Nonostante le vere e proprie porcate spacciate per “riforme elettorali” o “costituzionali”, nessun politico sembra essere in grado di contrastare con successo il premier. Cosa rende l'ex-sindaco di Firenze tanto forte da avergli permesso di scalare con successo il vertice, facendo tabula rasa della precedente dirigenza?
Mi sono occupato talmente tante volte degli assurdi slogan della propaganda renziana (ed esempio qui, qui e qui) che confido davvero nel fatto che almeno i miei lettori ne siano ormai immuni. In realtà il problema non è mai stato quello di capire se questo chiocciare di “governi che governino” o di “minoranze che non ricattino” avesse un fondamento o meno: che certi discorsi fossero scemate assolute è pacifico da sempre. Anzi: quando queste porcate spacciate per “riforme elettorali” o addirittura “costituzionali” saranno definitive e non si potrà più tornare indietro tanto facilmente, allora vedrete che lo ammetteranno serafici anche dall’interno del PD.
Il problema non è nemmeno quello di capire come mai questa propaganda funzioni: semplicemente perché è tutto da dimostrare che essa funzioni davvero. Ricordo sempre, infatti, che il famoso 40% del PD di Renzi è stato ottenuto sul 50% degli aventi diritto (un’astensione da record) nel corso delle elezioni per il Parlamento Europeo: e in quell’occorrenza, naturalmente, non si era parlato della riforma elettorale, mentre ebbe un peso decisivo l’atteggiamento da tenere in Europa. Dunque l’attuale premier non ha alcun mandato specifico per portare avanti il programma che ha in testa: ed in questo, tra l’altro, si differenzia nettamente (in peggio) da Silvio Berlusconi; il quale, invece, a suo tempo, era riuscito a farsi eleggere sulla base almeno di un qualche programma politico (cosa che comunque non fu sufficiente per indurlo ad osare tanto). Inoltre nessun sondaggio dimostra che gli italiani siano in maggioranza per questa riforma elettorale: e certo non ne comprendono l’urgenza.
Il problema, dunque, non è né la presunta necessità né l’effettivo appeal del programma di riforme politiche del governo. La questione è un’altra: se questi provvedimenti così palesemente non servono, non piacciono o non interessano alla maggior parte delle persone, come mai, allora, nessun politico sembra essere in grado di contrastare con successo Renzi?
Quanto alle forze di opposizione, mi ero già espresso. Nonostante Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Forza Italia siano insieme numericamente superiori, tanto nei voti presi alle politiche del 2013 quanto in tutti sondaggi degli ultimi giorni, tuttavia in Parlamento sono stati messi in minoranza dal meccanismo elettorale, l’inconstituzionale porcellum; ma soprattutto continuano a voler marciare separati: e presi separatamente sono facile preda del pesce più grosso.
Renzi però ha nemici anche all’interno del suo governo: anzi, all’interno del suo stesso partito. Come mai, allora, questi oppositori interni sono sempre più isolati e vengono sistematicamente battuti? Cosa rende l’ex-sindaco di Firenze tanto forte da avergli permesso di scalare con successo il vertice, facendo tabula rasa della precedente dirigenza? Al di là dell’indubbia esuberanza del premier, credo che per spiegare davvero cosa abbia contribuito a conferirgli l’aura del vincente sia necessario per me fare autocritica. Temo di dover ammettere di aver sbagliato, in passato, a soppesare due fattori fondamentali delle dinamiche interne al Partito Democratico: il condizionamento della base e l’esperienza dei vecchi dirigenti.
Avevo valutato che, almeno inizialmente, gli iscritti non fossero così entusiasti del nuovo venuto; che privilegiassero un modo diverso di concepire la leadership politica – come in parte dimostrarono appena due anni fa, facendo sentire attivamente il loro appoggio all’ipotesi (poi sfumata) dell’elezione di Stefano Rodotà a Presidente della Repubblica. Inoltre, più recentemente, sono stato ad osservare le mosse della cosiddetta “minoranza PD”: che pure inanellava uno schiaffo dietro l’altro (utile a rintuzzare il saracasmo di Marco Travaglio) e che tuttavia sembrava davvero troppo perdente per essere vera. “Ci deve essere qualcosa dietro”, mi dicevo. E invece non c’era nulla. L’ormai pressoché certa vittoria del premier sull’Italicum, dimostra probabilmente che mi sbagliavo su tutta la linea: né si è sentita muovere una foglia dalla base del PD, né si è colto un barlume di strategia politica nella minoranza parlamentare.
