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La Grecia e l’euro al bivio: Bruxelles e Berlino possono sbarazzarsi di Atene?

UE e Germania possono sbarazzarsi della Grecia e decidere di non accettare l'ennesimo compromesso? Forse no, ma proviamo ad immaginare questo scenario così da poter analizzare le possibili conseguenze


13 Febbraio 2015Rubriche > "Polis" Critica Politica

economia-soldi-D1Due settimane fa scrissi che, al netto di tutte le incertezze del caso, l’esito più probabile del confronto tra Grecia di Tsipras e Unione Europea a trazione tedesca sarebbe stato un compromesso al ribasso. Mi incoraggiava verso questa conclusione tanto l’abitudine della politica di Bruxelles a rimandare i problemi a data da definire, quanto una disamina del reale peso contrattuale del governo greco rispetto agli interessi dei partner europei.

Alla luce degli ultimi negoziati, la mia opinione non è cambiata: rimango convinto (e non sono l’unico) che, alla fine, un accordo che permetta di guadagnare qualche mese si troverà. Tuttavia il tono perentorio e poco conciliante delle dichiarazioni di certi importanti politici europei ci costringe a considerare anche l’eventualità che non siamo di fronte a mere schermaglie dialettiche. È possibile che UE e Germania preferiscano sbarazzarsi della Grecia, anziché accontentarsi dell’ennesimo compromesso?

In precedenza avevo scartato questa ipotesi a priori, ma ora proviamo a prenderla per vera. Assumiamo quindi che l’Europa mantenga una linea decisa, intransigente e non cooperativa: quali sarebbero le conseguenze? Gli sbocchi possibili sono essenzialmente due: o la Grecia si adatta a mantenere gli impegni, oppure, presto o tardi, esce dall’euro.

Su questo dato ci sono pochi dubbi: Atene ha bisogno di soldi anche solo per pagare le pensioni; per cui, nonostante il chiaro mandato e la volontà di Syriza di mantenere il paese nell’unione monetaria, è evidente che, se il governo greco si rifiuta di chinare il capo di fronte ai diktat europei, il ritorno alla dracma diventa una scelta obbligata.

Molti economisti, come Paul Krugman, sembrano convinti che frustrare le speranze del popolo greco comporterà automaticamente l’addio della Grecia; un esito che invece, dal mio punto di vista, non è strettamente necessario, visto che Tsipras, comprensibilmente spaventato dall’idea di gestire un’uscita unilaterale, potrebbe anche tentare di giustificarsi di fronte al suo elettorato promettendo di ritentare il negoziato più avanti. Al di là di queste sottigliezze, tuttavia, è chiaro a tutti che negare ogni spiraglio di trattativa equivale a mettere Syriza di fronte a un clamoroso insuccesso politico e i greci un piede fuori dalla porta – cosa che si potrebbe evitare, invece, con qualche concessione di poco conto che consenta a Tsipras e Varoufakis di salvare la faccia. Pertanto, se i paesi del nord Europa dovessero mantenere l’Eurogruppo su questa linea dura, dovremmo concludere che sono tranquillamente disposti ad accettare le conseguenze di una traumatica uscita della Grecia dall’euro.

Sull’enorme difficoltà di gestione di questa transizione ci sono pochi dubbi. A meno che, infatti, non si scopra che esiste da tempo un piano preciso e accurato per guidare il processo di conversione del cambio, è probabile che Tsipras si presenti a questo epilogo con una certa dose di impreparazione. È possibile inoltre che i mercati prevedano l’uscita, anticipandola con movimenti speculativi e dunque accelerandola: il che costringerebbe il governo a inseguire le circostanze, piuttosto che a gestirle. Il popolo, dal canto suo, finirebbe per vivere in modo traumatico un evento che per lungo tempo è stato abituato a vedere come la fine del mondo; il che porterebbe ad amplificare la percezione dei disagi che inevitabilmente ci saranno. Esistono infine ragioni oggettive, come la grande quota di debito in legislazione estera, che dovrebbe essere ripagato con una moneta svalutata, la fragilità del sistema bancario e soprattutto l’ostilità dell’Unione Europea. A questo punto, se il caos politico dovesse essere tale da risultare ingestibile, non è da escludere neppure una svolta autoritaria (ad esempio un colpo di Stato militare).

Al di là degli scenari più estremi, tuttavia, e al di là delle mille altre considerazioni possibili (il probabile sostegno russo, le reazioni degli Stati Uniti, la probabile crescita nel medio termine, eccetera) rimane il fatto che nel breve periodo il destino della Grecia non sarebbe roseo. Questa circostanza, ampiamente preconizzata, è sicuramente tenuta in considerazione anche dei falchi del rigore (che, se vogliamo essere realisti, non possono guardare unicamente ai preconcetti dell’elettorato tedesco). Dobbiamo dunque pensare, allora, che – sempre nell’ipotesi che si voglia perseguire nel rifiuto di trattare con Tsipras – quella di mettere in crisi la Grecia sia una conseguenza attivamente ricercata.

In effetti, dal punto di vista dei rigoristi, ci sarebbe un indubbio vantaggio: il caos iniziale dell’uscita sarebbe un ammonimento per chiunque in Italia, Spagna e Portogallo volesse tentare questa strada; cosa che aumenterebbe il potere negoziale dell’UE e dunque la pressione sui governi nazionali per cedere alle richieste di ulteriori “riforme strutturali” lacrime e sangue. Governare con il terrore è sempre un’opzione: si colpisce uno per educare tutti.

Esiste però anche il retro della medaglia: l’euro non sarebbe più irreversibile, i mercati potrebbero far salire lo spread dei paesi periferici e le loro opinioni pubbliche dovrebbero finalmente ammettere la politica di forza bruta che è la cifra di questa Europa (dal che potrebbe venire la consapevolezza che è necessario dotarsi di una credibile strategia di uscita per affrontare qualsiasi futuro negoziato).

Appare chiaro, dunque, alla fine di questo complesso ragionamento, che perseguire eventualmente su una linea dura in questa fase negoziale avrebbe un senso unicamente in una logica di breve periodo, tanto più sensata quanto più ormai data per inevitabile la fine dell’euro. È chiaro, infatti, che se ci si espone al rischio di far crollare la moneta unica, vuol dire che non ci si aspetta di ricavarne più molto; che tenerla in piedi a suon di compromessi parziali non porterebbe più grandi benefici: per questo ci si prepara a sfruttare quello che si può ancora sfruttare, prima che il giocattolino si rompa del tutto.

L’alternativa sarebbe supporre che le élite del nord Europa agiscano in modo del tutto incoerente: anche se, a ben vedere, non è detto che una cosa escluda l’altra. È probabile, anzi, che la fine dell’euro dipenderà sia dal preciso calcolo di alcuni, che dalla stanchezza, dalla frustrazione e dall’indecisione di altri: un insieme di dinamiche diverse che scompatterà le élite nella difesa del progetto e farà mancare il sostegno politico di cui esso necessita.

È dunque questo che accadrà all’Eurogruppo? Sinceramente ne dubito. Finora il sostegno all’euro è apparso compatto: e nulla lascia presagire che l’Europa sia pronta ad affrontare questa problematica transizione. Certo, qualche segnale c’è, come avevo già rilevato a settembre; ed è pur vero che quando succederà, succederà in modo imprevisto. Ma non in modo così imprevisto… In ogni caso, se ho torto, una risposta l’avremmo presto. E probabilmente, insieme a quello della Grecia, conosceremo anche il destino dell’euro.

 

Andrea Giannini

 


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