Sono riuscita a farli perché sapevo che lo facevo per prendere la laurea, che non ero condannata a fare quel lavoro per sempre. Ora ho la fortuna di fare il mio mestiere, quello che ho scelto, di lavorare in quello che è mio! Il problema è che qui in Italia studiare costa molto. Io ho avuto una famiglia e un marito che mi hanno appoggiato, ma come potrebbe riuscire a laurearsi una persona sola e che deve mandare soldi alla famiglia? Laurearsi costa molto, in molti esami c’erano i libri scritti dai professori da comprare e gli ostacoli burocratici mettono a dura prova la voglia di farlo! Io ci sono riuscita perché lavoravo poche ore al giorno, avevo un marito, non avevo figli in Perù e i miei genitori non erano soli, non essendo l’unica figlia. E poi c’è tutta la vita degli affetti che per un immigrato è molto complicata, ed è una cosa che raramente il cittadino medio pensa. Se i miei genitori, o i miei figli, sono in Perù, non è che posso prendere il treno e andare a trovarli nel fine settimana».
Per quanto riguarda l’iscrizione all’Ordine Professionale o la partecipazione a concorsi, hai avuto personalmente o sei a conoscenza di limitazioni di accesso legate al possesso della cittadinanza italiana?
«Personalmente ho la cittadinanza per famiglia, perché l’Italia riconosce l’ascendenza familiare fino alla terza generazione. Come cittadina italiana, ho partecipato a concorsi per incarichi a tempo determinato e a progetto, nei quali era richiesto essere residenti, regolarmente soggiornanti in Italia e a posto coi documenti, ma non mi risulta che ci fosse il requisito della cittadinanza.
Nel mio caso il problema ha riguardato non l’iscrizione all’ordine professionale, ma il riconoscimento degli studi e della laurea. Gli Stati Uniti, che riconoscono le lauree acquisite all’estero senza problemi, sono più furbi…si trovano molti professionisti qualificati sul territorio senza dover fare grossi investimenti».
Le statistiche sulla violenza domestica vedono la Liguria fra le regioni italiane con un maggior tasso di ”vittimizzazione” per violenza fisica. Ci illustri brevemente la tua esperienza e le caratteristiche del tuo lavoro presso l’ospedale Galliera?
«Qua arrivano le vittime di violenza domestica, fisica, psicologica ed economica. A volte in modo spontaneo, a volte accompagnate dalle Forze dell’Ordine. A tutte le donne che arrivano, noi offriamo un ciclo di incontri gratuiti e dopo dobbiamo passare i casi ai centri territoriali.
E’ molto importante il lavoro degli infermieri del triage perché sono molti i casi di violenza mascherata, le classiche donne che affermano di essere “cadute”, le persone che arrivano con stati di ansia o panico, appelli che la persona fa perché non riesce a comunicare diversamente.
Il nostro scopo è accompagnare queste persone alla consapevolezza, a mettere fine a una relazione mortifera che contribuiscono a tenere in piedi, quello che noi chiamiamo rettifica soggettiva.
La denuncia, che è solo l’inizio, è destinata a decadere se non è accompagnata dalla ferrea consapevolezza della donna. Noi dobbiamo farle capire perché va ad incontrare sempre lo stesso tipo di persona. Nell’anamnesi di queste persone ricorrono gli incontri con uomini che le maltrattano; possono cambiare partner, ma è come se si innamorassero sempre della stessa persona. Se tu puoi dire di no, o dire di sì, perché dici sì? È questo che dobbiamo farle comprendere. In questa vita tutto ha un limite, ma per alcune donne questo limite non esiste».
Qual è l’incidenza percentuale delle donne straniere rispetto agli accessi al pronto soccorso?
«Il 60% dell’utenza femminile è composta da italiane e il 40% da straniere. La maggioranza è di origine sudamericana, la comunità a Genova più numerosa. Nella tipologia di maltrattamenti, non ci sono grandi differenze tra straniere e italiane, non prevale in un gruppo la violenza fisica piuttosto che quella psicologica. Per alcuni versi, la donna immigrata è più vulnerabile per tutte le questioni legate al soggiorno e ai documenti».
