Il senso della religione fra i giovani musulmani italiani, l'aspetto privato e quello pubblico, quanto la pratica religiosa influisce sui comportamenti sociali
L’Italia è un paese nel quale il pluralismo religioso è un fenomeno molto recente, che ha iniziato ad assumere un profilo socialmente rilevante solo intorno agli anni novanta, quando l’immigrazione inizia a profilarsi come un fenomeno diffuso. Parlare del senso della religione nel mondo contemporaneo significa di fatto affrontare due temi diversi: l’aspetto privato, quello della ricerca spirituale personale e del senso dell’esistenza da parte degli individui, e l’aspetto pubblico e sociale: in questi termini ci si chiede quanto nel mondo contemporaneo la pratica religiosa abiti o meno lo spazio sociale e influisca sulla vita di relazione e i comportamenti sociali, politici, economici delle persone. Nel dibattito pubblico italiano prevale una rappresentazione rigidamente “polarizzata” tra credenti cattolici e non credenti, che non rende giustizia alla realtà sempre più diffusa delle minoranze religiose (che in molti casi, ma non sempre, hanno un legame con le migrazioni) ai percorsi di ricerca spirituale personale, sia all’interno del cattolicesimo che di altri confessioni, al fenomeno ormai piuttosto diffuso delle conversioni di italiani autoctoni a culti professati in maggioranza da immigrati. I giovani figli di immigrati, le “seconde generazioni”, quale approccio possono avere alla religione in un paese nel quale è fortemente presente l’impronta culturale cattolica, ma che, nello stesso tempo, sembra situare la pratica religiosa in uno spazio fondamentalmente personale e privato, e nel quale il dichiararsi seguaci di un culto non sempre sembra determinare in maniera chiara gli stili di vita? Abbiamo approfondito la questione del senso della religione fra i giovani musulmani italiani, “seconde generazioni” parte di una delle minoranze religiose numericamente più consistenti, contando oltre due milioni di persone in Italia, e più presenti nello spazio pubblico, anche in occasione dell’apertura della sezione genovese dell’associazione Giovani Musulmani d’Italia, avvenuta il 28 Novembre. Per questo abbiamo raccolto la testimonianza di un testimone privilegiato come Husein Salah, responsabile del Centro Islamico di Genova.
Secondo la sua esperienza, quanti figli di famiglie di religione musulmana in Italia si possono considerare realmente praticanti?
E’ molto difficile rispondere a questa domanda, perché è un fatto personale che non viene censito scientificamente. La maggioranza delle famiglie musulmane cercano di dare un’educazione islamica ai loro figli, ma l’esito dipende molto dallo stile educativo: a volte prevale nei genitori un atteggiamento di dialogo e rispetto, altre uno di imposizione influenzato dallo stile educativo nei contesti d’origini. Nell’infanzia non c’è quasi mai conflittualità, i bambini tendono a seguire ciò che gli viene detto, ma, nell’adolescenza, facilmente avviene il contrario. Quando c’è un dialogo positivo con la famiglia, magari anche scontrandosi su alcuni aspetti, i ragazzi di solito intraprendono un percorso di fede tipico della “seconda generazione”: di fatto, l’adesione all’Islam diventa una loro scelta, come succede per i ragazzi dell’associazione Giovani Musulmani d’Italia, che pochi giorni fa, il 28 Novembre, ha aperto una sezione a Genova. Invece, quando da parte dei genitori c’è un atteggiamento di imposizione autoritaria, nascono molti problemi. Alcune persone sono abituate a considerare la trasmissione dell’educazione e dei valori religiosi di generazione in generazione qualcosa di naturale, scontato, come nei paesi d’origine, senza tenere conto che qua, il contesto sociale è profondamente diverso, che i minori hanno un’esperienza di vita completamente differente da quella dei genitori. E cosi, ci sono degli episodi di ribellione alle famiglie e all’educazione impartita. A Genova e in Liguria, per fortuna, non ci sono stati casi di conflittualità fra genitori e figli gravi come quelli che abbiamo visto diverse volte nella cronaca nazionale, però siamo a conoscenza di numerosi casi di allontanamento volontario dalla famiglia. Alcune volte questo succede al compimento della maggiore età, altre volte ad andarsene sono dei minori, a partire dai 14 anni, sempre da famiglie che sono in difficoltà e non sono riuscite ad instaurare un dialogo educativo con i loro figli. Per questo, il nostro Centro Islamico organizza degli incontri periodici per genitori, perché abbiano consapevolezza delle difficoltà che si incontrano nell’educare i propri figli per scambio di esperienze e suggerire stili educativi adeguati. L’educazione dialogante e non impositiva a volte risulta difficile anche perché spesso i padri lavorano dal mattino alla sera e le madri che restano a casa, interagendo poco con quel mondo esterno con il quale invece i giovani sono costantemente in contatto.
Ci sono invece casi di “ritorno” alla religione da parte di figli di famiglie immigrate da paesi musulmani, ma non praticanti?
L’immigrazione in Liguria è troppo recente perché si possano vedere questi casi in numero significativo. Ci sono giovanissimi che frequentano i luoghi di culto, ma non sempre siamo a conoscenza del percorso che hanno fatto. Conosco invece alcuni giovani che si sono allontanati dal luogo di culto durante l’adolescenza e alcuni di loro sono rientrati, verso i 25-26 anni. Ciò che temo, è il ritorno rivendicativo all’identità di origine, quello che è accaduto in Inghilterra e nelle periferie francesi: molti giovani, delusi dalla loro occidentalità, soggetti a discriminazioni, chiamati spregiativamente “marocchini” da chi di certo non conosce il Marocco, in momenti di difficoltà e di conflitto, possono fare una scelta di ritorno non consapevole, motivata da rifiuto e rabbia più che da effettiva convinzione, e che può essere facilmente strumentalizzata tanto dall’estremismo politico quanto da quello religioso. Noi stiamo lavorando perché questo non avvenga mai in Italia:non a caso, l’associazione si chiama Giovani Musulmani d’Italia, per sottolinearne l’appartenenza italiana, affermarne anche l’appartenenza della fede religiosa all’islam e mostrare che questi due aspetti dell’identità possano convivere pacificamente nel giovani.
