Accanto ad alcuni innegabili benefici, in questi mesi sono emersi abusi legati alla pratica del cosiddetto “lavoro intelligente”. E nuove disuguaglianze, digitali e di genere. “Servono più regole”, dicono i sindacati. Una testimonianza raccolta da Era Superba di lavoro (e cassa integrazione “finta”) durante il lockdown
Durante i mesi di quarantena imposti dalla pandemia di Covid-19 in tanti si sono trovati costretti a lavorare da casa, spesso per la prima volta in vita loro. Secondo la Fondazione Di Vittorio (centro studio della Cgil) nei mesi peggiori dell’emergenza sanitaria 8 milioni di lavoratori italiani non sono più andati in ufficio, quando prima del coronavirus erano solo 500 mila quelli già abituati a lavorare senza dover garantire la propria presenza fisica in un certo luogo ed entro un certo orario. Una rivoluzione che ci è caduta sulla testa quasi dall’oggi al domani, ma più subita che perseguita intenzionalmente. Perché alla svolta di massa, che con ottimismo forse eccessivo abbiamo voluto chiamare smart working (“lavoro intelligente”), siamo arrivati impreparati. Da un punto di vista culturale e, per così dire, di infrastruttura, prima di tutto. Il rapporto DESI 2020 della Commissione europea (che misura il livello di digitalizzazione di economie e società dei Paesi dell’Unione) dice infatti che l’Italia è all’ultimo posto per competenze digitali della forza lavoro e al 22° (su 28) per quel che riguarda la digitalizzazione delle imprese. Complessivamente, tra i Paesi europei, solo le economie e le società di Romania, Grecia e Bulgaria sono meno digitalizzate dell’economia e della società italiana. Usando i dati del rapporto DESI 2019, il Politecnico di Milano ha sviluppato un indice su base regionale, da cui la Liguria risulta la quarta regione più digitalizzata d’Italia, in un contesto però dove nessuna regione raggiunge la media dei Paesi UE.
Ma un aspetto su cui ci siamo ritrovati impreparati di fronte alla rivoluzione “smart” del lavoro è stato anche quello delle regole e del riconoscimento di diritti vecchi e nuovi. Senza i quali la svolta rischia di portare in dote precarietà e sfruttamento. «Vi è stata troppa improvvisazione – ci racconta Elena Bruzzese, segretaria federale della Cgil di Genova – non vi è stata un’adeguata preparazione e la dovuta attenzione agli spazi e all’organizzazione del lavoro. Per la Cgil lo smart working deve essere regolamentato, e ad oggi non lo è ancora».
L’idea dello smart working nasce per cercare di migliorare l’equilibrio tra ore di lavoro e tempo libero dei lavoratori e delle lavoratrici, migliorando così il loro stato psicofisico tramite il superamento della logica del lavoro fordista, per cui il lavoratore vende ore del proprio tempo al datore di lavoro garantendo la propria presenza statica sul luogo di lavoro. Associato di solito a lavoratori autonomi, freelance o neogenitori che vogliono passare più tempo a casa con i figli, con il lockdown sono dovute diventare smart anche categorie nuove, non impiegate in filiere costrette a mantenere la presenza fisica dei propri addetti come la grande distribuzione alimentare o la sanità. Impiegati del settore privato e funzionari pubblici, ma anche insegnanti o educatori, per cui la scarsa digitalizzazione del Paese ha voluto dire abbandonare studenti che non hanno in casa un computer o non vivono in una zona con una connessione internet decente.
