Gigantismo navale, ambiente e geopolitica. Il blocco del canale di Suez ha acceso i riflettori su alcune grandi dinamiche del nostro tempo. Che interessano anche Genova
La portacontainer Ever Given, della compagnia di trasporti marittimi taiwanese Evergreen Marine Corp., ha bloccato il canale di Suez dal 23 al 29 marzo. Sei giorni sono un tempo breve, ma in questo caso sono bastati per provocare danni ingenti. Innanzitutto, dal punto di vista economico. La rivista specializzata Lloyd’s List ha stimato che ogni giorno di blocco sia costato ai commerci marittimi 9,6 miliardi di dollari (8,18 miliardi di euro) e che il valore delle merci bloccate nelle più di 300 navi incolonnate nel canale fosse di 8,12 miliardi di euro. Ma come fa notare la Bbc, i danni vanno ben oltre il settore dei commerci via mare, quindi al momento è molto difficile fare una stima di quanto questi sei giorni siano costati complessivamente.
Il motivo è l’assoluta centralità del canale per i traffici globali. I numeri variano a seconda delle stime, ma grossomodo da Suez passa ogni giorno il 12% del commercio mondiale, 1 milione di barili di petrolio e l’8% del gas naturale liquefatto. Restringendo il campo, dal canale arrivano in Italia merci per un valore di 88 miliardi all’anno, quindi 241 milioni al giorno. La crisi ha anche avuto un impatto anche sulle attività del porto di Genova, che nei giorni del blocco è entrato in stato di preallerta. «Da Suez – ha detto il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale Paolo Signorini lo scorso 29 marzo in un’intervista a Repubblica – passa il 22% complessivo dei traffici del porto e poco meno del 50% dei traffici containerizzati». Il problema, oltre ai ritardi, sarebbe stato l’aumento del costo delle merci trasportate attraverso più lunghi percorsi alternativi (alcune navi hanno scelto di circumnavigare l’Africa) e la gestione di un afflusso concentrato nei giorni successivi allo sblocco della situazione.
Oltre a provocare danni economici, i sei giorni in cui la Ever Given ha paralizzato una buona fetta dei commerci marittimi mondiali hanno portato alla ribalta alcune dinamiche spesso discusse solo nei circoli ristretti degli addetti ai lavori. A cominciare da quella del cosiddetto gigantismo navale. Le immagini del colosso incagliato nella sabbia, vicino al quale i mezzi incaricati di disincagliarlo sembravano giocattoli, hanno generato perplessità ma anche ironia e meme.
Affidare i trasporti marittimi a navi sempre più grandi è però una tendenza che va avanti da tempo, dalle conseguenze significative. Conseguenze che riguardano anche Genova.
Nel 1999 uno studio della Delft University of Technology noto nel settore dei trasporti prevedeva che si sarebbe arrivati a costruire navi dalla capienza di 18.000 TEUs (sigla che sta per Twenty-foot Equivalent Units, l’unità di misura convenzionale usata per le portacontainer, dove un TEU corrisponde con un container) ma che sarebbe stato impossibile costruirne di più grandi.
La Ever Given ha capienza di 20.124 TEUs (quindi può portare 20.000 containers) e quando è stata lanciata, nel 2018, era tra le portacontainer più grandi del mondo. È lunga 400 metri e da piena pesa più di 200.000 tonnellate. A soli tre anni di distanza, però, ci sono già più di 100 navi con capienza superiore ai 20.000 TEUs, e le navi di ultima generazione – assemblate da aziende cinesi o sud coreane – possono portare circa 24.000 TEUs. Gli esperti del settore ritengono molto verosimile che entro il decennio sarà normale veder circolare navi da 30.000 TEUs.
Quando negli anni 50 del secolo scorso l’imprenditore di una ditta di autotrasporti del North Carolina Malcolm McLean ebbe l’idea di usare i container per il trasporto delle merci sulle navi, il settore dei trasporti marittimi divenne molto più efficiente. Fino ad allora, infatti, le merci venivano trasportate in modo più disordinato, le operazioni di carico e scarico nei porti duravano giorni ed erano frequenti rotture o danneggiamenti dei materiali trasportati. L’uso dei container consentì di abbattere i tempi di carico e scarico (risparmiando anche sulla forza lavoro degli scaricatori di porto) e di trasportare grandi quantità di materiale in maggior sicurezza. Nei decenni successivi la costante crescita del volume delle navi ha consentito di sfruttare sempre meglio queste economie di scala.
