Non importa quanto presumano di essere colti e razionali questi pensatori liberali: di fatto preferiscono non confrontarsi con la realtà. Perché dovrebbero fare la fatica di mettere in discussione le proprie idee, quando basta individuare un “becero razzista” con cui prendersela?
Di solito si tende a raggruppare gli elettori del Partito Democratico, quelli di SEL, i movimenti per i diritti civili, gli ecologisti e quella parte corrispondente dell’informazione e della satira, insomma tutto il mondo della sinistra non massimalista, nel cosiddetto fronte “progressista”. Cosa s’intenda con questo termine, che avrete sentito spesso sulla bocca di politici e commentatori, ce lo spiega Wikipedia: “I progressisti mirano a modificare gli assetti politici, economici e sociali tramite riforme graduali, progressive; il minimo comune denominatore è rappresentato oltre che dall’illuminismo, dal positivismo, dall’evoluzionismo e da una visione razionale in ambito politico, sociale ed economico». L’ideale progressista, insomma, dovrebbe riunire tutti coloro che vogliono modificare la società in senso razionale e liberale, senza rotture violente e traumatiche. Eppure al giorno d’oggi di questa “razionalità” e di questa “liberalità” esiste solo un vago ricordo; tanto che viene da chiedersi se la stessa parola “progressista” abbia ancora un senso.
Faccio questa considerazione perché a volte rimango costernato dalla superficialità e insieme dalla tracotanza con cui difendono le loro idee, convinti irrimediabilmente di essere nel giusto, non solo commentatori e giornalisti famosi, ma anche amici carissimi, in qualche modo, più o meno consapevolmente, affascinati dai bei principi di quello che fu il magico mondo di sinistra del decennio passato. Da allora, però, le cose sono cambiate parecchio. Quella che era cominciata come una battaglia di civiltà contro il razzismo e lo sciovinismo, in nome della tolleranza reciproca e della difesa dei diritti delle minoranze, si è trasformata oggi in una crociata fanatica che non ammette dissenzienti. Il conformismo degli anni ’10 ci obbliga ad essere solidali con qualsiasi rivendicazione si presume arrivi da minoranze o categorie considerate (in un modo che è già di per sé discriminatorio) “da tutelare”: omosessuali, immigrati, donne, animali, l’ambiente, eccetera. Su tutti questi temi non si dà più una libera discussione, in cui è lecito avere anche più di una posizione, ma si sono ormai stabiliti dogmi inappellabili: chi li mette in discussione viene automaticamente espulso dal regno delle “persone civili” e scaraventato nel calderone degli oscurantisti, dei retrogradi e dei conservatori, nei confronti dei quali ogni insulto è lecito. Il paradosso è che in nome della tolleranza non si tollera il dissenso.
Attenzione: non sto dicendo che una discriminazione sia una posizione legittima. Al contrario: le discriminazioni sono certamente da combattere. Mi meraviglia però la sicurezza di quelli che sanno distinguere con facilità dove sta il confine tra discriminazione e differenza specifica: perché io non riesco proprio ad avere tutte queste certezze.
L’impressione è che tale sicurezza derivi da un’interpretazione grossolanamente semplificata (indotta in realtà dai mass-media) di cosa sarebbero la scienza, il progresso e la modernità. Talvolta sono gli stessi “scienziati” (magari ottimi specialisti, a digiuno però delle complesse problematiche legate al loro ruolo) a percepirsi ingenuamente come i portatori del verbo della razionalità contro l’oscurantismo della superstizione religiosa, come se la società fosse ferma all’epoca di Galileo. Il risultato finale è che non si fa altro che sostituire alla morale cattolica una morale laica che ne condivide tutti i difetti; perché non poggia su basi ricostruibili razionalmente, ma su un “sentito dire” acriticamente assunto come “razionalità assodata”.
A questo riguardo è istruttivo il caso delle cosiddette “sentinelle in piedi”, un’associazione cattolica nata per protestare contro il DDL Scalfarotto anti-omofobia. Contrariamente a quello che si sente dire in giro, lo scopo di tale associazione non è negare i diritti degli omosessuali, ma difendere il proprio diritto a una libera opinione. Il punto qui è se possa considerarsi reato (come è scritto sul sito dell’associazione) il semplice “fare rifermento ad un modello di famiglia fondato sull’unione tra un uomo ed una donna, o essere contrari all’adozione di bambini da parte di coppie formate da persone dello stesso sesso“.
Questo aspetto non è così scontato. Quale scienza o quale “principio di modernità” ha stabilito in modo razionale e inoppugnabile come stiano le cose a proposito di una materia tanto delicata? E anche se siamo in disaccordo con il punto di vista delle “sentinelle”, davvero è necessario arrivare al punto di configurare una fattispecie di reato per la semplice promozione della famiglia tradizionalmente intesa?
