I fatti dimostrano che Renzi avesse ogni ragione a non curarsi degli oppositori: perché sono divisi, e nessuno singolarmente è abbastanza forte per metterlo in discussione. Questa è una circostanza della politica italiana che tende ormai a ripetersi con frequenza sospetta
Quando ho sentito che Renzi voleva eleggere Mattarella aspettando la quarta votazione (quando cioè il quorum si sarebbe abbassato), confesso di aver pensato che il premier fosse diventato matto: tre votazioni senza far nulla erano oggettivamente un’occasione troppo grossa per le opposizioni, che avrebbero avuto il tempo di spaccare il PD avanzando un’altra candidatura (un po’ come accaduto nel 2013). A quel punto, però, mi sono ricordato chi siano le cosiddette “opposizioni” che si aggirano per il nostro Parlamento: e allora ho capito che Renzi avrebbe vinto di nuovo.
C’è solo un gruppo politico più diviso del PD: quelli che gli si oppongono. È vero che questo Parlamento è lo stesso che nel 2013 impallinò Prodi, mostrando al paese intero la profonda lacerazione che divideva il partito di Bersani e Renzi: ma è anche vero che tra queste due leadership corre una grossa differenza. In fin dei conti è quello che ho scritto la settimana scorsa, quando ho cercato di spiegare quanto sia importante il sostegno che deriva dalla legittimazione politica.
Nel 2013 Bersani aveva appena “pareggiato” le elezioni, facendosi raggiungere da un Berlusconi dato per morto e da un comico a capo di un movimento nato il giorno prima. Oggi invece Renzi, pur non essendo mai stato eletto direttamente, è forte di sondaggi ancora ottimi e della legittimazione ottenuta alle elezioni europee. Il quadro è dunque radicalmente diverso. Bersani era una bestia ferita, e per la legge della giungla è stato subito azzannato: dall’interno, con i 100 franchi tiratori che fecero saltare la candidatura di Prodi (capeggiati dallo stesso Renzi, secondo Fassina); e dall’esterno, con la candidatura di Rodotà avanzata dal M5S. Renzi, invece, è il politico del momento: e in Parlamento non ha avversari.
L’unico antagonista in ascesa è Salvini: ma per eleggere il Presidente della Repubblica servono parlamentari; e la Lega ne ha ottenuti troppo pochi alle ultime politiche (quando ancora Salvini non era segretario). L’altro leader del centro-destra è Berlusconi, che è stato dipinto come il grande sconfitto. Tuttavia si tratta di una sconfitta relativa; o comunque era difficile ipotizzare che l’elezione unilaterale di Mattarella potesse essere vissuta dall’ex-Cavaliere come un’offesa intollerabile. Ai servizi sociali, con un braccio destro in galera per mafia e con delle aziende a cui pensare, Berlusconi aveva tutto da guadagnare a tenere in piedi il patto di non belligeranza con il premier. Per cui la (presunta) rottura del Nazareno, a cui stiamo assistendo in questi giorni, ha soltanto due spiegazioni: o è una messa in scena, oppure siamo di fronte ad un effetto collaterale che né Renzi né Berlusconi avevano calcolato.
È possibile che i parlamentari forzisti si siano accorti che la strategia filo-governativa serve al leader, ma non al partito. Per Berlusconi ha un senso mantenere un certo ruolo politico al fianco di Renzi: ma per tutti gli altri, che vedono Forza Italia cedere consensi al PD e precipitare nei sondaggi, non ha alcun senso rischiare di perdere la poltrona e, con essa, ogni influenza politica. Solo il tempo, tuttavia, ci dirà se queste considerazioni hanno effettivamente attecchito nella testa di alcuni, oppure se i mal di pancia nel centro-destra sono solo fumo negli occhi.
Veniamo quindi all’ultimo rivale di Renzi, che dovrebbe essere Grillo. Purtroppo però il M5S, da quando è entrato in Parlamento, ha esasperato i suoi pur noti limiti, anziché stemperarli. L’indecisione con cui è stata affrontata questa elezione è ulteriore prova del fatto che la nuova forza politica si è completamente smarrita. Sottoporre alla rete le candidature di Prodi e Bersani – vale a dire, rispettivamente, il candidato alla presidenza della Repubblica e del Consiglio già bruciati e sbeffeggiati nel 2013 – equivale a smentirsi su tutta la linea: e il fatto di aver sostenuto fino alla fine il candidato della rete, Imposimato, non vale a ristabilire l’impressione che il movimento abbia una guida sicura. Il fatto poi che una forza che si definisce “anti-euro” prenda anche solo in considerazione il nome di Prodi, ossia l’alfiere dell’euro per antonomasia, conferma come da quelle parti si navighi ormai a vista.
Perciò i fatti dimostrano che Renzi avesse ogni ragione a non curarsi degli oppositori: perché sono divisi, e nessuno singolarmente è abbastanza forte per metterlo in discussione. È questa, a dire il vero, una circostanza della politica italiana che tende ormai a ripetersi con frequenza sospetta: i partiti di governo si ritrovano contro un’opposizione teoricamente superiore di numero, ma nella pratica sempre troppo divisa per organizzare una risposta politica alternativa. Il che rende la vita agevole ai governanti, almeno finché le circostanze non esigono un cambiamento (o questi non decidono di suicidarsi).
Renzi, pertanto, ha calcolato giustamente che il pericolo potesse venire soltanto dall’interno. Per questo ha fatto la cosa più sensata: ha cercato di capire cosa volessero i critici dentro il PD, e li ha accontentati. Pare addirittura che il nome di Mattarella sia venuto direttamente da Bersani, il quale si sarebbe impegnato così a non rendere al premier pan per focaccia – magari accoltellando il candidato renziano nel segreto dell’urna.
Se le cose sono andate così, allora l’indubbia vittoria del Presidente del Consiglio ne esce un po’ ridimensionata. Il premier si confermerebbe, infatti, politico spregiudicato, capace di digerire qualsiasi cosa: la distruzione della storia e dell’identità della sinistra, le generose donazioni di alcuni finanzieri, l’alleanza con il pregiudicato Berlusconi, i desiderata dei più forti partner europei e adesso anche l’elezione unilaterale del Presidente della Repubblica (come se il quorum di 2/3 per le prime tre votazioni non implichi almeno il tentativo di trovare un’ampia condivisione, che invece Renzi ha esplicitamente escluso sin dall’inizio).
Emerge la figura di un opportunista disposto a giocare su più fronti, a negoziare con chiunque, a forzare leggi e consuetudini pur di sbarcare il lunario, di tirare avanti e conservare il potere. Il che sarebbe anche una qualità in politica, se non fosse per un piccolo dettaglio: come abbiamo già visto, ogni decisione ha anche delle conseguenze; e i tipi che non si fanno troppi scrupoli, come Renzi, devono naturalmente non prestare troppa attenzione a questo aspetto (altrimenti si farebbero, banalmente, qualche problema in più). C’è il rischio concreto, perciò, che prima o poi al nostro brillante premier il gioco sfugga di mano…
Andrea Giannini