Fra intuizioni felici, errori politici e problemi strutturali, l'analisi e le riflessioni sul percorso compiuto fino a qui dal Movimento di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio
Dalle colonne di questa rubrica ho avuto la possibilità di seguire tutta la parabola del Movimento 5 Stelle. Ho cominciato a occuparmi dei nuovi venuti già a maggio 2012, quando il Parlamento sembrava ancora lontanissimo, Grillo era visto come l’incarnazione dell’antipolitica e i sondaggisti più generosi non attribuivano più dell’8% a questi pericolosi eversivi. Ciononostante fu subito evidente – a me come ad altri commentatori – che Grillo fosse portatore di istanze politicamente vincenti: intercettava il malcontento diretto verso tutta la classe politica, vista come ugualmente corrotta da destra a sinistra; portava una sventagliata di idee da altri paesi, dimostrando così ad un tempo l’arretratezza del dibattito italiano e la reale possibilità di un’alternativa; faceva leva sulla partecipazione attiva degli iscritti, recuperando un principio di democrazia contro la disaffezione alla politica (soprattutto tra i più giovani).
Il vero segreto del successo del M5S, tuttavia, – e penso di essere stato uno dei pochi ad averlo notato – andava ricercato in una formula completamente nuova: quella del “leader non eleggibile”. Il fatto che Grillo non ambisse a nessuna carica politica, e potesse quindi utilizzare la sua verve comica per fondare un nuovo linguaggio, lontano dai logori dibattiti dei talk-show, è stato l’elemento decisivo per conferire al suo movimento un’aura di alternativa, compensata dalla rassicurante faccia pulita dei ragazzi che correvano per le amministrazioni locali.
I principali commentatori in parte non capivano questa novità e in parte erano spaventati dalla possibilità che Grillo facesse perdere consensi ai loro referenti politici. Per questo motivo dalle colonne dei grandi giornali, e persino dal colle più alto, piombavano sul comico genovese attacchi pretestuosi variamente ricamati sul solito tema della reductio ad Hitlerum: i problemi del paese erano congiunturali e presto sarebbero stati risolti, se solo Grillo non avesse cavalcato il malcontento in modo populistico, rischiando così – lui sì! – di far perdere la rotta al paese e di portarlo alla rovina come aveva fatto Mussolini.
Naturalmente questa giustificazione non era forte come l’esasperazione che il paese stava attraversando. La proposta di Grillo era l’unica ad offrire sia una diagnosi che una terapia; e dunque non mi fu difficile prevedere il clamoroso successo politico del 2013. In seguito l’operazione di restaurazione compiuta con la riedizione delle “larghe intese” e la seconda elezione di Napolitano non faceva che spianare la strada ai nuovi venuti, che da quel momento, con le altre forze politiche chiuse a riccio nella conservazione dell’esistente, restavano i soli interpreti del necessario rinnovamento. Paradossalmente, però, proprio quando le cose sembravano essere in discesa, per il M5S sono cominciati i dolori.
Sin dal mio primo intervento avevo rilevato come in questa nuova realtà politica i punti di forza convivessero con alcuni problemi strutturali. Convinto di essere il nuovo che avanza, Grillo trascurava con troppa disinvoltura vecchie lezioni. Ad esempio, era ovvio che il “megafono del movimento”, che all’inizio poteva svolgere un’utile funzione di propaganda, alla lunga sarebbe diventato un peso; perché non si può guidare un partito senza farsi eleggere. La forza di imporre una linea dipende dai voti che si riesce a raccogliere (o – ça va sans dire – dai soldi che si mettono sul piatto): e naturalmente non si può sfuggire a questa banale realtà semplicemente chiamando un partito “movimento”. Dal che deducevo che Grillo si sarebbe fatto da parte: oppure che la sua creatura si sarebbe persa per strada.
Allo stesso modo era chiaro che anche la democrazia diretta sul web non potesse funzionare. Il fatto che una piattaforma virtuale sia teoricamente accessibile a centinaia di migliaia o anche milioni di utenti contemporaneamente (cosa che non è possibile in una qualsiasi piazza fisica delle nostre città), non comporta certo che così tante persone possano realmente dialogare tutte insieme. Questo dialogo, per mettersi in atto, necessita comunque della mediazione di un gruppo ristretto di persone che “rappresenti” le diverse anime, si faccia portavoce dei bisogni e delle istanze della collettività, moderi il confronto e faccia rispettare alcune norme di civile comportamento. Insomma, servono dei rappresentanti: che poi è proprio quel ruolo che dovrebbero ricoprire i nostri tanto vituperati politici nel nostro ormai sorpassatissimo Parlamento; proprio quella forma di democrazia indiretta che Casaleggio dava per superata grazie all’avvento della rete. Di qui l’insanabile contraddizione di una discussione via web che dovrebbe essere teoricamente libera e “anarchica”, ma che pure Grillo è costretto a controllare e indirizzare.