Inoltre non è paradossale che vengano proposte forme di limitazione del pensiero proprio da quel fronte progressista che, richiamandosi all’illuminismo e al liberalismo, dovrebbe considerare il libero pensiero quale valore supremo da preservare? Non è contraddittorio che si discuta se garantire libertà di parola a chi nega l’olocausto (tema delicatissimo, tant’è che il reato di negazionismo in Italia non esiste ancora) e poi si mettano nel mirino le famiglie cattoliche che vogliono solo educare i figli secondo i propri valori?
Ancora: non è strano che la terzietà della “libera” stampa – quella vera e propria anticamera del paraculismo, che impone al giornalista di non schierarsi mai, trattando ogni parere, anche il più bislacco o il più eversivo (contro la magistratura, contro la Costituzione, ecc.), come “opinione da rispettare” – venga improvvisamente meno, proprio tra i commentatori più liberal, quando c’è da dare un parere (non richiesto) sulle sentinelle in piedi vittime di aggressione (come ha fatto Mentana nel suo telegiornale qualche settimana fa)? E insultare persone magari retrograde e oscurantiste, che però non fanno altro che stare ferme a leggere un libro, non è forse un atteggiamento altrettanto retrogrado e oscurantista?
Qual’è poi l’utilità di inserire l’aggravante dell’omofobia? Se commetto un atto di violenza contro una persona perché è omosessuale, oppure perché è grassa, o solo per un mio sadico divertimento (i classici “futili motivi”), cambia davvero così tanto? Non sono forse tutte azioni spregevoli che meritano di essere represse allo stesso modo? Fare distinzione tra il marcio e la muffa è così rilevante da obbligarci a sindacare sulle liceità delle opinioni che non condividiamo?
Il principio politico di cui i commentatori si riempono la bocca, in questi casi, è l’idea liberale dell’insindacabilità delle scelte private. È lo stato confessionale o totalitario – sostengono costoro – quello che pretende di entrare nell’intimità delle persone, obbligandole a conformarsi: al contrario in uno stato liberale ciascuno a casa propria fa come gli pare. Un principio condivisibile, certo: ma che non si può applicare un tanto al chilo.
Innanzitutto non è sempre agevole distinguere tra sfera privata e sfera pubblica: ci sono comportamenti privati che hanno un’indubbia rilevanza pubblica. Possiamo forse tenere saldo il principio nel caso dei diritti individuali: ma la famiglia non è un diritto individuale, è un’istituzione. E quando si definisce un’istituzione non è facile esimersi da valutazioni morali. Per esempio, in Italia la poligamia è illegale: eppure, se valesse il principio di cui sopra, a rigor di logica una donna adulta e consenziente, che desiderasse sposarsi contemporaneamente con tre uomini, anche loro perfettamente liberi e nel pieno delle facoltà mentali, non dovrebbe trovarsi lo Stato di traverso.
Insomma, la faccenda, anche ad una prima e sommaria analisi, risulta estremamente delicata e densa di implicazioni. Ma allora è difficile credere che la sicurezza mostrata dai commentatori progressisti nel giudicare su queste questioni dipenda da chissà quale implicita evidenza razionale: più probabilmente siamo di fronte a nuove forme del vecchio caro conformismo, così poco “moderno” e per nulla “scientifico”.
Questo sospetto diventa una certezza, se passiamo ad argomenti decisamente meno controversi, o controversi solo in apparenza. È il caso del problema dell’immigrazione. Le destre da sempre cavalcano il tema a fini elettorali, soffiando sul fuoco del disagio sociale e alimentando pulsioni xenofobe; i progressisti, dal canto loro, hanno deciso che qualsiasi implicazione scomoda sull’argomento deve essere rimossa. La versione ufficiale è: l’immigrazione fa bene, e chi dice il contrario cerca solo un capro espiatorio.
Da quando poi Salvini e Grillo, che pure sono in continua lotta tra loro per la palma di “migliore forza d’opposizione”, hanno scoperto di pensarla allo stesso modo tanto sulla questione dell’euro, quanto, appunto, sul tema immigrazione, nel fronte progressista è tutto un darsi di gomito, un gigioneggiare di sospiri compiaciuti, uno scuotere di capo, un denunciare con costernazione la cattiva piega presa dal dibattito pubblico, che non si intona più col bon ton dei salotti televisivi del martedì sera: “Visto?! Lo avevamo detto, noi, che Lega e 5 Stelle rappresentano i soliti populismi razzisti, che nei momenti bui della storia campano sul malcontento popolare!”.
