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Terzo premier “non eletto”? Il vero deficit democratico è un altro: bentornata austerity

Per la Costituzione non c'è nulla di formalmente sbagliato nel fatto che Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi siano stati incaricati da Giorgio Napolitano e abbiano ottenuto la fiducia del Parlamento. Lo scandalo è che l'inequivocabile verdetto delle urne continua ad essere ignorato


27 Febbraio 2014Rubriche > "Polis" Critica Politica

italia-europa-politicaSi sente dire qua e là che “Renzi è il terzo premier non eletto“, intendendo evidentemente con questa espressione “non eletto dai cittadini”. In effetti è evidente lo scarso rispetto mostrato per la democrazia al momento della formazione dei governi. Tuttavia bisogna fare attenzione, perché, messo in questi termini, il tormentone rischia di rivelarsi un messaggio subliminale funzionale alla propaganda dei soliti dogmi (ovvero quel “luogocomunismo” cui accennavo la settimana scorsa).

Difatti, se davvero i fallimenti degli ultimi due governi fanno capo a Presidenti del Consiglio “non eletti” (nel senso che nessun elettore ha mai messo una croce sul nome di quel candidato ), allora  viene spontaneo pensare che il problema possa essere individuato nel sistema di selezione affidato ai “giochi di palazzo”; e che dunque, per invertire la rotta, occorra “far scegliere alla gente”. L’allusione è evidente: quello di cui avremmo bisogno è, in una parola, il presidenzialismo.

Tuttavia nella storia repubblicana, anche prima di Monti, nessun premier è mai stato votato direttamente dai cittadini. Viviamo ancora, infatti, – checché se ne dica – in una repubblica parlamentare: gli elettori votano i partiti o le coalizioni che siederanno in Parlamento; dopodiché spetta al Presidente della Repubblica nominare il Presidente del Consiglio, ossia colui che, sulla base delle consultazioni avviate, si suppone possa disporre di una maggioranza e dunque ottenere un voto di fiducia. La prassi è la stessa anche in caso di crisi di governo: il Presidente della Repubblica verifica se ci sono le condizioni per formare altre maggioranze; altrimenti si torna al voto. E’ sempre andata così.

La questione del “premier eletto” è piuttosto un vecchio pallino di Berlusconi, che la sinistra ha dovuto rincorrere come sempre. Secondo il Cavaliere, il fatto di proporre in campagna elettorale una precisa leadership, dichiarata anzitempo agli elettori e plasticamente rappresentata dalla dicitura “Berlusconi Presidente” sul logo della coalizione, trasfigurerebbe il nostro sistema, de facto, in senso presidenziale. Di qui tutte le elucubrazioni sulla cosiddetta “costituzione materiale”: dato che i partiti hanno inaugurato una certa prassi (costituzione materiale), allora sarebbe necessario modificare di conseguenza le leggi (costituzione formale) – un po’ come dire che, siccome nessuno si ferma più col rosso, tanto vale abolire i semafori.

Purtroppo per i suoi detrattori, però, fintanto che non viene modificata, la nostra Costituzione resta in vigore così com’è: e sulla base di questa Costituzione non c’è nulla di formalmente sbagliato nel fatto che Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi siano stati incaricati da Giorgio Napolitano e abbiano ottenuto la fiducia del Parlamento.

Ma allora dove sta lo “scarso rispetto per la democrazia”? Il vero deficit democratico sta nella difformità tra quello che i partiti promettono prima del voto e quello che fanno dopo.

Le logiche che portarono Monti a Palazzo Chigi furono scellerate; ma all’epoca la politica si trincerava dietro la supposta emergenza, l’incertezza delle elezioni e il consenso costruito attorno alla figura dell’ex-commissario europeo: con queste giustificazioni si poté adoperare la formula delle larghe intese per varare dolorose misure di austerità. Con la caduta di Monti, però, i partiti si presentarono in campagna elettorale col timore di venire bastonati dagli elettori, a causa degli effetti recessivi del rigore contabile. Il PD, ad esempio, cercò di recuperare giurando eterna inimicizia a Berlusconi e promettendo di coniugare rigore e crescita; ma questo non bastò a evitare che il responso delle urne fosse schiacciante: come venne riconosciuto da pressoché tutta la stampa internazionale, gli Italiani avevano punito le larghe intese e bocciato l’austerity. Lo scandalo è che questo inequivocabile verdetto viene da allora sistematicamente ignorato.

Già con il governo Letta abbiamo avuto la riedizione delle larghe intese che lo stesso ex-premier aveva abiurato in campagna elettorale. Oggi il governo Renzi tira un secondo, sonoro ceffone alla sovranità del popolo, con la nomina – che è un’autentica provocazione – di Pier Carlo Padoan al dicastero dell’economia.

Padoan, il cui curriculum e competenza di esperto non sono in discussione, è stato l’uomo forse più rappresentativo della filosofia dell’austerity. Lo dimostra anche il fatto che il premio Nobel Paul Krugman – probabilmente il più illustre esponente della critica all’austerità a livello mondiale – abbia fatto di Pier Carlo Padoan e dell’OCSE, che allora il nostro compatriota dirigeva, un vero e proprio idolo polemico.

Krugman ha scritto (aprile 2013) che il parere dato dall’OCSE agli USA nel 2010 (alzare i tassi per frenare inesistenti aspettative inflattive) “potrebbe essere considerato il peggiore consiglio mai dato dalle maggiori organizzazioni internazionali – peggiore di quelli dati dalla Commissione Europea, peggiore di quelli dati dalla Banca Centrale Europea”. Ha poi commentato l’esortazione di Padoan a proseguire nel consolidamento fiscale, perché “la vittoria” sarebbe “a portata di mano”, con queste parole: “Credo che questa sia l’eurolingua per dire: il massacro continuerà finché il morale si risolleverà”. Più tardi (settembre 2013) ha aggiunto: “L’OCSE in generale, e in particolare Pier Carlo Padoan, in qualità di capo economista, sono stati tra i più grandi e tra i primi accaniti sostenitori [cheerleaders] dell’austerità; quindi è chiaro perché non vogliano ammettere che di fatto hanno spinto l’Europa in un disastro”.

Insomma, indipendentemente da come si muoverà il governo Renzi e dalla valutazione che se ne darà, è evidente già ora che non si poteva trovare in tutto il mondo un ministro dell’economia più titolato a riprendere e proseguire l’opera di Monti; il che testimonia la pervicace volontà antidemocratica di questa classe politica, che continua a ignorare il voto degli Italiani per accontentare i diktat europei.

Andrea Giannini


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