Grazie al contributo di pescatori professionisti, amatori ed esperti, abbiamo provato a ricostruire il quadro della situazione per quanto riguarda la pesca a Genova e in Liguria. Davvero il pesce pescato nel nostro mare arriva prima a Milano che a Genova? Quali differenze fra vendita diretta e mercato tradizionale? Chi sono i clienti dei pescatori?
Ami, esche, lenze, canne, fiocine, reti, nasse. Bolentino, gozzo, lampara e sagola. Ci siamo cresciuti in mezzo a questi termini, ce li insegnavano a scuola durante le immancabili uscite didattiche; eppure che cosa sappiamo, noi liguri, del pesce, che a volte ci dimentichiamo persino di comprarlo, e finiamo per cercarlo solo al ristorante?
Molta parte del nostro essere liguri, entroterra e monti compresi, attinge essenza ed unicità proprio dalle acque che abbiamo di fronte, e noi, che non siamo molto disponibili a farci carico “anche” dei problemi del mare, alla fine non sappiamo bene cosa c’è dietro quelle onde e come succede che i suoi frutti, cioè il pesce, arrivino sulla nostra tavola.
Abbiamo incontrato Stefano, pescatore dilettante e pescivendolo professionista nella grande distribuzione, che vuole mantenere l’anonimato perché, mi dice, se racconta tutto quello che ha imparato in questi anni rischia di perdere lavoro e clienti.
La leggenda del pesce che arriverebbe prima a Milano che nel suo negozio genovese me la conferma, e, per la precisione, aggiunge che la nostra città è solo terza: «prima che da noi il pescato passa anche da Torino. Questo perché si tratta di città con un mercato ben diverso dal nostro, gli acquirenti sono disposti a pagare di più per lo stesso branzino che potrebbe essere venduto a Genova. Si parla ovviamente di grande distribuzione: in questo caso quando arrivano i pescherecci caricano il pesce sui camion che lo trasportano prima di tutto a Milano; quello che resta viene offerto a Torino e dopo quello che non ha trovato mercato in queste città riparte per la Liguria. Ciò è vero però solo se parliamo di pesce di una certa pezzatura, molto omogenea, ed anche un pesce pregiato, quello dei menu di livello». L’acciuga, ad esempio, pesce popolare altamente deperibile, non può certo permettersi di compiere un tale tragitto, ed è molto probabile che sia venduta a Genova e che, anzi, a Milano talvolta non arrivi nemmeno, perlomeno non quella ligure, se non espressamente richiesta.
«Nella nostra regione – racconta sempre Stefano – il mercato del pesce più esclusivo spesso non passa neanche dalle pescherie, ma si conclude fra il pescatore ed il diretto acquirente, che sia un privato o un ristoratore. Io, ad esempio, ho una lista di persone che aspettano solo di essere chiamate: quindi se oggi pesco totani chiamo il cliente che mi ha detto che li vorrebbe, o quello che comunque li prende sempre; se pesco, che so, la ricciola, chiamo chi ho in lista per quello e così via. Non vado neanche a vedere i prezzi che fa il mercato per quei pesci, io voglio vendere il pescato e so che, avendo una bella lista di clienti, difficilmente mi rimarrà invenduto. Ecco, il milanese, il torinese, una cosa così non possono averla, devono passare comunque attraverso gli intermediari e non trattando direttamente con chi pesca è ovvio che molto spesso devono prendersi pesce di vivaio o proveniente dall’estero, spesso da Croazia e Grecia».
Non c’è dunque un solo tragitto del pesce, ma bisogna distinguere fra vendita diretta e altri canali. Immaginiamo, però, che ciò non sia il massimo per pescatori professionisti e pescivendoli… «eppure secondo me c’è spazio per tutti – continua Stefano – il pescatore dilettante non è che ruba quote di mercato al super, peschiamo letteralmente in acque diverse, non mi sento in colpa, vado solo quando e se posso, per me è poco più di un passatempo. E poi devo dirlo, chi vuole del pesce sicuro al cento per cento deve per forza muoversi così…».
Da questo punto di vista, un rapido giro nei supermercati sembrerebbe confermare questa tesi, il pesce, quando ha la provenienza indicata, tradisce molto spesso la propria origine remota e porta scritto “ Oceano Atlantico” oppure “Mare del Nord”. Ma come fa ad essere fresco?
Proviamo a sentire qualcuno che dal “pan do ma” come chiamavano un tempo le acciughe, ricava la maggior parte del proprio reddito. Abbiamo rintracciato il capitano dell’Aquila Pescatrice, Simone Orecchia, pescatore professionista che fa da 10 anni questo lavoro. «Per quanto riguarda la grande distribuzione, come da noi partono i camion per Milano, anche a Genova arriva ogni giorno il camion con il pesce da Amsterdan, che è il mercato del Mare del Nord, da Sète in Francia e dalla Croazia. Arriva poi una volta alla settimana dalla Spagna, mentre dalla Grecia tutti i giorni, a volte anche con l’aereo. Questo pesce arriva con un aspetto davvero invitante, vengono preparate cassette appositamente con pesci di qualità diverse per farli sembrare più “artigianali”: un pagaro, una ricciola, un tonnetto, li spruzzano con acqua fredda, acido di limone e ghiaccio, talvolta pochissima acqua ossigenata se ci sono polpi o seppie. Niente di velenoso o nocivo, sia chiaro, però il cliente dovrebbe sapere che sta comprando il pesce che sembra fresco mentre ha già un paio di giorni. Quindi, prima di affermare il fatto che il pesce arrivi prima in un posto piuttosto che in un altro, bisognerebbe capire da dove arriva, intendo dire da dove arriva davvero».
