La nube di polvere e acqua che ha cancellato i resti del ponte è solo una cartolina triste di una arida e desertificante stagione della storia di questa città
La demolizione delle iconiche pile 10 e 11 di Ponte Morandi è stata senza dubbio una grande opera di ingegneria e di capacità tecnica: un impresa senza precedenti, per una tragedia senza precedenti. Diciamocelo, quello di ieri è stato uno spettacolo intimamente atroce, ultimo atto del fallimento di uno stato, che ha vilipeso il contratto sociale alla base del suo essere, non essendo stato in grado di difendere la vita delle persone, avendo rinunciato alla cura dei suoi patrimoni. Questa demolizione non si sarebbe mai dovuta fare, perché i ponti non devono essere lasciati cadere. Il gaudio di ieri nel vedere esplodere il simbolo di questo tradimento è simile al sollievo che segue la buona riuscita dell’amputazione dell’arto divorato dalla cancrena. C’è poco, insomma, da festeggiare.
E come prevedibile l’appuntamento con la storia è stato nuova occasione per rilanciare il disco rotto della Genova meravigliosa, della Genova città più grande del Mediterraneo, della Genova che non si ferma. Ma Genova non ha bisogno di slogan e di passerelle, Genova ha bisogno di giustizia.
Giustizia per quello che è successo il 14 agosto, di cui oggi ancora poco sappiamo, e per le responsabilità politiche e istituzionali alla base di questa strage. Giustizia per quanto nell’ultimo secolo è stato sacrificato sull’altare di uno sviluppo dai profitti divenuti privati ma dai costi rimasti pubblici, che oggi, nel suo aftermath ha lasciato un fardello di criticità e rischio incalcolabile. Un fardello collettivo la cui gestione, come il Morandi insegna, è sempre al ribasso ed emergenziale.
Giustizia per chi vive oggi questa città, ipnotizzata dall’orgoglio e dalla rivendicazione di una supposta età dell’oro che fu, ma che nel quotidiano vive carenze in tutti i settori della vita pubblica, dai servizi alle manutenzioni, dalla fruizione culturale di qualità al lavoro di qualità, dal riconoscimento e cura dei beni comuni alle politiche sociali di tutela degli ultimi. E dei penultimi, e dei terzultimi, oramai.
Giustizia per chi la vivrà, per chi avrà il coraggio di restarci e per chi, nel caso, non potrà scapparne: in questi ultimi decenni chi ha promesso il cambiamento in realtà ha sempre venduto fumo, accodando la nostra città a modelli altrui, spesso già palesemente in crisi e fallimentari (non per chi ne fa profitto, con tutta evidenza) come ad esempio il turismo di quantità, la portualità di transito, l’urbanistica dei grandi poli di qualcosa, la mobilità privata di massa. Il rincorrere e propagandare la classifica della qualunque, inseguendo o inneggiando ad un supposto posizionamento della città è solo un sintomo di una provinciale mancanza di identità autonoma: è un definirsi in base alla performance degli altri. Scoraggiante e avvilente. E sintomo anche di mancanza di conoscenza della storia e consapevolezza del mondo che ci circonda, con i suoi gigantismi e le sue criticità sempre più esplosive, di cui forse sarebbe furbo farsi alternativa ragionata e di lungo periodo.
E poi giustizia per la Val Polcevera e per tutto il ponente genovese, assediato e divorato dalle servitù della città, il cui futuro è ancora una volta “disegnato” con i colori della polvere e dei camion dei grandi cantieri senza fine certa, dell’imposizione di progetti calati dall’alto, dell’inquinamento e del rumore veicolati dalle grandi infrastrutture e dalla precarietà del diritto alla salute assicurata dagli impianti industriali.
La nube di polvere e acqua che ha cancellato Ponte Morandi è solo una cartolina triste di una arida e desertificante stagione della storia di questa città. Non c’è niente da festeggiare.
Nicola Giordanella