L'integrazione è complicata quando, come dice Jacques Sapir, "non esiste niente a cui integrarsi"; abbiamo perso le identità nazionali e quella che chiamiamo “identità europea” è una civiltà basata sulla logica del libero profitto. Senza dimenticare la disastrosa gestione da parte dell'Occidente dello scenario mediorientale. Occorre che la nostra civiltà torni ad interrogarsi sui suoi valori e sul modo in cui sono stati applicati
Della terribile vicenda di Parigi molto è ancora da chiarire. Ci sono almeno due punti, tuttavia, che appaiono davvero incontestabili: e su questi possiamo provare a fare alcune considerazioni. Il primo riguarda la provenienza degli assalitori, francesi di seconda generazione. Questo aspetto, apparentemente sconvolgente, non è inedito: anche negli attentati alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 (52 morti) si scoprì che molti degli arrestati erano nati e cresciuti nel paese che avevano attaccato. Pare dunque che gli Stati europei dove più il multiculturalismo è stato predicato e praticato (grazie anche ad un ingombrante passato da potenze coloniali) abbiano pagato il prezzo più salato: il che dovrebbe indurci non certo a chiedere di separare con rigide barriere le razze e le religioni, ma quantomeno a sottoporre ad un minimo di critica il paradigma di integrazione che il mondo occidentale ha finora perseguito.
In effetti non si può non concordare con Jacques Sapir quando scrive: «Una parte dei giovani figli di immigrati non riescono a integrarsi perché non esiste niente a cui integrarsi». Negli ultimi anni, infatti, siamo andati progressivamente distruggendo le comunità nazionali e le loro identità, che pure avevamo costruito con fatica, per perseguire il sogno ad occhi aperti degli Stati Uniti d’Europa, che invece un’identità non ce l’hanno e probabilmente non l’avranno mai. Come avevo già avuto modo di scrivere a marzo dell’anno scorso, questa tanto agognata unità politica non ha una vera anima: quella che chiamiamo “identità europea” è in realtà la cultura standardizzata dell’occidente civilizzato, dove a dominare è la logica del libero profitto. In questo contesto il “multiculturalismo” è solo un compromesso pilatesco, che oltretutto spinge i perdenti della corsa al successo a ripiegare in direzione delle vecchie origini, siano esse un nazionalismo demodé o il fanatismo religioso.
E d’altronde quale sia il volto reale di questa “integrazione” lo può vedere chiunque sia andato a visitare Parigi, magari sbarcando all’aeroporto e poi raggiungendo la città con la RER, il servizio di treni regionali integrato con la metro della capitale. Se il viaggiatore non è troppo distratto dal tentativo di connettersi con lo smartphone, guardando fuori dal finestrino noterà che ci sono fermate, in corrispondenza delle banlieue meno rinomate, dove, tra magrebini, camerunesi e ivoriani, praticamente non si scorge un volto bianco. Nel centro della capitale, invece, dove un metro quadrato può costare facilmente più di 10.000 euro, i neri sono una minoranza. Il che ci dovrebbe dare qualche indizio su quale sia il ruolo dell’immigrazione ai fini della distribuzione della ricchezza prevista nella nostra società.
Il secondo punto ha a che fare con le motivazioni degli assalitori, che sembrerebbero agire per conto dello Stato Islamico e della divisione yemenita di Al-Qaida. Nell’operato di queste due organizzazioni, contrariamente a quello che sostiene il sottosegretario agli affari esteri Benedetto Della Vedova, non sono estranee pesanti responsabilità da parte dell’Occidente. Il governo degli Stati Uniti ufficialmente nega di avere mai finanziato Al-Qaida e Osama Bin Laden: ma è chiaro che quest’ultimo fosse visto di buon occhio, fintanto che era impegnato a combattere i Sovietici negli anni ’80. Più difficile è negare che, contro la Siria di Assad, i guerriglieri del Califfato non abbiano ricevuto armi e addestramento dagli USA.
C’è di più. Al di là dei singoli errori, dalla caduta dell’URSS a oggi l’America e i suoi alleati europei hanno dato vita ad una gestione dello scenario mediorientale pressoché disastrosa. Dall’assurda guerra in Afghanistan, passando per l’Iraq, la Libia, la Siria fino al sempreverde conflitto israelo-palestinese, ogni volta che gli occidentali hanno abbracciato le armi la regione è diventata più instabile, le sofferenze delle popolazioni sono aumentate e nuovi nemici si sono fatti avanti, sempre più spietati e sanguinari.
A questo punto, quando anche i risultati dimostrano inequivocabilmente che non abbiamo esportato la civiltà e la democrazia, ma solo aggiunto morti ad altri morti, occorre che la nostra civiltà torni ad interrogarsi sui suoi valori e sul modo in cui sono stati applicati. È vero che esistono culture che non conoscono la tolleranza religiosa, il rispetto per la donna e talvolta anche quello per la vita umana: ma se la nostra reazione comporta uccidere, non stiamo tradendo in questo modo gli stessi valori che diciamo di voler difendere?
Inoltre questi popoli, così intolleranti a parole, spesso sono la parte debole nei confronti militari: per cui la pretesa del forte di usare la forza, legittimandola con le minacce del debole, diventa un po’ un atto di bullismo. È il caso delle ragioni che spingono gli israeliani a dure reazioni contro i palestinesi. È vero che, tra questi ultimi, una parte non accetta lo Stato ebraico e vorrebbe la sua eliminazione dalla faccia della terra; ma è anche vero che non sono stati fatti molti “progressi” in questo senso. Anzi, dalla sua fondazione a oggi, Israele non ha fatto altro che espandersi a danno dei territori palestinesi.
Certo, rimane il fatto che le minacce ci sono e non devono essere sottovalutate. Mi chiedo però se tali minacce dipendano interamente dal fatto che c’è un lato intollerante e bellicoso nella religione islamica, o se avesse ragione Marx, quando scriveva che «il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita»; ossia, nel caso del Medio Oriente, che la religione è l’effetto, non la causa dell’attuale stato di cose.
In questo caso potrebbe emergere che donne infibulate e bambini soldato, in fin dei conti, fanno comodo a noi cittadini occidentali: perché sono un ottimo modo di lavarsi la coscienza, lasciandoci sprofondare nell’illusione che non siamo di fronte all’ennesima guerra fatta per i soliti scontati interessi economici.
Andrea Giannini