Dare per scontato quello che passa il convento spegnendo il cervello non è una trovata geniale: al paese giova mantenere un pensiero critico. Il dogma dell'infallibilità del maggioritario inizia ad essere in discussione, una delle tante crepe che sanciscono il fallimento della seconda Repubblica
Quando si è cominciato a parlare di dialogo tra Renzi e Berlusconi per una legge elettorale che andasse nella direzione di una maggiore governabilità ero molto scettico sulla possibilità che nell’opinione pubblica si sviluppasse un dibattito. Quando c’è di mezzo il Cavaliere, infatti, le polemiche non si sprecano mai, e il polverone che si alza, di solito, impedisce all’opinione pubblica di distinguere cosa stia succedendo davvero: ossia, nel caso in questione, che dentro al PD è in corso una guerra per bande e che per l’ennesima volta, da vent’anni a questa parte, destra e sinistra insieme cercano di forzare la Costituzione in senso maggioritario, spacciando una decisione politica discutibile per una scontata evidenza oggettiva. Questa volta, però, qualcosa si è mosso.
Un discreto numero di giuristi si sono ricordati della sentenza della Consulta (che bocciò il porcellum proprio per l’abnorme premio di maggioranza); e qualcuno, come ad esempio il professor Sartori, si è spinto persino a dire che attribuire il 55% dei seggi a un partito che prenda solo il 35% dei voti significa trasformare una minoranza in maggioranza. Anche il M5S ha fatto la sua parte. Dapprima è stata promossa una discussione sul web con un video dello storico Aldo Giannuli, che ha parlato di maggioritario e proporzionale; poi è stato chiesto agli iscritti di esprimersi con il solito voto telematico: e piuttosto inaspettatamente (almeno per quel che mi riguarda) il maggioritario è stato sconfitto, collocando così il movimento in favore del sistema proporzionale in una netta e chiara opposizione politica rispetto alla proposta di PD e Forza Italia.
Tuttavia, se in Italia oggi si mette in discussione il dogma dell’infallibilità del maggioritario, lo dobbiamo forse, più che a Grillo, al decisionismo di Renzi; il quale, ponendo il tema senza alcuna riserva, ha fatto emergere le contraddizioni all’interno del suo stesso partito, ha scosso dal torpore un’opinione pubblica inebetita e ha costretto il M5S a spingersi verso una posizione alternativa. Ciò significa che, nonostante il sindaco di Firenze conduca una battaglia che personalmente non condivido, in questo momento di immobilismo qualsiasi proposta è comunque positiva, perché riattiva la circolazione in un paese che ha la tentazione di lasciarsi andare; a riprova del fatto che, se persino il Wall Street Journal paragonava la stabilità italiana a quella di un cimitero, allora non c’è niente di più sbagliato che adagiarsi sulla linea del “troncare e sopire, sopire e troncare” patrocinata direttamente dal Presidente della Repubblica, per cui, tanto in Europa quando nelle questioni interne, dovremmo solo lasciarci guidare docilmente e con arrendevolezza da una politica che sa cosa è giusto per noi.
Con questo non voglio tanto affermare la necessità di tornare al sistema proporzionale (anche se – non lo nascondo – in effetti sarei favorevole), quanto ribadire che dare per scontato quello che passa il convento spegnendo il cervello non è una trovata geniale: al contrario al paese giova mantenere un pensiero critico.
L’idea che si debba rispondere alla grave crisi economica con un sistema maggioritario, dove un solo partito governa per cinque anni, sulla base della teoria che “in Italia non si sono fatte le riforme a causa del ricatto dei partitini”, è un gigantesco, colossale, stratosferico luogo comune. La realtà è che la seconda repubblica, che nasce con il Mattarellum e dunque proprio dalla fregola per il maggioritario, ha pur allungato la durata media dei governi, ma non per questo ci ha regalato performance esaltanti.
