Il miglior modo di tutelare il patrimonio è farlo conoscere. I graffitti di San Donato ci permettono una riflessione che parte dalla storia: sono specchio della nostra società?
In principio fu Santo Stefano – l’antico monastero incombente mutolo e serioso su via XX Settembre –; poi, uno dei più bei palazzi della centralissima via San Lorenzo, il sei-settecentesco Centurione-Gavotti; ora, i pilastri della facciata della bella San Donato: nonostante i rifacimenti del D’Andrade, uno dei migliori esempi di romanico genovese. Writers, vandali o graffittari che dir si voglia hanno colpito ancora, deturpando il volto storico di Genova. Che fare? Ronde, telecamere e condanne ai lavori forzati? Educazione al bello? La partita è aperta. A lungo mi sono interrogato sul problema. E la mia conclusione è che non possumus. Sì. Non possiamo rinunciare a educare. Non possiamo – in quanto anime pensanti – abdicare a una funzione che è nostra peculiare, che è quella di tentare – per quanto è nelle nostre possibilità – d’allevare giovani consapevoli del fatto d’essere parte d’una storia. Insomma, nati o adottati da questa città, non possiamo ignorarne il passato. Negarne l’esistenza è un tratto caratteristico dei tempi d’oggi: non solo della gioventù, che fa di tutto per divincolarsi da quella gabbia 2X3 in cui si sente stretta (senza sapere bene dove andare), ma anche del cosiddetto mondo adulto. Il crescente individualismo è direttamente proporzionale al taglio d’ogni ponte col passato. Le generazioni che ci hanno preceduto – quelle generazioni che hanno eretto San Donato, per intenderci – hanno ormai poco da dire. Sapete qual è la verità? La verità è che un graffito su una colonna medievale non scandalizza più nessuno. O, meglio, scandalizza solo quei pochi che sentono, fortissimamente sentono il senso di questa tradizione e il dovere morale della sua trasmissione. Che fare, dunque?
Ebbene: è in queste situazioni che lo studioso – o l’aspirante tale –, il divulgatore ma anche il semplice amante del passato acquisisce un ruolo eminentemente sociale: comprendere, conservare e trasmettere la memoria. Lasciate, dunque, che offra il mio contributo. Ai graffitari d’oggi farà, forse, piacere sapere che il loro gesto non è affatto rivoluzionario. Provate a entrare in San Donato e osservate con attenzione la prima colonna alla vostra sinistra. Noterete due grandi imbarcazioni tracciate probabilmente per grazia ricevuta 7-800 anni fa. Quella più in alto raffigura una navis di XII-XIII secolo. Si tratta d’una nave mercantile a due alberi, probabilmente a vela latina, dotata di timoni laterali a remo, d’un cassero di poppa e d’un rudimentale castello sopraelevato sulla prua. Più sotto è rappresentata un’altra navis, questa volta più tarda – probabilmente una caracca di XV secolo –, dotata di due alberi a vela quadra, cassero e timone centrale, completa di bandiera genovese e – se si osserva bene – perfino d’un paio di marittimi aggrappati al sartiame. Poco più in là, sulla colonna dirimpettaia, si trova, invece, una torre curata nei minimi particolari, e poi figure di animali e teste umane.
