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Maria Rebecca Ballestra, l’artista ligure racconta le sue opere

L'artista collabora con una galleria di Parigi e lavora in tutto il mondo, a Genova presenta il suo ultimo progetto “Changing perspectives”


12 Ottobre 2011Interviste

Maria Ballestra, Changing PrespectiveNell’ambito della rassegna START di ottobre, che vede l’apertura collettiva delle gallerie d’arte del centro genovese, abbiamo intervistato Maria Rebecca Ballestra, artista ligure che presenta un percorso espositivo intitolato “Changing perspectives” e articolato in cinque sedi (Villa Croce, Castello d’Albertis, Sala Dogana, galleria Unimedia Modern, Genoa Port Center).

Tu viaggi e hai viaggiato molto, e dal viaggio, dal contatto con altre culture e altri luoghi trai gli elementi per le tue opere. Il viaggio inteso come strumento di conoscenza e l’arte come strumento di espressione: può essere una sintesi della tua ricerca artistica?
Direi assolutamente di sì. Il viaggio è l’elemento fondamentale di tutto il mio lavoro e anche della mia vita personale in quanto è stato occasione per me di relativizzare la mia appartenenza culturale, la mia storia, per raggiungere una circolarità dello sguardo e spostare il mio punto di vista sulla realtà. L’arte è stato un mezzo di conoscenza e un mezzo per trasmettere, suggerire delle riflessioni. I miei lavori sono progetti site specific, quindi temporanei, e rappresentano l’intenzione di non presentare un prodotto che invada lo spazio e il tempo, ma di offrire un mezzo per suggerire appunto riflessioni su tematiche che ci riguardano tutti come cibo, energia, cambiamenti climatici e così via.

A volte c’è una percezione comune dell’arte come qualcosa di slegato dalla realtà. Invece i tuoi lavori sono strettamente connessi a temi sociali, alla realtà che viviamo, a situazioni di urgenza che ci riguardano, esempi: il consumo folle di risorse naturali, i cambiamenti climatici, le manipolazioni transgeniche, i diritti umani, le sperequazioni sociali…. sono tutti temi importantissimi e più che mai attuali. Sembra tuttavia che niente possa cambiare il trend negativo che va avanti basato su equilibri di potere dettati dal denaro: l’impressione è che sarà il pianeta stesso a fermarci prima o poi. In un quadro simile, la tua opera è una semplice testimonianza di un destino ineluttabile o c’è un germe di speranza che qualcosa cambi?
Nelle mie opere fino ad adesso la mia voleva essere solo un’osservazione. Nel momento in cui stanno avvenendo cose così gravi, spesso noi perdiamo tempo secondo me a parlare di tutt’altre cose, come politica o conflitti di religione, che per quanto siano importanti passano in secondo piano rispetto a urgenze come il cibo ad esempio. A breve tempo cibo, risorse energetiche e cambiamenti climatici saranno le problematiche principali di tutta l’umanità.

Fino a quest’ultimo progetto non c’era alcun germe di speranza né di soluzione, anche perché i miei lavori non vogliono esprimere giudizi morali, se l’uomo vuole autodistruggersi va bene, l’importante è che ne sia cosciente, e secondo me non lo siamo. Poi durante l’esperienza di “Changing Perspectives” ho iniziato una collaborazione con degli scienziati e questo ha portato le mie ultime opere a essere più positive e possibiliste, considerando la possibilità che l’uomo sia la soluzione all’uomo stesso, e guardando alla scienza e all’arte come possibili risposte ai danni che l’uomo sta creando all’ecosistema e a se stesso.

I tuoi lavori sono dislocati qui a Genova in 5 sedi espositive diverse: Villa Croce, Castello d’ Albertis, Sala Dogana, galleria Unimedia Modern, Genoa Port Center. Perché un percorso espositivo dinamico?
Per varie ragioni. Innanzitutto ho sempre avuto difficoltà nel mio lavoro derivanti dal fatto di non limitarmi a un’estetica e a un sistema precisi, e nel tentativo di capire a quale dei luoghi del sistema dell’arte volevo appartenere mi sono sempre chiesta “perché devo lavorare solo con la galleria o solo col museo, o perché devo comunicare solo al sistema dell’arte, perché non posso comunicare a tutti?”.

Il mio è stato un percorso sempre trasversale, a Parigi collaboro con una galleria che rappresenta il mio lavoro, però gran parte delle mie opere si sviluppa come interventi urbani site e contest specific, a volte in collaborazione per esempio con associazioni umanitarie, quindi trasversali al mondo dell’arte, o in collaborazione, come ultimamente è successo, con la scienza. Perciò volevo una mostra che illustrasse i vari luoghi e aspetti dell’arte, quindi: al Museo delle culture del mondo di Castello d’Albertis c’è l’opera fotografica realizzata durante i miei viaggi, che testimonia l’approccio alle culture diverse e il tentativo di comprenderle; in Sala Dogana c’è la documentazione dei progetti site specific, esauriti nel luogo e nel tempo in cui sono stati realizzati; la galleria Unimedia Modern rappresenta il luogo della vendita, che è tanto importante quanto i luoghi dove l’arte si fa e si conserva; Villa Croce è il luogo istituzionale, è il museo d’arte contemporanea; il Genoa Port Center è un altro luogo non legato all’arte ma rappresentativo di una realtà importante della città che è il porto, e qui ci sarà un’opera realizzata in collaborazione con uno scienziato, quindi di nuovo un’apertura diversa alla città, al di fuori del mondo dell’arte.
Le tue opere sono “site specific projects“. Ci spieghi di cosa si tratta?
I site specific projects sono progetti pensati appositamente per i luoghi che li accolgono, quindi hanno senso all’interno di un contesto che può essere aperto, chiuso, urbano, museale, e così via. Possono essere anche contest specific projects, cioè legati al contesto, per esempio a una comunità, a un villaggio, a una città, e time specific quando sono legati al tempo, quindi a una durata definita che coincide con il percorso di realizzazione o di visibilità.

Per quanto riguarda il tuo pubblico, raccogli reazioni diverse a seconda del paese in cui esponi?
Assolutamente sì. È molto importante considerare il fatto che il senso dei site specific projects si esaurisce nel contesto per cui sono creati, quindi per esempio un lavoro che ho fatto in India, realizzato in un villaggio ai limiti del deserto del Rajasthan e ispirato alla desertificazione che ha tanto peso su agricoltura e allevamento del luogo, aveva un determinato senso in quel paese ma ne assume uno diverso in un altro. Le mie opere però cercano di toccare problematiche globali che riguardano l’uomo in quanto specie, con l’intento di arrivare a tutti, in qualsiasi contesto l’opera venga portata. Universalità della tematica, universalità di pubblico, questa è la visione. Da qui nasce anche il mio interesse di comunicare a tutti gli strati sociali e non solo agli addetti ai lavori del mondo artistico.

di Claudia Baghino


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