L'approfondita analisi di Andrea Giannini, che fa seguito alle riflessioni pubblicate la scorsa settimana su questa rubrica circa il fallimento del progetto di unione federale europea. "Ciò da cui dovremmo guardarci una volta usciti dall'euro è l'ideologia che l'ha sostenuto: un'ideologia che attacca lo Stato per dissacrare ogni forma di autorità pubblica e affermare interessi privati"
Mentre la secessione della Crimea continua a creare gravi tensioni in tutta la regione, riprendiamo il discorso fatto la settimana scorsa e chiediamoci quali scenari si aprono per noi una volta preso atto dell’inevitabile fallimento del progetto di un’unione federale europea (il famoso “più Europa”). Ai lettori più affezionati non sarà sfuggito che questo imminente tracollo politico è l’altra faccia della medaglia del preannunciato tracollo dell’euro. È dunque indispensabile, sotto ogni punto di vista, proiettarsi al di là di queste strutture e chiedersi come l’Italia possa affrontare un futuro in cui l’Unione Europea, ammesso che esista ancora, avrà di certo un peso politico ridotto.
Il fatto che un commentatore “di provincia” come chi scrive possa prendersi il lusso di profetizzare con sicurezza la fine di un “sogno” economico-politico tanto ambizioso, proprio mentre tradizionali indicatori tipo lo spread non danno segnali d’allarme e le élite del nostro continente continuano a lavorare come se questa “Europa” avesse effettivamente un domani, non può più essere una discriminante. Come insegna la favola di Andersen basta un bambino per urlare: «il Re è nudo!».
Ed in effetti il fallimento del sistema è lampante per chiunque non voglia far finta di niente, visto che, molto banalmente, ad oggi nessuno è in grado di intravvedere una soluzione realistica per l’eurozona. Non è che manchino le proposte tecniche: manca proprio la volontà di perseguirle (il che ci dice molto sui reali motivi per cui siamo entrati nell’euro). Per questo, anche fra i commentatori più qualificati, gli illusi sono rimasti in pochi: tutti gli altri o “auspicano” una soluzione, o sono pessimisti, oppure stanno già consigliando agli Stati di ritornare alle loro vecchie monete. Di certo la soluzione non sarà la tanto osannata lista Tsipras, per motivi ormai noti, ma che prometto di ricapitolare più avanti (magari nell’imminenza del voto di maggio).
La questione, dunque, è di una notevole rilevanza. Se l’Europa come progetto politico ha fallito, perché dovrebbe farcela l’Italia? Non si rischia di proseguire sullo stesso tipo di errore? Se abbiamo sbagliato a volerci integrare su un piano più ampio, non sarà forse il caso, come sembra suggerire Grillo, di seguire la strada opposta e dunque di disintegrarci verso un piano più ristretto dove “piccolo è bello”?
In effetti è il momento di andare a discutere un punto rilevante.
I critici dell’euro, come il sottoscritto, spesso sottolineano che l’irrazionalità dell’eurozona dipende dal fatto che essa non è una “area valutaria ottimale”, dal nome della teoria economica con cui Robert Mundell vinse il premio nobel nel 1961 e su cui Paul Krugman ha fatto il punto qualche anno fa. Ciò significa che la moneta unica è nata in barba alle considerazioni degli economisti, per cui ora stiamo in qualche modo scontando questa sorta di “peccato originale”.
Questo concetto – vale a dire che esiste una razionalità economica di cui tenere conto quando si progettano sistemi economici – sembra lanciare un monito forte: “bambini, non fatelo a casa!”. Sembra, cioè, che siamo stati avvertiti: un sistema economicamente prospero è un sistema che rispetta ben precisi requisiti. Dunque non è del tutto sbagliato chiedersi: l’Italia oggi è un’area valutaria ottimale?
Sembra di si. Secondo Krugman i due fattori che si sono rivelati decisivi sono la mobilità dei lavoratori e l’integrazione fiscale. E l’Italia ha entrambe le cose: ha molti immigrati dal sud che lavorano al nord, e ha molti contribuenti del nord che si lamentano… perché pagano le tasse anche per il sud! Sembrerebbero esserci i requisiti, dunque, perché l’Italia possa essere considerata una realtà politica che rispetta una minima razionalità economica.
Tuttavia un punto sollevato da quelli che vorrebbero vedere un futuro per l’euro è che nemmeno noi all’inizio eravamo un’area valutaria ottimale. Perché allora, se pure l’Italia della lira è durata 150 anni, l’Europa dell’euro dovrebbe fallire dopo 15? È un’ottima domanda, che merita una risposta diretta. La risposta è che Giuseppe Garibaldi non era un funzionario col Ph.D alla London School of Economics, ma un avventuriero col fucile. E non è affatto una battuta.
