add_action('wp_head', function(){echo '';}, 1);
Di fronte alla riforma scritta e finita, qualcosa deve aver convinto il premier che metterci la faccia con un dl non fosse politicamente conveniente. Interpellare il Parlamento, a questo punto, può tornargli utile per far fallire la manovra, dando la colpa alle solite odiate lungaggini parlamentari
La settimana scorsa è saltata la tanto promessa riforma sulla scuola. La questione, per la verità, sembrerebbe meramente procedurale: anziché il solito, straordinario decreto-legge (dl), immediatamente esecutivo e dunque molto più veloce, Renzi ha deciso all’ultimo momento di procedere con un disegno di legge (ddl), da sottoporre per l’approvazione al Parlamento. A quanto si è capito, il premier si sarebbe orientato in questo senso, da un lato, in ossequio a un monito del capo dello Stato, Sergio Mattarella, che aveva richiamato il governo a un uso meno frequente della decretazione d’urgenza; dall’altro lato per coinvolgere le altre forze politiche, oltre che la minoranza interna del PD.
Il brusco cambio di passo, tuttavia, deciso la notte prima dell’annuncio di un decreto a cui si lavorava da mesi, oltre che l’improvviso ravvedimento di Renzi (i cui predecessori già erano stati richiamati in passato anche da Napolitano: ma inutilmente), ci obbliga a pensare che il vero motivo sia un altro.
Il Fatto Quotidiano ha ricostruito la “cronica annuncite del premier” su una riforma ipotizzata per la prima volta addirittura l’estate scorsa: e non c’è dubbio che rileggere di fila tutte le dichiarazioni e i tweet dei mesi passati, alla luce dei fatti di questa settimana, sia il colmo del ridicolo. Tuttavia l’idea di stabilizzare un esercito di precari aveva una sua indubbia utilità: poteva permettere, infatti, di mettere la riforma della scuola su un binario di approvazione rapido e indolore.
Il mondo dell’istruzione è in effetti una selva tale di leggi e provvedimenti, stratificatisi – oserei dire – nei secoli grazie all’ambizione riformatrice di praticamente qualunque governo della storia d’Italia, che oggi è quasi impossibile mettervi mano senza scontentare qualche categoria, senza fare dei torti obiettivi o esporsi al rischio di ricorsi e contro-ricorsi. Per questo proporre, contestualmente a una riforma generale del settore, l’eliminazione del precariato poteva rappresentare una soluzione: perché avrebbe significato di fatto mettersi al riparo da qualunque opposizione, dato che nessuna forza politica al mondo avrebbe mai osato schierarsi contro l’assunzione in pianta stabile di cento e passa mila persone. Tant’è che, a parte qualche sopracciglio alzato, l’unica cosa che si rimproverava davvero a Renzi era la reale fattibilità della cosa. Quando tuttavia nella Legge di Stabilità veniva stanziato il fondo ““La buona scuola”, con la dotazione di 1.000 milioni di euro per l’anno 2015 e di 3.000 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2016″ anche i più critici sembravano ricredersi: buono o cattivo che fosse il provvedimento, una comunque epocale riforma sembrava davvero cosa fatta.
Qualcosa però deve essere andato storto. Forse la sentenza europea dello scorso novembre contro i contratti a termine ha finito per allargare la platea delle persone da dover assumere per evitare possibili ricorsi; forse il conteggio dei fondi necessari non era stato fatto così bene; forse mettere ordine tra tutte le graduatorie, abilitazioni e concorsi non è poi così facile: in ogni caso, di fronte alla riforma scritta e finita, qualcosa deve aver convinto il premier che metterci la faccia con un dl non fosse politicamente conveniente.
Interpellare il Parlamento, a questo punto, può tornargli utile per far fallire la manovra, dando la colpa alle solite, odiate lungaggini parlamentari; oppure per costringere le altre forze politiche ad autorizzare il governo a procedere per decreto, di fatto mettendosi al riparo da ogni possibile critica futura. Quel che è certo è che, se si inizia a discutere in Parlamento una materia così complessa e delicata, non si finirà mai in tempo utile. Lo ha chiarito bene Lorenzo Vendemiale su Il Fatto Quotidiano: “Le assunzioni sono abbastanza condivise fra i parlamentari, ma in Aula le varie correnti (anche all’interno del PD) potrebbero cominciare a perorare la causa dell’una o dell’altra categoria (tra GaE e Gi, Tfa e Pas, i precari che aspirano ad una cattedra fissa sono circa il doppio dei posti disponibili). L’approvazione di piccole variazioni sarebbe una catastrofe, costringerebbe a rivedere tutto l’impianto”.
Qualunque siano le intenzioni del premier, e comunque vada a finire la vicenda, che riguarda la sorte dei molti precari, ma anche dell’immagine dello stesso Renzi, rimane un fatto: che sussisterebbero tutte le ragioni per un decreto-legge.
Il decreto-legge – lo ricordo – è uno strumento che sospende temporaneamente la divisione dei poteri, alla base di tutte le costituzioni del mondo dal 1689, per cui da una parte dovrebbe stare il Parlamento (potere legislativo) e dall’altra il governo (potere esecutivo). Per questo motivo del dl si dovrebbe fare un uso molto limitato (di qui il summenzionato monito di Mattarella), che potrebbe essere giustificato solo da occasioni di particolare urgenza (per cui non si possono attendere i tempi dell’Assemblea) e – naturalmente – dal sostanziale accordo delle principali forze politiche.
La riforma della scuola soddisfa entrambe queste condizioni: se la si vuole fare, infatti, c’è necessità di fare presto (la scuola inizia a settembre); inoltre non c’è traccia di alcuna seria obiezione politica. Si tratta, insomma, delle condizioni esattamente contrarie a quelle alla base del cosiddetto “jobs act”, che pure è stato dapprima decretato con urgenza dall’esecutivo e poi approvato dal Parlamento con il ricatto del voto di fiducia (se si vota no, il governo salta), benché ci fossero state moltissime contestazioni persino all’interno del PD e benché non sussista alcuna ragione d’urgenza, dato che la crisi economica dura ormai da quattro anni (un tempo in cui si sarebbero potute tranquillamente approvare in Parlamento 5 o 6 riforme del lavoro…).
Ecco perché di tutta questa faccenda la cosa davvero grave è la dichiarazione di Renzi in conferenza stampa: «E’ abbastanza sorprendente: se facciamo da soli siamo ‘dittatorelli’, se facciamo i decreti siamo antidemocratici, se facciamo i ddl non siamo abbastanza spediti, siamo in ritardo. Si tratta di un dialogo surreale. Diamoci pace e troviamo una via di mezzo».
È grave, anzi gravissimo, che Renzi non sappia a cosa serve un decreto-legge.
È grave, anzi gravissimo, che Renzi sia evidentemente così spregiudicato da utilizzare questo strumento solo quando ha bisogno di bypassare il Parlamento che minaccia di opporsi, e da promuovere invece le discussioni parlamentari quando lo scopo è scaricare la responsabilità sugli altri.
È grave, anzi gravissimo, che addirittura Renzi ci scherzi sopra.
È grave, gravissimo, anzi è il segno che la libertà di stampa è morta, il fatto che nessun organo di informazione abbia avuto la decenza di fargli notare tutto questo.
Andrea Giannini