Ancora oggi la ricerca di una sempre maggior efficienza è il motivo che spinge a far circolare navi sempre più grandi. Dimensioni del genere, però, comportano anche dei problemi, prima di tutto per le infrastrutture per i porti di arrivo delle merci. Già oggi le navi più grandi possono accedere al porto di Rotterdam solo con l’alta marea e secondo uno studio della South Korea’s Tongmyong University allo stato attuale anche porti importanti come quelli di Shangai, Busan e Hong Kong presto non saranno in grado di accogliere le navi più grandi, nemmeno con l’alta marea. La stessa Ever Given è troppo grande per passare dal canale di Panama. La svolta verso il gigantismo navale costringe insomma le città portuali a grandi e costosi interventi infrastrutturali per non rischiare di rimanere fuori dai traffici che contano.
È il caso della nuova diga foranea di Genova, presentata esplicitamente come un’infrastruttura per rendere il capoluogo ligure attrattivo per le navi che superano i 400 metri di lunghezza. Un’opera da 1,3 miliardi di euro, a cui l’ultima versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) destinava 500 milioni di euro provenienti dal piano Next Generation EU, il fondo di investimenti messo in campo dall’Unione europea per contrastare gli effetti economici della pandemia di coronavirus. L’ultima versione del PNRR era però stata varata dal governo Conte, quindi la cifra potrebbe essere modificata nel nuovo piano che il governo Draghi dovrà presentare a Bruxelles entro fine mese.
“L’attuale scenario portuale pone infatti un limite superiore alle dimensioni delle navi in grado di accedere in sicurezza al bacino di Sampierdarena, che corrisponde ad una lunghezza massima di 300 m – si legge nel Dossier di progetto della diga realizzato a dicembre 2020 e presentato in occasione del recente dibattito pubblico – Dato decisamente vincolante se si considera che su scala mondiale è ormai consolidata la tendenza all’impiego di navi portacontenitori proprio di lunghezza maggiore di 300 m, appartenenti alle classi denominate New Panamax e ULCV (Ultra Large Container Vessel). Queste ultime sono caratterizzate ad oggi (e per il prossimo decennio) da lunghezze fino a 400 m, per raggiungere in proiezione futura i 450 m”.
“Peraltro – prosegue il documento – l’analisi del mercato dei trasporti marittimi condotta nell’ambito del Progetto di Fattibilità Tecnica ed Economica ha evidenziato come la quota del traffico marittimo mondiale trasportata su navi, che oggi non possono essere accolte nel porto di Genova, sia destinata ad aumentare nei prossimi anni e decenni”.
Non tutti però sono d’accordo con questa visione. “Quante maxi portacontenitori sono previste all’anno da/per il porto di Sampierdarena? – si chiede per esempio l’associazione Italia Nostra – Sulla base di quali studi scientifici è stato ritenuto che il gigantismo delle navi renda vantaggioso l’investimento della nuova diga? In quanti anni verrebbe ripagato un investimento stimato, ad oggi in 1,4 miliardi di euro? È del tutto assente una indicazione precisa ed approfondita sulla provenienza ed attendibilità delle stime dei futuri volumi di traffico e, soprattutto, sul definitivo affermarsi nel futuro del gigantismo navale delle portacontainer, per il porto di Sampierdarena”.
È la questione – che ritorna spesso dei dibattiti sull’opportunità di realizzare nuove infrastrutture – delle cause e delle conseguenze. Rendere un porto più capiente porta in automatico a un aumento dei traffici? Le autorità portuali e i rappresentanti della politica locale (in primis il sindaco di Genova Marco Bucci) e nazionale sono convinti di sì, per questo oggi presentano la diga come una grande occasione per il rafforzamento del porto e dell’economia genovese, oltre che come un mero adeguamento alla tendenza al gigantismo navale. Italia Nostra, invece, sostiene che non sempre funzioni così: “Molte delle previsioni di crescita di volumi, effettuate nel passato, si sono rivelate, alla prova del tempo, eccessivamente ottimistiche”.