Che cosa era successo nel 1861, proprio a pochi metri dalla redazione di Era Superba? Era partita la spedizione di un manipolo di uomini (mille o giù di lì) che volevano conquistare il Regno delle Due Sicilie per il loro Re. E inaspettatamente ebbero successo. La nostra nazione, insomma, è stata, sul piano storico, il frutto della debolezza dei Borbone di Napoli e della benevolenza della flotta britannica, che non sfruttò la sua enorme superiorità nel Mediterraneo per interferire con le faccende italiane. Sul piano pratico, però, l’Italia è stata semplicemente il frutto di una conquista militare. Ovviamente c’erano gli idealisti che pensavano alle “genti italiche”; ma la realtà è che i confini vennero tracciati sparando.
Questa soluzione brutale creò un legame semplice, che a sua volta poteva essere spezzato in un modo semplice: il sud avrebbe dovuto insorgere. E questo non accadde. Anzi, il meridione, visto che era semplicemente cambiato il padrone, al netto di tutte le tensioni, nel complesso se ne fece una ragione. Il punto centrale, tuttavia, è quello che accadde dopo la conquista: la classe dirigente piemontese, ispirata dal modello francese e inglese (di cui Cavour era un fervente ammiratore), ebbe la banale accortezza di capire che i territori ottenuti con la forza non sarebbero rimasti, se non si fossero trasformati in uno Stato. E siccome volevano un Regno, fecero quello che si sarebbe dovuto fare sulla base di criteri per l’epoca anche abbastanza moderni: pensarono che la prosperità sarebbe venuta non solo con un territorio esteso e forte, ma anche da una rete di infrastrutture, da un sistema industriale, un complesso di leggi coerenti, un’educazione pubblica, unità di misure standardizzate, forze di polizia, una tradizione comune, una lingua nazionale e certamente anche un’unica moneta. L’idea di «Italia» in quanto nazione era perfettamente funzionale al raggiungimento di questo scopo.
I risultati furono tutt’altro che perfetti: ancor oggi la “questione meridionale” è più che mai attuale, e trova riscontro, sul piano economico, in differenti livelli di inflazione. Eppure dopo 150 anni siamo ancora qui tutti insieme, nonostante le tensioni di due guerre mondiali e vent’anni di dittatura. Questo è stato possibile, per l’appunto, perché l’Italia fu unita con la forza, ma fu tirata su con l’obiettivo di diventare uno Stato a tutti gli effetti, sia in senso pratico che in senso ideale: dunque un forte vincolo occasionale si poté trasformare in un (abbastanza) forte vincolo duraturo.
E l’Europa? L’Europa si è unita in modo consensuale con l’obiettivo di un benessere più esteso: e questa è tutta un’altra storia. In questo caso a un debole vincolo occasionale non ha fatto seguito alcun vincolo più forte: per cui, senza il benessere, il castello di carte è destinato a crollare. E se ancora vi chiedete perché non è stata sfruttata l’occasione dell’euro per rinsaldare i vincoli comunitari o se siamo ancora in tempo per rimediare, significa che non avete capito niente di questa crisi: eppure ve lo avevo spiegato.
Abbiamo chiarito che per i Savoia e i loro ministri, l’obiettivo era avere un Regno: e nel 1861 quel regno era tutto da costruire. L’establishment europeo, al contrario, dopo l’euro ha fatto poco o nulla: significa allora che nel 2002 l’obiettivo era già stato raggiunto. Il vero obiettivo, infatti, non è mai stato mettere in pratica le convinzioni di un Altiero Spinelli: l’obiettivo era liberalizzare i movimenti di capitali, eliminare il rischio di cambio nelle transazioni, favorire l’economia finanziaria e scaricare sui salari gli eventuali aggiustamenti.
È dunque pretestuoso domandarsi se l’Italia abbia un senso come spazio giuridico, politico e culturale: ce l’ha perché sono 150 anni che, tra alterne vicende si lavora per questo. È tuttavia possibile pensare che altre strutture più piccole e snelle riescano a fare meglio di quello che ha fatto lo Stato italiano. Il mio parere su questa questione è piuttosto semplice: se ci credete davvero e siete disposti a lavorare in questo senso, allora buona fortuna! Ne avrete davvero bisogno.