Non è, questo, l’unico caso. Genova è piena di graffiti. Pare, ad esempio, che, tra XVIII e XIX secolo, uno dei passatempi preferiti fosse quello d’incidere il gioco del filetto su marmi e gradini. A ben vedere, è possibile imbattersi in immagini del genere un po’ ovunque: sulla scalinata di San Lorenzo; sui gradini d’ingresso al Battistero; sulle colonne del loggiato interno del palazzo arcivescovile; sugli scalini della chiesa dei santi Cosma e Damiano; lungo le mura delle Grazie e le mura della Marina; sui muretti d’accesso a Campopisano; su un sedile del porticato di Palazzo San Giorgio; presso il loggiato superiore di palazzo Tursi; sulla balaustra di via Prè sottostante Palazzo Reale; su un sedile del sagrato del santuario della Madonnetta… Che la cerca abbia inizio! Ancora più diffusi, d’altra parte, sono i graffiti di carattere devozionale: oltre alle imbarcazioni, che hanno probabilmente il carattere di ex-voto marinareschi, croci – presenti, ad esempio, nel chiostro di San Matteo, sugli stipiti di Palazzo Doria-Quartara, nella piazza antistante, e su quelli dell’abbazia di Santo Stefano – e invocazioni, come nel caso del Dei Gratia inciso sul gradino del portale della Chiesa del Santo Nome di Maria di Piazza delle Scuole Pie. Infine, un terza grande categoria comprende tutti quei graffiti lasciati dai soldati di stanza in città dal Cinquecento in poi, generalmente d’origine teutonica, e dai carcerati, numerosissimi in entrambi i casi nel Palazzetto Criminale di via Tommaso Reggio, dove è possibile trovare nomi, simboli araldici, simboli religiosi, un’altra imbarcazione (verosimilmente un galeone) e perfino la rappresentazione d’un paio di villaggi montani con tanto di chiese bene in vista; ma si pensi anche alla Villa del Principe, e ai graffiti tracciati direttamente sugli affreschi della Loggia degli Eroi – quale affronto! – dalla guardia di palazzo, contemplanti una varietà di soggetti: nomi, date, imbarcazioni, pesci, uccelli… Per non parlare della Villa Centurione-Doria di Pegli, dove è possibile imbattersi perfino in un quadrato magico (SATOR).
Insomma, da che mondo e mondo, i Genovesi – di nascita o d’adozione – si sono divertiti a “deturpare” i propri beni architettonici. E quei graffiti sono ora parte integrante dei nostri monumenti. Quale, dunque, la differenza coi graffittari d’oggi? A pensarci bene, anch’essi sono, in un certo senso, Storia. È così: si tratta soprattutto d’una questione di prospettiva. Il graffito è, in certo qual modo, lo specchio d’una società. Ex-voto, croci, nomi, date, giochi, pesci, uccelli, imprecazioni rappresentano efficacemente lo spirito dei tempi. Il problema, semmai, è un altro: quando, il graffito si tramuta in atto vandalico? Ora, Codice penale a parte, la domanda non può che rimanere aperta. La mia modesta risposta – che propongo come ipotesi di lavoro – è la seguente: quando il gesto è vuoto, depauperato d’ogni significato al di fuori di quello d’ottenere i classici 5 minuti di notorietà: la propria “ora d’aria, di gloria”, ultima àncora cui aggrapparsi in questa società d’anonimi. Così, se ieri si graffittava per ringraziare d’essere scampati da una tempesta, oppure per divertirsi al gioco del filetto, oggi s’inneggia alla rivoluzione senza bene sapere che diavolo significhi fare la Rivoluzione. Sarà che i tempi sono cambiati, e che certe parole non hanno più il significato che possedevano anche solo qualche decennio fa. Fatto sta che i graffittari d’oggi – quelli che hanno deturpato Santo Stefano, San Donato e Centurione-Gavotti – hanno, purtroppo, ben poco da dire. Ma, d’altronde, cosa volete farci: ogni secolo ha i graffittari che si merita. Con questo non voglio certo dire che, qualora veicolassero concetti, graffiti del genere siano del tutto leciti. È l’autoregolamentazione che difetta. Quanto uno più conosce il proprio passato, quanto più lo apprezza e lo ammira perché parte d’una tradizione, tanto più sarà spinto a tutelarlo. È questa, dunque, la sfida. Si tratta d’una sfida eminentemente educativa che non può essere appannaggio soltanto della scuola. È la sfida d’un’intera società. La partita è aperta.
Antonio Musarra
Quale volontaria di tutela dell’arte sono del tutto in accordo.
Gentile Elisa Prato, sono contento. Reprimere senza porre in essere un’azione educativa di conoscenza del territorio non serve a nulla.
Cari saluti,
AM