Contro il gigantismo navale si è espresso, proprio durante i giorni del blocco di Suez, anche il presidente di Assiterminal Luca Becce. Oltre a evidenziare come la necessità di accogliere navi sempre più grandi costringa Stati e terminalisti a investimenti miliardari, in un’intervista a Genova24 Becce ha detto che questa tendenza ha generato negli ultimi anni una contrazione della concorrenza: “[Il gigantismo navale] ha generato una contrazione del mercato del trade e del trasporto che da 18 operatori è passato a 3 alleanze in 10 anni, situazione provocata da un eccesso di stiva che ha fatto precipitare i costi dei noli, mettendo in ginocchio gli armatori medio piccoli”. Inoltre, come sottolineato anche da altri critici, è più difficile gestire le situazioni critiche quando a essere coinvolte sono navi di dimensioni paragonabili a quella della Ever Given o persino più grandi. “Quando una nave come questa ha un problema spesso si genera la situazione che stiamo vivendo a Suez”, sottolinea Becce. Secondo questo tipo di critiche, la ricerca di un’eccessiva efficienza finisce paradossalmente per rendere i trasporti più vulnerabili.
Secondo i difensori del gigantismo navale, aumentare l’efficienza (e quindi le dimensioni delle navi) è anche un modo per ridurre le emissioni. Il settore marittimo è responsabile di circa il 3% delle emissioni prodotte dall’uomo. Insieme al settore aereo, è stato escluso dal sistema delle quote di emissioni per Paese, perché per le navi come per gli aerei non sono ancora state trovate fonti energetiche alternative ai combustibili fossili, dal momento che si tratta di navi troppo grandi e che compiono viaggi troppo lunghi per essere alimentate con fonti rinnovabili. Le navi sono alimentate a oli combustibili. “Questi oli combustibili pesanti (hfo) – si legge in un recente articolo di Gwynne Dyer pubblicato da Internazionale – sono il residuo, simile a catrame, che rimane alle fine del processo di distillazione e “spaccatura” del petrolio, dopo che gli idrocarburi più leggeri come benzina e gasolio sono stati rimossi. La maggior parte delle navi merci brucia questi oli, con un processo così inquinante che la sola Ever Given, navigando, produce ogni giorno un inquinamento pari a cinquanta milioni di automobili che percorrono i loro tragitti quotidiani”.
Per la prima volta, nel 2018, l’Organizzazione marittima internazionale (Imo) ha deciso di fissare l’obiettivo della riduzione del 50% delle emissioni del settore entro il 2050. Per raggiungere questo obiettivo (che verrà perseguito a partire dal 2029) una via sarebbe utilizzare carburanti a minor contenuto di zolfo, che però sono più costosi. Un’altra sarebbe diminuire la velocità di circolazione delle navi: abbassando la velocità del 10% le emissioni calano del 27%. “Ma la misura migliore di tutte – sottolinea Dyer – fino all’arrivo di una nuova generazione di navi da carico alimentate a energia eolica, è ridurre semplicemente il volume di merci che viaggiano per mare” riportando la produzione dei prodotti più vicina ai luoghi in cui questi vengono consumati.
Nei giorni del blocco del canale di Suez la Russia ha approfittato della situazione per sponsorizzare la Northern Sea Route, la rotta al largo della sua costa settentrionale resa sempre più facilmente navigabile dal progressivo scioglimento dei ghiacci. Una tendenza che va avanti ormai da anni e che potrebbe rendere i mari del nord liberi dal ghiaccio e quindi completamente navigabili per tutto l’anno entro il 2040. La rotta settentrionale consentirebbe inoltre alle merci di compiere il viaggio dalla Cina all’Europa in una ventina di giorni, contro i trenta impiegati attualmente. Al momento l’entità dei traffici su questa rotta non è comparabile con quella di Suez, se si conta che nel 2020 sono passati dalle acque artiche appena 300 navi contro le 19.000 transitate dal canale egiziano. Ma anche nell’anno della pandemia i traffici al largo della Russia sono aumentati del 15% rispetto al 2019.
