L'ultimo libro di Jack Dion e il difficile rapporto della sinistra con le classi sociali più deboli. L'Espresso, come se nessuno in Italia avesse mai sottolineato questo aspetto, va a recuperare un intellettuale francese per ammettere in modo elegante quello che era già chiaro a qualunque persona di minima onestà che avesse sentito parlare D'Alema per un paio di minuti...
Anche se non se ne è accorto quasi nessuno, da un po’ di tempo a questa parte la sinistra italiana e gli organi di stampa ad essa collegati hanno avviato un embrionale processo di autocritica. L’innegabile connotazione liberista e berlusconiana dell’attuale premier e il fallimento europeo di Tsipras (ormai sempre più debole nei negoziati che lo vedono opposto al rigore tedesco) confermano che alle circostanze attuali un pensiero e una ricetta politica “di sinistra” – nei fatti, e non solo nel nome – non trovano cittadinanza.
Questo dato costringe i critici all’interno del Partito Democratico a confrontarsi con tutte le accuse provenienti da avversari o intellettuali dissenzienti, che solo fino a qualche mese fa venivano rigettate sdegnosamente. Naturalmente non si dirà mai che chi muoveva certe obiezioni abbia avuto ragione: esistono modi più raffinati per recuperare un dibattito a lungo negato e non perdere la faccia.
Ieri l’Espresso, con una recensione dedicata a “Le Mépris Du Peuple”, l’ultimo libro del francese Jack Dion, ha ufficialmente introdotto un tema che è già di per sé una critica: il difficile rapporto della sinistra con le classi sociali più deboli. Come se nessuno in Italia avesse mai sottolineato questo aspetto, il gruppo editoriale di Repubblica va a recuperare un intellettuale francese per ammettere in modo elegante quello che era già chiaro a qualunque persona di minima onestà che avesse sentito parlare D’Alema per più di un paio di minuti.
Dion accusa la sinistra francese ed europea non solo di non aver difeso le classi povere, di aver lasciato che il potere d’acquisto del salario si riducesse, di non aver combattuto la sperequazione e di essersi piegata alle logiche del liberismo; ma anche di aver assunto negli anni un vero e proprio atteggiamento di diffidenza e snobismo verso quello che dovrebbe essere l’elettorato di riferimento. A questo proposito Dion conia il termine “prolofobia” per indicare l’allergia nei confronti del proletariato dei socialisti alla Hollande e alla Strauss-Khan, a loro agio nei salotti finanziari, ma incapaci di concepire un rapporto con le masse, considerate alla stregua di accozzaglie di individui senza qualità da condurre per mano.
È questo paternalismo che, secondo Dion, sta alla base del grande appeal di Marine Le Pen (ormai primo partito del paese anche alle elezioni dipartimentali). La sinistra francese, per difendere la propria visione liberista, ha trattato con sufficienza e squalificato come “populista” ogni tensione proveniente dell’interno del popolo, permettendo così al leader del Front National di porsi come unica difesa dei bisogni e delle aspirazioni degli strati più deboli. Il risultato è che i ruoli si sono invertiti: la sinistra sociale fa l’apologia del capitalismo sfrenato, mentre la destra nazionale si configura come partito delle masse opposto all’oligarchia dominante.
Si tratta, come ben si vede, di una pensiero per nulla originale. Dion non aggiunge niente che non sia già stato detto anche in Italia. La mia critica all’uso distorto del termine “populista”, per esempio, risale a dicembre 2012; mentre nella mia analisi sul boom alle amministrative di Marine Le Pen, esattamente un anno fa, invitavo la sinistra a non parlare di “un errore” commesso dagli elettori, ma a riflettere sul senso profondo di questo grande spostamento di voti. E certo non sono stato l’unico, né il primo a dire queste cose: pertanto fa sorridere che l’articolo si concluda sostenendo che la lettura del libro di Dion dovrebbe essere obbligatoria.
Quello che serve davvero a sinistra, in realtà, è l’umiltà di non considerarsi moralmente più avanzati, imparando a riflettere sul merito delle critiche, anziché dare del fascista a chi le avanza. Lo sport preferito dei commentatori “liberal” è ancora oggi quello di discettare su quanto sia cattivo Matteo Salvini. Xenofobo, razzista, rozzo, ignorante, populista e, naturalmente, fascista: su quanto il leader della Lega Nord meriti questi epiteti si discute appassionatamente nei talk-show, senza che nessuno, però, si ponga il problema di quale sia la risposta alternativa ai temi che Salvini pone.
L’unico euro buono – ormai lo sappiamo – è quello morto. Quanto all’immigrazione, si dovrebbe banalmente ammettere che non esiste un solo esempio nella storia di masse di persone che si siano spostate senza provocare tragedie, contrasti e guerre. Infine c’è un problema di sovranità nazionale che è stato completamente rimosso, al punto che abbiamo dovuto attendere il leader di un partito secessionista per sentirne parlare. Negando il dibattito su questi temi, che sono poi aspetti particolari del problema più generale della globalizzazione, la sinistra ha rifiutato per lungo tempo di ammettere che sulle spalle dei lavoratori e delle classi più deboli è ricaduto il peso insopportabile di queste politiche.
Oggi finalmente una parte del PD – per nulla impressionata, e anzi quasi spaventata dal successo di Matteo Renzi e da quello che il partito rischia di diventare – si è decisa finalmente a fare autocritica. È ora dunque che anche nella società civile si riprendano le fila di un dibattito lasciato a metà anni fa; che si dismetta la falsa sicurezza del pensiero unico e le facili battutine da bar di chi vuole fingere di aver capito tutto e in realtà non ha capito nulla; che si ritorni a dialogare di un futuro in cui nulla è sicuro e tutto si deve ancora costruire.
Andrea Giannini