A noi pescatori fanno perdere un sacco di tempo ad etichettare le cassette indicando data ed ora di pesca e poi il negoziante per il timore di non vendere tutto il pesce spesso non espone neanche i cartelli; perché se non ci sono indicazioni il cliente magari non ci pensa, oppure il venditore può sempre dire che le acciughe sono tutte di Monterosso o di Camogli, e se sul banco c’è del pesce di importazione non sempre viene indicato, anzi…»
“Qui in Liguria ci sono 600 licenze di pesca attive, da professionisti – racconta il capitano dell’Aquila Pescatrice (nella foto) – e lampare grandi come la nostra ne esistono 13 in tutto, 5 a Genova, 3 a Sestri Levante, 1 ad Imperia e 4 a La Spezia: erano 20 una decina di anni fa, ma la pesca è decisamente un’attività in calo, specialmente quella tradizionale che pratichiamo noi“.
L’Aquila Pescatrice va soprattutto ad acciughe, tempo permettendo tutti i giorni tranne il sabato notte, e riforniscono in questo momento due mercati: Genova e Savona. Questo perché le acciughe non possono fare tanta strada… «Appena sbarcati ci sono i camion del mercato di Genova e di quello di Savona, si caricano metà cassette ciascuno e vanno diretti al mercato. Se abbiamo molto pesce, o delle varietà diverse, una parte va al mercato in Darsena, che hanno chiamato Street Fish perché i clienti possono direttamente andare a comprare il pesce già cucinato in maniera semplice, quindi fritto, al forno oppure in carpaccio, e anche trovare quelle varietà che prima ho definito “diverse”, ovvero quelle che il pescivendolo magari non mette sul banco. A questo proposito devo dire che a noi pescatori fanno perdere un sacco di tempo ad etichettare le cassette indicando data ed ora di pesca e poi il negoziante per il timore di non vendere tutto il pesce spesso non espone neanche i cartelli; perché se non ci sono indicazioni il cliente magari non ci pensa, oppure il venditore può sempre dire che le acciughe sono tutte di Monterosso o di Camogli, e se sul banco c’è del pesce di importazione non sempre viene indicato, anzi».
Abbiamo chiesto un intervento nel dibattito anche a Lorenzo Viviani, biologo e pescatore: «a volte i pesci dalla Spagna, Turchia o Croazia vengono trattati con il cafados, una sostanza vietata in Italia e che può diventare tossica ma che “cristallizza” l’aspetto del pesce, così che sembri sempre brillante e quindi fresco – spiega – però non interrompe il degrado interno delle carni, che continuano a produrre sostanze che possono essere nocive per l’uomo. Purtroppo l’unica arma di difesa è assaggiare, ma a quel punto l’acquisto incauto è già stato fatto. Poi, sia chiaro, magari il pesce d’importazione non è necessariamente trattato o necessariamente peggiore, ma in ogni caso il cliente deve essere messo in grado di scegliere, sapendo per che cosa sta spendendo il proprio denaro».
Quindi possiamo affermare che il pesce può giungere in tavola direttamente dal mare davanti a casa o dopo un viaggio in aereo neanche troppo breve senza che ai nostri occhi faccia troppa differenza? E se l’unica garanzia è rivolgersi ad un pescatore “di fiducia”, questo crea danni al “sistema pesca”?
Risponde il capitano Orecchia: «A Genova e forse in tutta la Liguria circa il 75% del mercato locale è fatto dai venditori “abusivi” cioè i pescatori dilettanti che una sera ogni tanto escono, pescano quello che possono, e vendono ai loro clienti che aspettano pazientemente (come ci ha raccontato Stefano, n.d.a.). Il pesce è buono e nessuno fa danni alla salute altrui, ma al sistema sì perchè questi non hanno ovviamente partita Iva, non vivono sui proventi della pesca e non pagano le tasse». La Regione Liguria cerca di fare qualcosa, si parla del taglio alla pinna caudale per alcuni tipi di pescato da parte dei dilettanti, ai quali ha anche imposto l’obbligo di registrarsi per poter pescare in mare.
«Tuttavia, a onor del vero, il rischio maggiore per il nostro lavoro non sono i dilettanti che vendono abusivamente, ma i grandi gruppi di pesca intensiva che battono il Meditarraneo rispettando solo le proprie regole. La Comunità Europea, ad esempio, ha sospeso la caccia al tonno, con ragione almeno fino a poco tempo fa, e noi dobbiamo vedere le tonnare cinesi di 80 metri nelle acque (internazionali, ma pur sempre del Mediterraneo) catturarli legalmente sotto i nostri occhi. In più, oltre che per il tonno, queste squadre praticano una pesca intensiva, non tanto per l’utilizzo del sonar, che usiamo anche noi per accorciare i tempi, ma perché quando scandagliano i fondali con lampare di 50 o 60 metri se trovano branchi di pesce non smettono finchè non li hanno tirati su tutti. Loro non rientrano mai nel porto, il personale fa i turni sulle barche d’appoggio e quando se ne vanno via non c’è più un pesce. Per fortuna ora hanno vietato l’uso dell’elicottero, perchè in questo modo dall’alto battevano i fondali palmo a palmo e chiamavano i pescherecci nella zona precisa dove c’era il branco. Qui da noi è tutto molto più artigianale, tradizionale, da noi pescare è ancora sinonimo di passione e mestiere, quello antico. Noi quando troviamo un branco, per esempio lo scorso inverno abbiamo catturato 140 ricciole, beh, ovviamente cerchiamo di prenderne finché si riesce, poi rientriamo. Magari là sotto ce n’erano più di 800… Questa è la nostra pesca».
Bruna Taravello
L’inchiesta integrale sul numero 60 di Era Superba