Ma se l’obiettivo dello smart working deve essere il miglioramento della salute psicofiisca di chi lavora, tra gli psicologi e i sociologi c’è chi sottolinea anche i rischi di questa pratica. Anche da prima del covid-19. «Negli ultimi anni (con la crescita della pratica dello smart working, ndr) dal punto di vista della salute sul lavoro, accanto alle patologie tradizionali, abbiamo registrato l’aumento delle problematiche legate alla salute mentale, cioè all’equilibrio psicofisico, a fattori psicosociali di rischio lavorativo» ha raccontato il presidente dell’Associazione nazionale medici d’azienda e competenti (Anma) Umberto Condura in un’intervista al Fatto Quotidiano. Problematiche legate soprattutto al cosiddetto tecnostress, causato da un’iperconnessione agli strumenti digitali di lavoro che in molti casi rende più evanescenti o fa scomparire del tutto i confini tra tempo libero e tempo di lavoro. “Staccare” per davvero diventa più difficile, quando il salotto è anche l’ufficio.
«Per questo la Cgil ritiene fondamentali gli interventi per tenere distinti i tempi di vita dai tempi di lavoro» dice Bruzzese, che ci conferma anche un’altra disuguaglianza che lo smart working forzato di questi mesi ha reso ancora più evidente. Quella di genere. In una cultura, come quella italiana, dove i lavori di cura della casa e della famiglia sono ancora spesso a carico di mogli e compagne, non sorprende che (sempre secondo lo studio dell’associazione Di Vittorio) l’8% in più delle lavoratrici rispetto ai lavoratori abbia definito il lavoro da casa un’esperienza “pesante e complicata” e il 9% “alienante e frustrante” mentre per gli uomini la stessa esperienza sia stata più stimolante e soddisfacente. «È sbagliato pensare che lo smart working possa essere uno strumento di conciliazione o condivisione del lavoro di cura – sottolinea Bruzzese – anzi, nel caso in cui il ricorso allo stesso si ampliasse, i tempi di lavoro e quelli di cura rischierebbero di sovrapporsi, peggiorando la situazione e facendo regredire molte conquiste ottenute nel tempo».
Con il progressivo ritorno negli uffici e nelle fabbriche, sindacati, associazioni degli imprenditori e semplici lavoratori hanno iniziato a interrogarsi sull’opportunità di estendere il lavoro da casa, agile o smart, anche oltre i tempi ristretti dell’emergenza. Il dibattito è ancora in corso, ma in linea di massima, nemmeno i sindacati più fermi nel chiedere una regolamentazione severa sembrano del tutto ostili allo smart working, in forma parziale o totale. Nei mesi del lockdown, in molti hanno infatti sottolineato benefici come il risparmio dei tempi di percorrenza casa-lavoro, quindi un minor tempo trascorso nel traffico e minori danni ambientali. Benefici non trascurabili per una città come Genova soprattutto in questo momento storico di autostrade bloccate e traffico molto intenso. Abbiamo chiesto a Elena Bruzzese cosa significherebbe però per il sindacato la progressiva diffusione di un modello di lavoro atomizzato e sostanzialmente individuale come quello dello smart working, vista l’importanza che l’azione collettiva ha storicamente avuto nella lotta e nelle rivendicazioni dei lavoratori: «Per quanto ci riguarda – ci ha risposto – lo smart working non deve diventare una modalità di lavoro permanente se non dettata da una scelta volontaria del lavoratore e della lavoratrice, perché riteniamo che nel lavoro la relazione sia molto importante, non solo per le relazioni umane ma anche per il funzionamento dell’impresa stessa». E per organizzare un’eventuale difesa dei diritti dei lavoratori, aggiungiamo.
In Italia il lavoro agile è regolato dalla legge 81 del 2017 (attuativa del jobs act), che prevede accordi individuali tra lavoratori e datori di lavoro per stabilire le modalità, i tempi e gli obiettivi della prestazione lavorativa. Da inizio marzo di quest’anno, per affrontare l’emergenza il governo ha consentito alle aziende di derogare dall’obbligo dell’accordo individuale. Da un lato questo ha consentito di attivare il lavoro agile nei tempi rapidi richiesti dall’emergenza, dall’altro ha fatto saltare i (pochi) paletti fissati dalla legge. Come quello che attribuisce al datore di lavoro la responsabilità “della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore”. Nei mesi scorsi molti lavoratori hanno dovuto pagare di tasca propria la connessione internet o i materiali, il cui prezzo è spesso aumentato a causa della forte domanda. Secondo una ricerca di BrandToday, per esempio, su Amazon il prezzo delle stampanti è aumentato quasi del 25%.