La scarsa tempra politica degli altri protagonisti, dunque, sembrerebbe spiegare la facilità di manovra di Renzi. Si tratta però di una ricostruzione troppo superficiale. Andando in cerca di ragioni più profonde occorre notare che, se Bindi, Bersani e Cuperlo sono rimasti così isolati, non solo dentro ad un Parlamento dove molti non hanno ancora maturato il vitalizio, ma anche all’esterno, allora è evidente che hanno fallito nel tentativo di accreditarsi come rappresentanti di una battaglia politica, anziché solo di potere.
Per non essere accusati di fare guerriglia contro chi li aveva semplicemente detronizzati e messi in disparte, gli uomini e le donne della minoranza PD avrebbero dovuto dimostrare di avere una visione politica alternativa tale da giustificare lo scontro con l’attuale segretario. Tuttavia si presume che chi voglia far parte di uno stesso partito debba condividere un minimo di idee comuni: e dunque che non possa esprimere una visione completamente alternativa, a meno di non decidersi ad abbandonare il partito stesso.
Renzi contava esattamente su questo: se le critiche fossero rimaste contenute, tutto sarebbe filato liscio; se invece avessero passato il limite, si sarebbe potuto obiettare che in certi casi la coerenza tra parole e fatti impone gesti radicali, come la scissione. Fassina e gli altri sono restati nel mezzo: hanno evocato paragoni forti, ma nel contempo hanno rifiutato di abbandonare il partito. E per i renziani è stato facile sottolineare l’incoerenza di questa scelta. Per l’ennesima volta il premier ha vinto semplicemente alzando la posta.
Verrebbe da chiedersi, a questo punto, perché, anziché farsi logorare e annientare pezzo per pezzo, i vecchi leader del PD non decidano di raccogliere queste provocazioni con un gesto eclatante. Il fatto è che non sarebbero credibili. Come ho scritto sopra, per giustificare una battaglia politica occorrono differenti visioni politiche: e i critici di Renzi in passato non hanno avuto idee troppo diverse dalle sue.
Cosa farebbe davvero paura al premier? Un partito di sinistra che gli si opponesse frontalmente: ad esempio, difendendo il sistema proporzionale contro quello maggioritario, rivendicando l’importanza di un’ampia rappresentanza, anziché di un esecutivo forte. Ma è dai governi D’Alema che la sinistra lavora per costruire un sistema maggioritario bipolare. Renzi ha semplicemente imboccato questa stessa strada e l’ha percorsa a velocità più elevata. Perché mai ora qualcuno dovrebbe convincersi ad andare un po’ meno veloce, se tanto tutti sono d’accordo che sempre là in fondo si debba arrivare? È una differenza troppo flebile.
Un discorso analogo si potrebbe fare per l’europeismo acritico. Fassina è ben conscio che si tratta di una posizione insostenibile: e ha già dichiarato che non è spaventato dal fatto di condividere la stessa posizione di Salvini. Ma non tutti i suoi compagni di strada la pensano uguale. Il fronte euro-critico comprenderebbe Cuperlo e D’Attorre, ma escluderebbe Bersani e, soprattutto, il già ventilato ritorno di Prodi. Non importa come la pensiate in merito; ma è incontestabile che, una nuova forza di sinistra realmente alternativa dovrebbe distinguersi nettamente dal PD anche su questo tema: cosa impossibile per chi fino a ieri rivendicava con orgoglio di aver portato l’Italia nell’euro.
Insomma, questa classe dirigente è troppo compromessa. Ha perso la lotta all’interno del PD e ora non ha più la credibilità necessaria per portare questa lotta all’esterno: per cui si accontenta di quella piccola fetta di gestione del potere che le resta.
Ci sarebbe ancora, a dire il vero, una remota possibilità. L’elezione di Mattarella era stata salutata quasi come una vittoria; come se Bersani e i suoi fossero convinti di essersi procurati un utile alleato. In effetti il Presidente potrebbe teoricamente (e anzi dovrebbe) respingere la nuova legge elettorale. Ma non ha messo la testa fuori dal Quirinale per esprimersi sull’incredibile ricorso alla fiducia, oltre ad aver dimostrato, in questi mesi, di avere la consistenza di un ectoplasma. Possiamo anche aspettare per giudicare: ma ormai non credo faccia differenza.
Andrea Giannini