La violenza domestica e sulle donne nelle sue diverse forme è trasversale o ci sono picchi specifici legati alle differenze culturali o al disagio sociale ed economico?
«La violenza è un fenomeno assolutamente trasversale. Qua arrivano donne italiane e straniere, arrivano donne laureate, con un lavoro, economicamente autonome che potrebbero cavarsela da sole. Noi vediamo una gamma completa di posizioni socioculturali ed economiche, sia tra le straniere che tra le italiane. Nella maggioranza dei casi, i maltrattamenti durano da anni, sono pochissime le persone che vengono al pronto soccorso la prima volta che il partner le ha picchiate. In questi anni molte donne provenienti da culture nelle quali il fenomeno della violenza è più sopportato cominciano a prendere coscienza che tutto ha un limite, e questo è un fatto per noi assolutamente positivo».
La presenza di una psicologa di origine straniera e bilingue può essere utile per incoraggiare le donne straniere a ricorrere a questo servizio e intraprendere un percorso di consapevolezza e emancipazione dalla violenza?
«Sì, certamente è un valore aggiunto. L’ospedale Galliera è in questo momento l’unico a offrire un servizio del genere e l’unico a contare su una psicologa e psicoterapeuta bilingue. Non ce ne sono molte in Liguria e in generale in Italia. Personalmente mi è stato utilissimo il corso di mediazione culturale attivato a Genova nel 1995, uno dei primi in Italia. Per certi tipi di quadri clinici è importante non solo la laurea, la formazione, l’esperienza, ma soprattutto il lavoro su se stessi. Chi lavora con sex offenders, donne maltrattate, rifugiati e richiedenti asilo che venendo qua hanno perso tutto e spesso subito violenza fisica e psicologica (fra di loro ci sono molte donne che sono state violentate) si confronta con sofferenze molto profonde. Puoi avere tutte le lauree di questo mondo ma, se non hai fatto un lavoro su te stesso, rischi il burnout. Essere psicologa e straniera ha implicato investimento sulla mia formazione e un lavoro su me stessa non da poco».
Hai lavorato per molti anni come psicologa in progetti nel mondo della scuola: come valuti l’evoluzione del rapporto fra la scuola italiana e le giovani generazioni di origine straniera nell’ultimo decennio?
«I figli degli stranieri nati in Italia o arrivati nell’età della materna sono più agevolati, strutturati mentalmente e capiscono benissimo la logica italiana. Chi è arrivato a 9/10 anni o in età adolescenziale, ha più problemi e su di loro c’è attenzione insufficiente; molti hanno anche smesso di studiare. Si rischia di avere una generazione semi-analfabeta nella propria lingua madre, ma anche in italiano, perché non leggono. Questo non è un danno solo per lo straniero, può essere un boomerang per quel paese che lo consente, un danno per tutta la società.
Con la crisi, molte famiglie, soprattutto sudamericane, con figli adolescenti arrivati qua a 6 o 7 anni, sono state costrette dalla perdita di lavoro e della casa a tornare nel paese d’origine. E’ stata una generazione molto provata da tutti questi cambi di colori, di odori, di clima, che possono essere molto destabilizzanti per una ragazzina o un ragazzino.
In un passato recente, molte scuole di “barriera” erano attive con iniziative e progetti, avevano a disposizione un budget in più per attivare laboratori e attività dedicate, molti progetti erano coordinati dal Centro risorse alunni stranieri, io stessa ho lavorato come psicologa in sportelli pagati direttamente dalle scuole, tramite fondi canalizzati. Negli ultimi anni, ho notato un’evoluzione in senso regressivo e uno scarso riconoscimento, non solo economico, del lavoro degli insegnanti.
Nel mio lavoro ho conosciuto molti docenti che avevano l’umanità, l’elasticità mentale di mettersi in gioco, di capire che se il modo in cui ho insegnato finora mi serviva, ora non mi serve più, perché il target è cambiato. È molto più facile dire: è lui che non capisce che chiedersi “come posso fare io per farmi capire?”».
Andrea Macciò