Attraverso le sue opere riflette sul rapporto perduto tra uomo contemporaneo e natura e sull'eccesso di tecnologia che caratterizza il mondo odierno
Stefano Grattarola, genovese classe ’69, è uno scultore. Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti si è specializzato nella lavorazione del marmo e della pietra; lavora in Italia ma anche all’estero, dove le sue opere di dimensione ambientale sono esposte in luoghi pubblici. Ecco cosa racconta circa il suo lavoro e la sua ricerca artistica.
Come mai la scelta di lavorare col marmo, materiale antico, classico, “lento”, antitetico alle dinamiche veloci del mondo attuale?
«Il marmo viene scelto in funzione del progetto che intendo realizzare, non è assolutamente una prerogativa inderogabile, l’idea è l’operazione artistica, il materiale un supporto».
Cosa intendi con le parole “la natura non é una costante, ma in ogni epoca un concetto differente che l’arte aiuta a mettere a fuoco”? La natura non è forse un dato di fatto costante da milioni di anni?
«La natura è indubbiamente una costante da milioni di anni, nello specifico quando lavoravo al progetto “naturaelineamenta”, mi sono interessato alle forme organiche come concetto su cui sviluppare una personale alterazione, facendole diventare “altro”. Sviluppavo una reinterpretazione nella pietra, materiale comunque a mio avviso morto, statico, cercando di denunciare l’impossibilità dell’uomo contemporaneo (cittadino) di riavvicinarsi al sentore universale della natura».
Di solito l’artista lavora prima di tutto in virtù di un’esigenza interiore, a volte intenzionalmente senza alcuna considerazione per il pubblico, ma seguendo soltanto una propria necessità espressiva. Tu crei solo per te stesso o anche per chi guarderà i tuoi lavori?
«Lavoro per me stesso, è una necessità, se ho fortuna gli sforzi vengono incanalati dentro una ricerca più vasta che a quel punto si autoalimenta, diventando anche messaggio per fruitori esterni, ad ognuno libera interpretazione, quello che spero è trasmettere sensazioni, far vibrare corde».
La maggior parte degli artisti con cui ho avuto modo di parlare condivide lo stesso senso di sfiducia e inquietudine verso il mondo circostante, che si esplicita poi nell’aspetto delle opere…. ritrovo parte di questa inquietudine anche nelle tue immagini. Come interpreti questa cosa?
«Indubbiamente anche io sono molto attratto dalla parte oscura del pensiero, è molto più facile lavorare sul dramma dell’esistenza invece che sul piacere del vivere, nei momenti di comunione con se stessi e con l’esterno difficilmente ho trovato stimoli per poter iniziare a “pensare”».
In “useless machine” lavori anche con legno dipinto un tempo utilizzato per le statue di santi; tu invece lo associ a insiemi di ingranaggi e ruote dentate…c’è un disegno preciso in questa scelta?
«La denuncia dell’eccessiva tecnologia a discapito e perdita di un approccio manuale del fare è il tema ricorrente del lavoro “useless machine”; la scelta dei materiali è, come ho detto precedentemente, puramente casuale, a maggior ragione in questa ricerca la possibilità di utilizzare il legno con la stessa leggerezza di un lego o di un meccano apriva molte più strade all’apparente ludicità del fare».
Hai lavorato in tutto il mondo con opere di dimensione ambientale poste in luoghi pubblici. Esiste un filo conduttore lungo l’insieme di questi lavori?
«Le opere di dimensioni monumentali che ho realizzato in giro per il mondo sono la realizzazione degli stessi concetti in scala più grande, per gli scultori purtroppo è difficile ottenere appalti per grandi lavori, la possibilità di partecipare ai simposi internazionali di scultura è un buon compromesso per vedere l’opera nelle sue giuste proporzioni con un minimo di riscontro economico».
È possibile limitarsi al bozzetto in gesso delegando la traduzione al materiale definitivo a mani altrui….mi è sempre parso che il rapporto fisico, la fatica manuale sulla materia grezza sia una sorta di valore aggiunto, che contribuisce a dare l’anima all’opera. Tu come ti comporti e cosa pensi di tutto questo?
«Conosco colleghi e amici che delegano la realizzazione definitiva del lavoro ad altri, non è il mio caso al momento, per motivi etici e per motivi economici; l’avvalersi di laboratori artigiani esterni comporta a monte una grossa mole di lavoro da smaltire, e conseguentemente la disponibilità economica pagata dai committenti, nessuno spenderebbe soldi senza già essere sicuro di piazzare il lavoro».
È possibile vivere di arte qui, oggi?
«Sul solito tema andare via o no da Genova ne abbiamo già parlato troppo, personalmente ritengo che in questa epoca la differenza sia ben poca, è un momento che il lavoro di clandestinità potrà dare i suoi frutti a lungo andare, e non parlo di jetset o gratificazioni economiche, parlo di onestà e verità della ricerca, l’aspetto più importante».
Claudia Baghino