I miei lettori si ricorderanno che il calcolo l’avevo già fatto: dal 1953 al 1994 abbiamo cambiato governo ogni 8,4 mesi, con una crescita annuale media del 4%; all’opposto dal 1994 a oggi abbiamo avuto un governo ogni 19,4 mesi (cioè una stabilità più che doppia) crescendo però solo di uno stentato 1% all’anno. Dov’è in questi numeri la connessione tra governi più lunghi e crescita economica?
È pur vero che nella seconda Repubblica il rapporto debito/PIL ha cominciato finalmente a scendere; ma i lettori dovrebbero essere vaccinati anche contro questo argomento, perché ho più volte spiegato che il debito pubblico non c’entra nulla con la crisi. Anzi, la dinamica del debito pubblico dall’entrata nell’euro riflette in modo inversamente proporzionale la dinamica del debito privato. Tradotto: lo Stato non s’indebitava più solo perché s’indebitavano i privati (mutui, auto e televisori comprati a rate, eccetera) e sono proprio gli squilibri di questo indebitamento, emersi con lo scoppio della crisi globale, che ci impediscono di uscire dalla crisi. Pertanto non sono direttamente responsabili i pur noti problemi strutturali del paese: si dovrebbe guardare, invece, al solito famoso argomento, di cui però la politica proprio non vuol sentir parlare.
Se lasciamo da parte l’economia il quadro non cambia. Forse che in questi vent’anni sia stato approvato qualcosa di buono, qualcosa che vale la pena ricordare? E quanto alla società, all’educazione e alla cultura, l’impressione è che le cose siano peggiorate o migliorate? Mentre nei primi decenni del dopoguerra si creava il ministero delle partecipazioni statali, si aderiva al mercato comune europeo, nascevano gloriose aziende pubbliche come l’ENI, si approvava lo statuto dei lavoratori, si faceva la legge per abolire i finanziamenti illeciti, il referendum sul divorzio, la riforma del diritto di famiglia, la legge sull’aborto e la riforma sanitaria, cosa è stato fatto dopo il ’94 che valga la pena citare? La patente a punti? Dove bisogna cercare, allora, i presunti vantaggi di questi governi che, come le pile della pubblicità, “durano di più”?
Attenzione: non sto dicendo che non importa se la politica è instabile; sto solo dicendo che, se quello che abbiamo visto in questi vent’anni è un’anticipazione dei vantaggi di un maggioritario puro, allora prima torniamo indietro meglio è. Non sto rimpiangendo la prima Repubblica; ma la seconda è stata, se possibile, anche peggiore: e dunque bisogna cercare un’altra cura, e sicuramente anche un’altra diagnosi. Pertanto, se vogliamo parlare di legge elettorale, il dibattito dovrebbe essere più sereno e dovrebbe volare molto più in alto, allontanandosi da luoghi comuni che servono solo a confondere le idee alla gente.
Purtroppo, nonostante i piccoli miglioramenti registrati, siamo ancora molto indietro. Il blocco politico-mediatico più corposo è ancora dominato da “fondamentalisti maggioritari”: e dunque il pericolo di irregimentare il paese sotto la guida di un governo mono-partitico, che per cinque anni potrà condurci testardamente lungo la china dei principi più assurdi e pericolosi, rimane concreto.
Anche la soluzione di Grillo, a ben vedere, presenta lacune vertiginose. Un dibattito su temi così complessi non si può improvvisare. I 16 minuti con cui Giannuli ha tentato di introdurre il tema sono stati utili piuttosto, per stessa ammissione dello storico, a dimostrare quanto l’argomento sia complesso e delicato: e pertanto una frettolosa votazione sul web è stato un salto nel buio. Il M5S dovrebbe preparare con più largo anticipo una risposta ai temi politici più scottanti, e possibilmente dar vita ad un dibattito più ampio. Continuando così anche i nuovi arrivati non vanno da nessuna parte.
Andrea Giannini