Nata in Venezuela e arrivata in Italia a metà degli anni Novanta, Maria Eugenia Esparragoza è un’esperta di comunicazione sociale e antropologia filmica. Con un grande sogno nel cassetto: tornare un giorno alla sua grande passione, il giornalismo
La nuova genovese che abbiamo incontrato questa volta è Maria Eugenia Esparragoza. Nata in Venezuela, è arrivata in Italia a metà degli anni Novanta, con una ricca ed eterogenea esperienza nella comunicazione sociale, nel giornalismo, nel settore audiovisivo, in particolare nell’antropologia filmica, e nella docenza universitaria. A Genova è riuscita ad affermarsi professionalmente a prescindere dal riconoscimento dei titoli di studio precedenti, anche in settori diversi da quelli in cui aveva operato.
Il concetto chiave che emerge dall’incontro con Maria Eugenia Esparragoza è l’importanza di promuovere uno sguardo diverso sui luoghi attraversati quotidianamente, sul centro storico, sulla città e svegliare l’interesse per l’ambiente e le persone che ci stanno intorno.
I nuovi cittadini genovesi, persone di origine straniera ma profondamente radicate dal punto di vista personale, professionale e culturale, in Italia e a Genova, possono apportare un contributo fondamentale. Sono portatori di un punto di vista complesso, nel quale si compendia l’esperienza dello sradicamento e della migrazione con quella dei nuovi legami sociali e culturali con il territorio nel quale risiedono.
Genova ha una peculiarità: la grande presenza di residenti di origine latinoamericana iniziata a crescere negli anni novanta a causa della crisi politica ed economica di alcuni paesi dell’America Meridionale e, poi, consolidata con i ricongiungimenti familiari e l’implementazione di catene migratorie con al centro la nostra città. Un percorso simile è avvenuto nelle regioni adriatiche e in alcune zone del Nord con l’immigrazione albanese, esplosa con la crisi dei regimi filosovietici e oggi generalmente integrata con successo nel tessuto sociale del paese. Ora iniziamo ad assistere, complice la crisi economica in Italia e Europa, al fenomeno della contravuelta, del rimpatrio assistito sostenuto dai governi dei paesi d’origine.
Queste storie, al di là delle particolarità individuali di ognuna, ci spingono a interrogarci anche sui processi migratori attuali, originati come allora da una catena di crisi politiche ed economiche esplose nella fase delle cosiddette “Primavere Arabe”, e vissuti dai media e dall’opinione pubblica come emergenza permanente. Nel medio periodo non si può escludere che questi fenomeni migratori potrebbero consolidarsi e assumere caratteristiche simili a quelle degli anni Novanta, compresi i ricongiungimenti familiari e la contravuelta, pur riconoscendo che alcune delle questioni geopolitiche che li hanno aumentati siano di difficile risoluzione.
L’incontro con Maria Eugenia è anche uno stimolo a interrogarsi su quanto di vero e quanto di stereotipico ci sia nella diffusa immagine che ritrae quello di Genova (città che come altre in Italia, e forse più lentamente e riottosamente, sta vivendo il lento abbandono dell’identità urbana di polo industriale) come un ambiente un po’ chiuso, tendenzialmente diffidente e ostile verso l’innovazione, le nuove idee e i nuovi punti di vista.
Qual è stato il tuo percorso di studi e di lavoro prima di arrivare a Genova nel 1993?
«In Venezuela, ho iniziato a scrivere a 14 anni su giornali e riviste, prima su un giornale regionale e poi sui media più importanti. Per me scrivere era un divertimento, non c’erano tutti i mezzi di oggi per farsi pubblicare. Avrei voluto studiare antropologia ma, in quel periodo, l’Università centrale è stata chiusa per più di anno a causa di moti studenteschi. Come tanti della mia generazione, ho ripiegato su un’università privata e mi sono laureata in Comunicazione sociale con specializzazione in audiovisivi. Dopo aver lavorato due anni all’Ufficio centrale dell’informazione, ho trovato modo di andare a Parigi a studiare antropologia filmica, collegandola così a quanto avevo studiato fino ad allora. In Venezuela ho anche insegnato 10 anni nella stessa università in cui avevo studiato.