Oltre a non fare i conti con questi problemi di fondo – anzi, forse proprio per questo motivo – il M5S ha cominciato ad inanellare una lunga serie di errori politici. Convinti che i voti fossero dipesi dalle fedine penali pulite e che la conquista della maggioranza assoluta fosse scritta nel destino, i parlamentari pentastellati si limitarono a ripetere la lezione imparata sul blog. Peccato solo che non fosse più sufficiente.
L’idea di non fare accordi per non intaccare la purezza del pensiero non è di per sé scandalosa: il fatto è che ci sono delle conseguenze da tenere in conto. Tanto per cominciare, se non si fa un accordo per governare e si rimane all’opposizione, bisogna sapere che sarà frequente l’accusa di “fare disfattismo”. Naturalmente è pretestuosa: chi è in minoranza non ha i numeri per tradurre in leggi le proprie idee. Tuttavia rimane nell’elettorato il dubbio che chi critica il governo non abbia a sua volta una strategia realmente percorribile. Per questo motivo il M5S avrebbe dovuto cercare di scaricare sul PD la responsabilità per i mancati accordi: ed invece nessun attenzione fu prestata a questo aspetto quando saltò l‘alleanza con Bersani, che pure nessuno voleva; e non si fece abbastanza quando andarono a monte gli altrettanto ridicoli colloqui con Renzi.
Il punto più importante, però, è che per stare all’opposizione occorre avere una visione opposta. La fortuna del movimento non l’aveva fatta il messianismo telematico di Casaleggio, ma il fatto di essere percepito come alternativo proprio quando si sentiva il bisogno di un’alternativa. Occorreva dunque che la principale forza di opposizione continuasse a porsi come alternativa al sistema. E invece Grillo, dopo aver lasciato che Renzi copiasse le sue idee più ortodosse, si è fatto battere anche da Salvini sul fronte dell’opposizione. Così il M5S si è condannato all’irrilevanza: troppo poco “partito di lotta” senza essere partito “di governo”.
Il dramma è che di questo Grillo è perfettamente consapevole. Lo dimostra il fatto che ha avuto il fiuto di intuire praticamente tutti i “temi caldi” che un partito all’opposizione dovrebbe inseguire: ha rilevato per primo le criticità dell’euro, ha battuto sul tasto dell’immigrazione e ha persino messo in discussione la complessa questione nazionale. Non basta. Ha anche capito la necessità stessa di mantenersi sul “fronte critico” quando si è alleato con Farage. Di recente ha puntato con decisione sull’uscita dall’euro, avendo capito che la battaglia porta voti e che conviene superare una posizione iniziale irrealistica e ambigua.
Non sarà sfuggito che la posizione del M5S non è troppo distante, almeno sui temi più importanti, da quella dell’altro grande partito di opposizione: la Lega Nord. Ciononostante Grillo ha rifiutato categoricamente ogni proposta di incontro che sia venuta da Salvini. È evidente che il comico genovese vuole mantenere un’alterità e sta cercando di recuperare il terreno perduto. Tuttavia il fatto che insista su questioni del tutto fuorvianti, come il referendum sull’euro, non potrà garantirgli molta fortuna.
Inoltre, se ci imponiamo di giudicare dai fatti e non dalle intenzioni, non possiamo che concludere che il M5S ha lavorato per la vecchia politica, rendendo inutili, di fatto, i voti ottenuti: dapprima ha fatto l’indispensabile opposizione al governo di Letta e Berlusconi; ora, che si potrebbe costruire un’alternativa con Salvini, impedisce l’affermazione di una maggioranza euro-scettica intestardendosi su assurdi punti di principio.
È giunta l’ora di rendersi conto che siamo quello che facciamo. E che, come tutti sanno, il motto del potere è divide et impera. Pertanto, se il movimento e i suoi iscritti non stanno con nessuno e da soli non riescono a fare niente, forse dovrebbero chiedersi di chi stanno facendo il gioco: se di chi vuole rinnovare o di chi vuole che tutto cambi perché niente cambi.
Andrea Giannini