Ormai anche il più diffidente dovrebbe aver capito che le diverse crociate del governo contro certe categorie sociali cominciano ad assomigliarsi tutte in un modo un po' troppo sospetto. È una propaganda che funziona molto bene perché fa leva sul risentimento sociale
Lo scontro del momento, in questa ennesima riedizione de “il governo contro tutti”, vede l’esecutivo opposto a insegnanti e pensionati. I primi sono accusati di non avere compreso la riforma, che vuole aprire il mondo della scuola alla meritocrazia (sottotitolo: molti insegnanti non meritano di stare dove stanno). I secondi, d’altra parte, non possono pretendere, dopo la sentenza della Corte costituzionale, di recuperare tutti insieme le indicizzazioni perdute: un po’ perché bisogna tutelare prima i pensionati più poveri (e le classi medie? che si adattino); un po’ perché bisogna togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno; e un po’ perché chi è andato in pensione col vecchio sistema retributivo – diciamocelo – vive alle spalle delle nuove generazioni, e anzi si meriterebbe un bel ricalcolo col contributivo.
I protagonisti sono cambiati: eppure la trama di questo teatrino dell’assurdo dovrebbe cominciare a suonare vagamente familiare. Ormai anche il più diffidente (ammesso che qualcuno sia scampato al dito accusatore di questi governi moralizzatori) dovrebbe aver capito che le diverse crociate contro certe categorie sociali cominciano ad assomigliarsi tutte in un modo un po’ troppo sospetto. Il tema è sempre lo stesso: i diritti acquisti da alcune categorie sono additati come ingiustizie intollerabili nei confronti di altre categorie, che nel frattempo hanno perso, o non hanno mai avuto, quegli stessi diritti.
È esattamente il caso succitato: quello che per i pensionati è un diritto, la pensione conquistata dopo anni di lavoro in base alle leggi vigenti, per i più giovani è invece un privilegio, dato che questi ultimi non riusciranno, con tutta probabilità, ad avvalersi di un analogo trattamento previdenziale. Queste categorie finiscono così le une contro le altre, come i polli di Renzo, senza che nessuno si renda conto che non sono stati i pensionati a introdurre le prime forme di lavoro precario che oggi minacciano il futuro dei giovani.
Si possono citare molti altri casi. Da principio l’oggetto della riprovazione generale era solo la casta dei politici; ma col tempo altre categorie sono finite vittime di varie campagne di discredito: la magistratura, nei cui uffici giudiziari si lavora solo la mattina, da settembre a giugno; i dipendenti pubblici, che hanno ferie pagate, maternità e sono (erano) non licenziabili; gli autonomi, che dichiarano meno di quanto guadagnano; i giovani, che sono troppo “choosy”; i commercianti, che non fanno gli scontrini; gli imprenditori, che non investono e non fanno innovazione; gli insegnanti, che lavorano 18 ore a settimana e non si aggiornano; e infine persino le famiglie italiane, che sono più ricche di quelle tedesche (e dunque si possono tassare per benino).
È una propaganda che funziona molto bene perché fa leva sul risentimento sociale. In ognuna di queste categorie c’è, in effetti, qualcosa che non va: e ognuno di noi, nel suo piccolo, ne ha fatto esperienza. Il sotteso, però, è che finalmente abbiamo tutto il diritto di prendercela con il giudice che ci ha dato torto nel ricorso, con l’insegnante di matematica che ha rimandato nostro figlio, con il funzionario delle poste che fa una pausa caffè troppo lunga e con il milanese sul SUV che ci sorpassa a gran velocità durante gli esodi estivi sull’Aurelia. Il messaggio è che non dobbiamo superare queste divergenze per fare causa comune: dobbiamo invece odiarci a vicenda, perché la colpa del declino del paese è sempre dell’italiano che mi siede accanto.
Tuttavia a questo punto dovrebbe essere chiaro che questo gioco è a somma negativa: se cadiamo nel tranello di pensare che la colpa sia sempre degli altri, forniamo solo un comodo alibi per chi sta al potere. Sarebbe l’ora di rendersi conto, dunque, che siamo tutti sulla stessa barca, vittime di una strategia precisa. L’obiettivo è ridurre diritti e retribuzioni: non potendolo perseguire direttamente, perché si otterrebbe solo un’opposizione generale, si punta a mettere una categoria sociale contro l’altra, erodendo così i benefici acquisiti pezzo per pezzo.
Naturalmente gli ultimi esecutivi che si sono succeduti, e la stampa servile che regge loro il sacco, non si sono posti un simile traguardo solo perché sono cattivi: il fatto è che comprimere la democrazia, abbassare i salari e tassare la ricchezza privata è l’unico modo per competere stando dentro al sistema euro e ai vincoli di bilancio. Anziché rilanciare l’economia svalutando rispetto ai partner europei e spendendo a deficit, siamo costretti a tenerci un’alta disoccupazione per far diminuire le pretese dei lavoratori, compensando poi il calo di gettito con l’aumento delle tasse. Il vincolo del 3% annuo di indebitamento, infine, è il grimaldello che permette ai governi di dire che la coperta è corta: se esiste un tetto oltre cui non si può spendere, è chiaro che in tempi di crisi qualcheduno dovrà adattarsi ad avere meno.
Il risultato è che questa campagna d’odio, necessaria per tenere in piedi un sistema monetario ormai al collasso, mentre si rincorrono fantomatiche riprese, ha completamente lacerato il tessuto sociale. Chi ha alimentato questo risentimento, che lo abbia fatto consapevolmente o che si sia limitato – come certi militari nazisti – ad eseguire gli ordini, è comunque colpevole di aver rovinato questo paese, riducendolo ad una serie di combriccole ugualmente dedite al proprio meschino interesse personale o negando il senso stesso della sua esistenza.
Andrea Giannini