Il mio progetto era quello di realizzare un film che mettesse in relazione il continente sudamericano e quello africano. Grazie ad alcuni premi di progetti vinti dopo la tesi e varie collaborazioni, ho svolto ricerche socioantropologiche sul campo, in Congo, scoprendo che era proprio da quell’area che provenivano molti degli schiavi portati in Venezuela dal continente africano, mentre tutte le ricerche sugli afrodiscendenti si concentravano sulla costa occidentale.
Il risultato di queste ricerche è stato il documentario Salto al Atlántico, il primo film a connettere due continenti che non si parlavano, in un periodo in cui non c’erano tutti i mezzi di oggi per connettere le persone attraverso i media. Salto al Atlántico negli anni successivi è stato proiettato in numerose occasioni e festival in Europa e in America Latina, vincendo anche alcuni premi. Nel 1992 il film, che era disponibile all’ambasciata venezuelana, è stato richiesto dall’organizzazione delle Colombiane ed è stato proiettato per la prima volta a Genova. Io sono arrivata in Italia l’anno successivo, ho conosciuto il Laboratorio Migrazioni del Comune che si era occupato della proiezione del film e, grazie anche al film, ho iniziato con loro un percorso di collaborazioni e consulenze».
La tua laurea in Comunicazione sociale è stata riconosciuta in Italia?
«Non ho fatto riconoscere in Italia la mia laurea. Stavo per iniziare il percorso di convalida, quando mi si sono presentate opportunità di lavoro per docenze a contratto in lingua spagnola, per le quali non era richiesta, e dal 2000 svolgo collaborazioni in questo settore. Avevo già un titolo di studio europeo, il dottorato a Parigi.
In Italia avrei voluto riprendere a occuparmi di giornalismo. Molti me lo hanno sconsigliato e mi hanno detto che il percorso era lungo e difficile. In Venezuela l’albo dei giornalisti accetta direttamente i laureati dell’Università, e può ammettere chi dimostra di aver lavorato nel settore senza essere laureato. Ho rinunciato: è rimasto un sogno nel cassetto. Ogni tanto scrivo qualcosa e lo metto lì dicendomi che almeno online dovrei pubblicare qualcosa prima o poi».
Hai avuto ostacoli o difficoltà di affermazione professionale legati all’assenza o ai lunghi tempi richiesti per l’acquisizione della cittadinanza italiana?
«Io ero sposata con un italiano ma all’inizio non ho voluto prendere la cittadinanza italiana per non perdere la mia, in quanto il Venezuela prima della rivoluzione di Chavez non accettava la doppia cittadinanza. Non mi sono precipitata nemmeno quando avrei potuto, vedevo i miei diritti abbastanza riconosciuti e ho perso la possibilità di accedere a un concorso per coordinare il Centro Scuole e Nuove Culture perché non ero italiana. Allora mi sono attivata, fra la richiesta e l’ottenimento sono passati 5 anni».
Un sistema di accesso al mondo del giornalismo incentrato sul vincolo del titolo universitario, come in Venezuela, potrebbe essere utile a migliorare il livello di approfondimento e qualità nel trattare il tema delle migrazioni?
«Potrebbe essere. Però io vedo che anche nei miei corsi non c’è un grande interesse a parlare in modo approfondito di migrazioni. Diventa molto difficile, anche per questo, farlo attraverso i media. Una preparazione specifica dei giornalisti che si occupano di migrazioni potrebbe migliorare la qualità linguistica del messaggio…lo strumento linguistico spesso è usato in maniera superficiale».