«La vicenda di Suez non penso abbia di per sé cambiato la tendenza – racconta a Era Superba Leonardo Parigi, fondatore del sito Osservatorio Artico – ma ha messo in mostra che ci sono tante realtà, non solo la Russia, interessate a un rafforzamento delle rotte settentrionali. Penso per esempio alla Finlandia. L’azienda finlandese Aker Arctic ha di recente varato una portacontainer da 8.000 TEUs capace di navigare in quelle acque senza l’aiuto di navi rompighiaccio».
Ad oggi la rotta nordica è usata soprattutto per il trasporto di gas liquefatti ed è difficile prevedere se diventerà un’alternativa realistica a quella che passa da Suez. «La Russia di sicuro ci punta tanto, per svariati motivi – spiega Parigi – il primo è per sviluppare le infrastrutture dei loro 24.000 chilometri di costa settentrionale, dove ci sono intere città costruite su un permafrost sempre più sottile dove talvolta si verificano tragici incidenti che costano miliardi di dollari. L’estate scorsa, per esempio, in Siberia un oleodotto è crollato per il cedimento del terreno, causando la fuoriuscita di 20.000 tonnellate di gasolio».
«Inoltre, per la Russia ma anche e soprattutto per la Cina non si tratta di una questione meramente commerciale – prosegue Parigi – ma anche geopolitica. La rotta del nord consentirebbe infatti di raggiungere il cuore del mercato europeo oltre che in meno tempo anche evitando passaggi marini controllati dagli Stati Uniti, come quello di Malacca».
Stati Uniti che ritornano anche nelle considerazioni che Parigi fa riguardo le potenziali conseguenze sul Mediterraneo: «La ritirata di Washington dalla regione ha reso il Mediterraneo più instabile – dice – oggi ci sono i russi e i turchi sulle coste libiche, uno scenario che solo pochi anni fa sarebbe sembrato assurdo. Di sicuro questa instabilità potrebbe favorire rotte alternative più sicure, anche per una mera questione di costi. Bisogna vedere se Biden renderà di nuovo gli Stati Uniti protagonisti nel Mediterraneo o se proseguirà con la ritirata decisa da Trump. Ad oggi gli Stati Uniti sono presenti solo con la flotta di stanza a Napoli».
«Per una città come Genova vorrebbe dire perdere molto – conclude Parigi portando il focus sulla situazione locale – a quel punto non sarebbe neanche più una questione di infrastrutture. Genova potrebbe trovarsi anche una grande capacità attrattiva grazie alla diga, al terzo valico, alla gronda e a quant’altro ma restare tagliata fuori per colpa di dinamiche ben al di là del suo controllo, e di diventare un porto post-storico. Si tratta ovviamente di scenari da prendere con cautela, ma il rischio è la situazione peggiori man mano che passa il tempo».
Il blocco di Suez è costato all’Egitto circa 14 milioni di euro al giorno. Per evitare che eventi del genere si ripetano in futuro è probabile che il governo del Cairo decida di allargare il canale. Inoltre il canale è profondo 24 metri e le navi di ultima generazione arrivano a 20 metri di profondità, quindi è probabile anche che si dovrà scavare il fondale per evitare il rischio di incagliamenti. La crisi della Ever Given ha spinto molti a chiedersi fino a che punto porti e canali siano modificabili per adattarsi alle mega navi del futuro. O a ipotizzare che le necessità di far circolare navi portacontainer sempre più grandi spinga ad abbandonare passaggi stretti come Suez, Malacca o Panama a favore di quelli più ampi come la circumnavigazione dell’Africa attraverso il capo di Buona Speranza (o, in un futuro prossimo e per gentile concessione dei cambiamenti climatici, la rotta artica).
Si tratta in molti casi di percorsi più lunghi, che per diventare profittevoli richiedono di massimizzare ancora di più le economie di scala. Magari con navi da 50.000 TEUs vicino alle quali la Ever Given sembrerà un giocattolo come lo sono sembrate le macchine che l’hanno estratta dalle sabbie di Suez.
Luca Lottero