Ormai dovremmo aver capito che tutte le costruzioni umane dipendono essenzialmente dall’uomo stesso, dalla sua fatica e poi certo dalla buona sorte. Se ci sono le condizioni favorevoli, nulla vieta che un domani si formi un autonomo “Stato Lombardo” o un vasto “Stato Pontificio” o – perché no? – che rinasca il Regno delle Due Sicilie: dipenderà appunto dal contesto e dalle motivazioni degli uomini. Ma se così stanno le cose, la vera domanda è: dobbiamo desiderare Stati regionali più piccoli? A mio modesto avviso il gioco non vale la candela.
Ovviamente, se ragionate nel quadro che ci offrono quotidianamente i media, l’Italia non ha scampo: anzi, sembra un miracolo che siamo arrivati vivi fino a qui. Qualsiasi altra soluzione, pertanto, sarebbe meglio del vecchio sogno di Garibaldi e Cavour. Ma la realtà è che da soli avevamo fatto relativamente bene dal dopoguerra in avanti. La crisi che stiamo vivendo – lo sappiamo – non dipende tanto da noi, quanto dall’euro. Ad esempio, il calo della produttività media che si registra da fine anni ’90 rispetto alla Germania è attribuibile proprio all’adozione di un cambio rigido. Pertanto, fuori dalla moneta unica, chi ci garantisce che sul nostro territorio unioni politiche alternative all’Italia possano ottenere risultati migliori?
Nessuno ce lo può garantire: anzi, l’enorme lavoro, la fatica e il dispendio di risorse e di uomini necessario a concepire e realizzare nuove comunità politiche è tale, a fronte di una totale incertezza sull’esito finale, da scoraggiare qualsiasi persona di buon senso. Dunque privarci della nostra «Italia» (e di una sua moneta) sarebbe una scelta tanto rischiosa quanto inutile, che penso nessuno in una società non del tutto sclerotizzata vorrebbe perseguire davvero (dunque, ne sono convinto, nemmeno Grillo o la Lega).
Se poi volete proprio ragionare in astratto, partendo dalla teoria per capire quello che serve per costruire una comunità politica (al netto della forza bruta), ci torna utile quanto avevo detto la scorsa settimana. Il senso del ragionamento era che lo scopo di una comunità è il benessere dei suoi membri: cosa che a sua volta richiede tanto un certo livello di compenetrazione economica che un certo sentimento di appartenenza. Ebbene: sulla base di questi criteri come rifareste l’Italia?
Il compito non è facile, perché non è chiaro dove questi criteri (su cui già non tutti saranno d’accordo) si manifestino in modo netto. Dividereste l’Italia tra Nord e Sud? E mettendo Roma dove? O forse è meglio dividerla in tre? E cosa dire della “Padania” della Lega o del Regno delle Due Sicilie che Grillo ha tirato fuori dal cilindro? Il folklore del Carroccio sarebbe un’identità padana? E se guardassimo alle regioni? Pensiamo che uno di Ventimiglia abbia più da spartire con un francese o con uno delle Cinque Terre? E se provassimo a fare le macroregioni? Mettereste insieme persone solo perché si scambiano prodotti ma non parlano la stessa lingua? Riprovereste davvero con il mito tecnocratico che sta distruggendo il continente?
Non credo sussistano molti dubbi: nell’immediato l’Italia unita ha un futuro, l’Europa no. Le ragioni per cui il caro, vecchio Stato italiano spicca come la struttura politica più adatta a perseguire le nostre aspirazioni di benessere dipende semplicemente dal fatto che esso è stato costruito per questo nel corso di decenni lunghi e faticosi: e adesso non ha alcun senso ricominciare da capo a costruire qualcosa di alternativo.
Il vero problema oggigiorno è l’euro, tolto il quale gli Stati potrebbero recuperare varie forme di coordinamento a livello europeo e globale. E senza la moneta unica, che non serve ad allentare le tensioni ma a crearle, è probabile che molte spinte autonomiste in giro per l’Europa perderebbero di forza. Tuttavia non saprei dire – né spetta a me farlo – se, una volta ripristinate le valute nazionali, per la Scozia o per le Fiandre abbia ancora un senso avanzare pretese di autonomia. In fin dei conti queste sono questioni che riguardano i singoli Stati. Certamente ciò da cui dovremmo guardarci una volta usciti dall’euro è l’ideologia che l’ha sostenuto: un’ideologia che attacca lo Stato per dissacrare ogni forma di autorità pubblica e affermare interessi privati.
Andrea Giannini