Quando sei arrivata a Genova hai tentato di inserirti professionalmente nel settore dell’audiovisivo e dell’industria creativa?
«Ho provato un paio d’anni ma, non vedendo a Genova grosse prospettive nell’audiovisivo e nell’industria filmica, ho deciso di dedicarmi ad altro. Non credo che ci siano grossi investimenti. Nel 2007 ho deciso di riprovarci e ho presentato il documentario Rifare i Bagagli al Genova Film Festival. Trattava il tema dell’impatto delle migrazioni sugli adolescenti. Mi piacerebbe riprendere in mano il tema e rifarlo ora, 10 anni dopo, e vedere che cosa è cambiato. Negli anni successivi sono entrata a far parte della giuria del Genova Film Festival».
Ci sono spazi a Genova per l’affermazione professionale di cittadini stranieri con competenze audiovisive e filmiche? Ci sono giovani e persone della cosiddetta “seconda generazione” attivi nel settore?
«Credo che per loro sia molto difficile, qua c’è un ambiente in generale piuttosto bloccato. Sono con il Genova Film Festival da quando è nato e di prodotti fatti da migranti, o figli di, ne ho visti veramente pochissimi. Non è che non ci siano, solo non vedono molti canali per esprimersi. La situazione in tutto il Nord e nell’Italia in generale non la vedo in grandissima espansione. Il settore è difficile per tutti, anche per gli italiani.
A Genova ci sono personalità eccellenti nel settore cinematografico con collaborazioni a livello nazionale o internazionale, ma si tratta di profili specializzati in settori e riprese particolari. In generale per fare grandi cose devi andare almeno a Milano, Torino o Roma».
La città di Genova, anche se relativamente propensa a una buona accoglienza verso i nuovi cittadini, è molto spesso dipinta come tendenzialmente conservatrice e poco propensa all’innovazione. Pensi che sia uno stereotipo o ci sono elementi di verità in questo punto di vista?
«Mi sembra che la “piazza” sia difficile in generale. Da 2 anni assieme ad altre persone collaboro con il progetto Migrantour attivo anche in altre città italiane. Migrantour organizza passeggiate culturali per promuovere uno sguardo diverso sulla città e sul centro storico genovese: la città vecchia con gli occhi dei nuovi cittadini.
E’ questo che io penso debba essere fatto: parlare a tutti! E’ come nel giornalismo: l’obiettivo non deve essere solo fare la stampa per i migranti, bisogna parlare a tutti, proporre un punto di vista diverso sui luoghi delle città, sui temi che interessano la cittadinanza. Svegliare l’interesse delle persone per quello che ci sta accanto.
Con Migrantour abbiamo organizzato diverse passeggiate tematiche per interessare la cittadinanza su diversi temi: una sul caffé, una in occasione della giornata mondiale dell’acqua, una in occasione della Pasqua Ortodossa, un’altra sulle piante medicinali. Per quest’ultima, la persona si era preparata moltissimo e abbiamo dovuto rinunciare per mancanza di quorum. Se faccio un confronto con i numeri di Migrantour in altre città, mi chiedo se sia la piazza stessa a essere poco ricettiva. Ho partecipato a una di queste passeggiate a Torino, nel quartiere di Porta Palazzo, e c’erano più di 150 persone. È vero che là i numeri sia degli stranieri residenti che della popolazione in generale sono superiori, ma credo che qua ci sia un problema di ricettività. Occupandomi da molti anni di migrazioni e intercultura, mi sono resa conto che in città le voci e le sensibilità che si muovono su certi temi sono sempre le stesse. Il punto è come fare per arrivare a parlare anche ad altri? Forse un impulso potrebbero darlo le istituzioni, ma la vedo difficile, viviamo un’epoca di restrizioni. Ho la sensazione che oggi molti degli spazi che si erano aperti 10/15 anni fa su questi temi si stiano chiudendo».
Andrea Macciò