La legge, poi, tace per quel che riguarda i limiti orari delle prestazioni lavorative e il diritto alla disconnessione, cioè il diritto, per il lavoratore, di non essere reperibile fuori dall’orario di lavoro, indispensabile per poter “staccare” mentalmente dall’attività. Tutto è delegato alla trattativa tra il singolo lavoratore e il datore di lavoro e abbandonato quindi alla buona volontà delle aziende. Troppo poco per i sindacati, che infatti ora chiedono una regolamentazione dello smart working nei contratti nazionali: «è necessario fissare i limiti orari – ci dice Bruzzese – devono essere garantite le stesse condizioni di salute e di sicurezza che si devono garantire all’interno del posto di lavoro in presenza, non devono esserci differenze nella parte economica e in quella normativa rispetto a chi lavora con la stessa mansione all’interno del luogo di lavoro (aspetto questo che la legge in vigore sembra in realtà prevedere, ndr), deve essere garantito il diritto alla disconnessione e adeguate dotazioni tecnologiche».
«In teoria dovremmo lavorare 5 ore al giorno, in pratica non si riesce mai a completare il lavoro in quel tempo – ci racconta una dipendente genovese – e di fatto arriviamo a 8 o 9 ore, senza orari fissi né turni per coprire il normale orario intero». La testimonianza, raccolta da Era Superba nel pieno dei mesi di quarantena, è un concentrato di tutto ciò che può andare storto con il cosiddetto smart working, se questa prospettata rivoluzione del lavoro dovesse concretizzarsi senza un adeguato aggiornamento dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Lungi dal poter impostare in modo flessibile e autonomo il proprio tempo di lavoro, la dipendente che ha accettato di raccontarci in forma anonima la propria esperienza si è di fatto ritrovata a fare le stesse cose che faceva in ufficio e con lo stesso vincolo di orari. Solo, a casa, e con il materiale pagato di tasca propria: «Non ci hanno fornito nulla», ci dice.
Rispetto al lavoro prima del lockdown, a ben vedere, una cosa è cambiata, ed è il peso finale della busta paga. «Dovremmo fare 3 ore di cassa integrazione al giorno, che sommate alle 5 di lavoro fanno le 8 ore della normale giornata lavorativa» ci racconta. Ma come abbiamo visto, anche quelle tre ore sono diventate ore di lavoro a tutti gli effetti. Solo, pagate meno di prima, perché con la cassa integrazione in deroga (pagata dall’Inps, cioè da tutti i lavoratori e pensionati che versano o hanno versato i contributi) il lavoratore recepisce l’80% del normale stipendio. Cassa integrazione che, tra l’altro, si è prestata ad altri tipi di abusi. Lo scorso giugno l’Inps segnalava più di 2mila casi di sospette truffe, con aziende create ad hoc ed assunzioni in fretta e furia di amici e parenti fatte solo per incassare il sostegno pubblico.
Nella catastrofe economica e sociale causata dal covid-19, la persona che ci ha raccontato la propria esperienza fa parte dei relativamente fortunati, perché almeno un lavoro continua ad averlo e non si è mai fermata del tutto. Il costo del “privilegio” è stato però la riduzione, di fatto, dello stipendio. E in caso di smart working diffuso sarebbe difficile vigilare su abusi di questo tipo, perché l’Ispettorato del lavoro non ha – ad oggi – gli strumenti per controllare il rispetto delle norme a casa dei lavoratori.
Tempi di lavoro dilatati e confini con i tempi di vita che sfumano. Materiale fai da te, stipendi più bassi e nessuna vera autonomia nella gestione degli orari. Uno smart working che si presenta davvero poco smart. Non per tutti, per lo meno.
Luca Lottero