Gad Lerner pubblica un commento che non è nemmeno un commento; è un titolo: “Grillo insegue Salvini nella corsa a chi è più becero“. Fa ancora meglio Achille Saletti sul Fatto Quotidiano: “‘No euro’ e ‘no negro’: Grillo cerca il ventre molle del paese?“. Scrive Saletti: “Siamo tornati all’evergreen. Il motivo buono in tutte le stagioni, quello orecchiabile ai più e godibile nella sua monotematicità. […] Il movimento oscilla, fluttua, idealizza, teorizza ma poi crolla sulle solite piccine vigliaccherie della politica“. E così tutti gli uomini di buona volontà sono avvisati: non arrischiatevi a parlare di euro e immigrazione, perché abbiamo già stabilito che è solo becero populismo. Punto.
Poi però una sera giri su Otto e Mezzo, senti due campioni del progressimo del calibro di Federico Rampini (Repubblica) e Chiara Saraceno mentre si confrontano con Matteo Salvini; e quando vedi quest’ultimo svettare sopra gli altri due come fosse il Conte di Cavour per la lucidità e la chiarezza di analisi, allora capisci che nel fronte progressista c’è davvero qualcosa che non va.
Il segretario leghista, reduce dal successo oceanico della manifestazione in Piazza Duomo, dapprima prende le distanze dal razzismo biologico («Io non mi sento superiore a nessuno»), poi molto puntualmente spiega perché l’immigrazione selvaggia (benché non sia la prima causa) ha contribuito a impoverire la classe media: perché (come ho già spiegato anch’io) molto semplicemente gli immigrati poveri sono disposti a lavorare ad un prezzo più basso degli italiani, e questo aiuta ad abbattere i salari.
Che questo intento sia stato perseguito con successo negli ultimi trent’anni si nota chiaramente nel grafico a fianco, ripreso dal blog di Alberto Bagnai, dove l’esplosione del debito (linea verde) – prima pubblico (linea rossa) e poi privato (linea blu) – si muove di pari passo con il crollo della quota salari: una dinamica che inizia tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80.
In quel periodo, esattamente nel 1979, come ho già ricordato la lira si aggancia allo SME. E naturalmente il cambio forte – dice sempre Bagnai – fa quello che i manuali prevedono che faccia: ossia disciplinare i sindacati. È l’inizio della finanziarizzazione dell’economia: il capitale si apre alla mobilità e i lavoratori moderano le loro pretese. E naturalmente cominciano a perdere potere d’acquisto, che viene compensato dal debito pubblico.
Col crollo dell’Unione Sovietica il fronte sindacale perde ulteriore slancio: nel 1992 viene abolita la scala mobile (i salari non sono più indicizzati all’inflazione) e nel 1997, col cosiddetto “pacchetto Treu”, si introducono contratti flessibili. In questo contesto aumenta anche l’immigrazione: lo certifica il grafico dell’ISTAT qui a fianco.
Da principio questa dinamica aiuta a trainare l’economia, grazie proprio alla manodopera a buon mercato e alla disponibilità dei nuovi venuti a fare lavori che gli altri non vogliono fare. Ma la realtà è che il vero motore negli anni pre-crisi è il debito privato: mutui e rateizzazioni elargite con facilità danno l’illusione, per un certo periodo, che l’economia stia tirando; finché il fallimento di Lehman Brothers non scatena il ritorno alla realtà. Posta in questo contesto, tuttavia, l’immigrazione appare per quello che realmente è: non una questione umanitaria, bensì l’ennesimo tentativo di breve respiro di competere al ribasso sul salario del lavoratore.
Un’evidenza che Rampini prova a contestare, con grave sprezzo del ridicolo, citando l’esempio degli Stati Uniti per la capacità di attirare ricercatori qualificati: come se questo fosse il problema – fa notare Salvini – che porta il degrado delle nostre periferie (si pensi, qui da noi, alla sorte di un quartiere storico come Sampierdarena). Naturalmente il problema non è l’emigrazione dei ricchi specializzati, ma dei poveri disperati. Proprio negli USA, infatti, si progetta di costruire 700 miglia di recinzione, spendendo 30 miliardi di dollari, per contrastare l’esodo dei 450.000 messicani che ogni anno tentano di passare il confine.
La professoressa Saraceno concorda che il problema, in effetti, sia il tipo di immigrazione che si attira. E forse – si potrebbe anche aggiungere – se non abbiamo poli di eccellenza che attirano ricercatori qualificati è anche perché, dall’euro all’immigrato nordafricano, la nostra illuminata classe dirigente, industriale e politica, si è coalizzata per trovare la strada più comoda, prosperando alle spalle dei lavoratori.
Ma questo il fondamentalismo progressista non lo può ammettere. Non importa quanto presumano di essere colti e razionali questi pensatori liberali: di fatto preferiscono non confrontarsi con la realtà. Perché dovrebbero fare la fatica di mettere in discussione le proprie idee, quando basta individuare un “becero razzista” con cui prendersela?
Andrea Giannini