Le sue opere sono in ottone, rame, ferro, piombo, cera, ma soprattutto bronzo. L'artista genovese è in attività dagli anni '70 e riflette sulla situazione odierna dell'arte contemporanea
Piergiorgio Colombara, artista genovese, è in attività dalla fine degli anni settanta; ha al suo attivo numerose personali e collettive sia in Italia sia all’estero, e una recente partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2009. A Genova ha esposto l’ultima volta nel 2011 presso il Palazzo della Borsa con una mostra intitolata “La sala delle grida”. L’abbiamo incontrato nel suo studio dove abbiamo parlato del suo lavoro, circondati dalle sue opere, disegni, collages, e sculture leggere e dorate.
Come è emersa in te l’esigenza di fare scultura?
Io ho studiato architettura quindi c’è sempre stato in me un interesse per la forma e lo spazio. Non mi interessava fare l’architetto, ma lo studio dell’architettura, e questo studio me lo sono portato dietro poi nella mia ricerca e nel mio lavoro. Anche nelle mie prime sculture lo spazio è sempre molto importante.
Come si è evoluta negli anni la tua ricerca? E inoltre, è una ricerca interiore che prende forma visibile nell’opera, o il primo spunto viene dall’esterno?
Io cerco di dare forma all’interno, a ciò che vivo internamente; è una scultura che – così come i miei disegni e i collages – parte da elementi come il tempo, la memoria. Sto attento alla poetica delle forme e dei contenuti.
Scultura, disegni, collages sono binari paralleli?
Sono binari paralleli da sempre; i grandi disegni poi possono sfociare in sculture, ma nascono autonomamente.
Quando un’opera è sottoposta al pubblico, a meno che l’artista non sia lì ad illustrarla a ogni singolo spettatore, la fruizione avviene attraverso la sensibilità personale e l’individualità di ognuno, quindi possono esserci tante interpretazioni quante sono le persone che guardano l’opera. Tu credi che l’arte vada spiegata? E se qualcuno vedesse in un tuo lavoro qualcosa di lontano o opposto a ciò che volevi esprimere?
Libertà assoluta. Si possono mettere certi paletti, ma molto generali, e io tendenzialmente non spiego mai… tecnicamente sì, ma sul significato no, non l’ho mai fatto.
Che materiali prediligi e come li lavori?
In scultura ho lavorato, fino al 2000, materiali come ottone, rame, ferro, piombo, cera. Io faccio il modello e poi lo porto in fonderia, dove il lavoro va avanti insieme al fabbro. Da questo vanno escluse le cose piccole che invece faccio qui in studio. Fino al 2000-2001 avevo già fatto opere in bronzo ma in maniera sporadica (una molto grande per esempio quando avevo vinto un concorso a Venezia): da allora invece ho cominciato a lavorarlo in modo più sistematico, utilizzando prevalentemente questo materiale.
La suggestione di certe superfici dorate mi ricorda le “cascate d’oro brunito” di Baudelaire… c’è qualche eco di letteratura, poesia o musica nei tuoi lavori?
Sì, da sempre. Io amo molto anche cinema e teatro, quindi grande attenzione alle sceneggiature, tant’è vero che quando faccio delle installazioni sono sempre molto teatrali. Mi interessa come viene fuori l’opera, ma soprattutto come dialoga con lo spazio; non si può fare sempre un’installazione perché ci vogliono determinate condizioni, ma quando è possibile a me interessa stravolgere lo spazio. Per esempio in occasione di una mostra che avevo fatto alla Permanente a Milano avevo trasformato il grande spazio espositivo bianco, asettico, di 500 metri quadrati, in una grande quinta teatrale nera, dove ho collocato tutte le opere. Anche lì la cosa più importante per me è stato stravolgere lo spazio e farlo diventare un’altra cosa.
A tal proposito, due tematiche che tratti sono la “assenza-silenzio” e la “memoria-spazio”. Puoi spiegarle?
La memoria-spazio è una memoria atemporale, non solo mia. Entrano dentro il mio lavoro le fascinazioni delle architetture medievali per esempio. Il silenzio invece è per esempio in queste sculture degli ultimi dieci anni in cui non c’è corpo: il corpo se ne è andato, rimane solo l’involucro, la veste, quindi il silenzio. E c’è la memoria di quello che poteva esserci dentro. La vita, l’assenza della vita. Tutti questi elementi sono presenti nella mia ricerca fin dall’inizio.
Dalle opere di piccolo formato alle installazioni ambientali: in quale dimensione ti trovi più a tuo agio?
Per me non ci sono differenze: se l’opera piccola è felicemente realizzata, si può realizzare anche quella grande. Le uniche differenze sono di tipo tecnico, nei materiali, ma l’equilibrio che c’è nel piccolo c’è anche nel grande. E poi dietro ogni opera c’è una riflessione, un lungo percorso che dura a volte mesi, dal progetto all’opera finita.
Secondo te cosa manca a Genova per favorire gli artisti contemporanei?
Intanto mancano grosse gallerie e grossi mercati; negli anni sessanta e settanta ci sono state gallerie importanti a livello nazionale e non solo. Realtà di quel tipo sono trainanti per l’interno e per l’esterno, ma se non ci sono questi punti fermi in una città, ecco che viene meno tutto il giro. Poi c’è un problema di mentalità, non c’è mentalità del rischio, quindi quando va bene l’autore in questa città sopravvive, oppure se ne deve andare. O altrimenti sta qui ma lavora fuori; io lavoro molto con gallerie di Milano. Ho lavorato molti anni con gallerie di qui ma il risultato è stato sempre piccolo. Le istituzioni adesso fanno quello che possono, ma in passato non hanno mai brillato. Chi ha fatto il lavoro sono sempre state le gallerie private. Adesso che non ci sono soldi poi è ancora più difficile. Per come è oggi a livello mondiale, il contemporaneo diventa remunerativo solo se si fanno grosse strutture, con grandi impegni e collaborazioni tra pubblico e privato; ci sono anche dei pericoli, perché ciò a cui stiamo assistendo è che l’arte contemporanea di alto mercato è solo mercato. Sono operazioni commerciali internazionali in cui si fanno alzare le quotazioni di un artista, ma l’arte non è quello.
L’annosa questione su cui si interrogava già Duchamp…
Duchamp in questo è stato eccezionale, il negativo è stato decenni di piccoli “duchampini”… comunque scrittori e critici ultimamente stanno scrivendo su giornali e libri circa le cose che non vanno nell’arte contemporanea, del fatto che il mercato è diventato preponderante e che siamo vicini alla moda, al lancio di un autore come fosse il lancio di un prodotto.
Parlando di pubblico invece, forse qui ha pochi strumenti critici per capire l’arte contemporanea.
Qui a Genova sì, però ci sono molte realtà in Italia che manifestano un enorme interesse per il contemporaneo, dove ci sono collezionisti che fanno a gara per comprare… mi vengono in mente Torino, Reggio Emilia, ma ci sono tante altre realtà, anche piccole.
Purtroppo spesso l’arte contemporanea si è ridotta a un territorio d’elite, e questo è un errore; certo che i collezionisti e i critici capiscono, ma la massa con cui entrare in contatto è più grande.
Claudia Baghino
[foto di Daniele Orlandi]