Prima mi ha accennato che molti ragazzi compiono un percorso di fede “da seconda generazione”. In che cosa la loro religiosità si differenzia da quella degli immigrati e dei convertiti italiani?
Rispetto agli immigrati, i giovani nati in Italia si differenziano per non seguire alcune pratiche consuetudinarie legate ai paesi d’origine dei genitori. Ad esempio, se in alcuni paesi c’è una netta separazione fra aspetto maschile e aspetto femminile, i nostri gruppi giovanili hanno assemblee miste, pur nel pieno rispetto dei precetti religiosi. Nei giovani musulmani ritroviamo spesso aspetti della cultura occidentale adattati a quella cultura: durante un convegno nazionale la GMI terrà a fine anno a Lignano Sabbiadoro, ci sarà anche un concorso di rap islamico; poi c’è l’aspetto dell’abbigliamento: in particolare, le ragazze fanno un continuo mixaggio culturale: indossano il velo, ma spesso mettono anche i jeans, e cosi via.: questi giovani saranno i mediatori del futuro, coloro che potranno assicurare il dialogo fra i nuovi immigrati musulmani e la società italiana e occidentale. Diverso è l’atteggiamento della seconda generazione rispetto a quello dei convertiti italiani: sono accomunati dall’assenza di riferimenti alle pratiche non religiose divenute consuetudini nei paesi musulmani, ma nei convertiti c’è di base un’insoddisfazione e talora un rifiuto della cultura occidentale o almeno di alcuni suoi aspetti, che li differenzia dai giovani nati in Italia da famiglie immigrate che, appunto, tendono a mixare elementi della cultura islamica e di quella occidentale, adattandoli alle loro convinzioni. Io penso che il musulmano consapevole non deve rifiutare ciò che esiste, ma cercare di adattarlo “se possibile” ai suoi valori. Influenzare e contemporaneamente essere influenzato, perché il rifiuto netto non porta a nulla.
Nello stile di vita, in che cosa i giovani musulmani si differenziano dai ragazzi che non seguono nessun credo religioso in particolare e dai giovani praticanti cattolici?
I giovani musulmani si differenziano dai ragazzi non religiosi in molti aspetti della vita quotidiana, dove cercano di seguire i precetti della religione musulmana: non bere alcolici, non usare sostanze, non mangiare carne di maiale, nell’ambito della coppia, astenersi dai rapporti prematrimoniali: norme di comportamento che nei paesi dei genitori sono molto sentite anche a livello sociale, oltre che religioso, tanto che quasi tutti i non musulmani tendono egualmente a seguirle. Per le ragazze, c’è anche l’elemento di distinzione estetica del velo. C’è anche però fra i giovani una forte sete di assimilazione, che spinge a imitare gli stili di vita caratteristici del paese dove sono nati. In una società come quella occidentale, dove l’immagine è tutto, assimilazione per un giovane vuol dire soprattutto cercare di avere le stesse cose degli altri, seguire le stesse mode, vestire con gli stessi marchi,per non essere emarginati: c’è il rischio di essere trascinati da un consumismo sfrenato, che mette ancora più in difficoltà il loro rapporto con i genitori: e’ un aspetto che vale non solo per i musulmani, ma per tutti gli immigrati: molti cercano di farsi accettare per quello che hanno, o per quello che mostrano di avere, e non per quello che sono. Lo stile di vita dei ragazzi musulmani è forse più vicino a quello dei giovani cattolici praticanti che a quello di tutti gli altri, perché, in fondo, i principi sono simili; la differenza è che i musulmani tendono a essere rispetto a loro più praticanti e a applicare di più i principi nella vita quotidiana. Per quanto riguarda i rapporti esterni dell’associazione GMI, sono buoni sia con gruppi cattolici che con gruppi laici.
Da che cosa dipende secondo lei il fatto che i giovani musulmani siano tendenzialmente più praticanti e osservanti rispetto ai cattolici? Può dipendere dal fatto che essendo in Italia una minoranza tendono a una maggiore coesione?
Penso di no, perché i praticanti di solito seguono i precetti anche nei paesi d’origine, dove i musulmani sono maggioranza. Credo dipenda dal fatto che il musulmano tende a riferirsi molto di più ai testi, alle scritture. Le cose vietate nel Corano sono pochissime, ma sono sempre le stesse: se l’alcool era vietato quattordici secoli fa lo è anche adesso, non c’è un’autorità religiosa generale che possa riammetterlo. Nell’Islam, a differenza che nel Cattolicesimo, non c’è un clero o un’organizzazione centrale che può decidere di modificare alcuni precetti per adattarli alla modernità. Questo, secondo me, facilita un rapporto più diretto delle persone con i testi sacri e il rispetto dei precetti essenziali, perché una persona che vuole essere praticante sa che nessuno ha l’autorità di abolirli o modificarli. Sugli aspetti della vita quotidiana non trattati nel Corano, i musulmani si riferiscono alle tradizioni interpretative e alle opinioni dei sapienti, che possono avere opinioni diverse. Un sapiente può dire che una cosa è fattibile, se non è corretta troverà cento che diranno no, infatti nell’islam sunnita ci sono 4 scuole di diritto islamico con tanti ramificazioni, per fortuna, non esiste un’unica interpretazione. Alla fine è una scelta della singola persona, a questo punto, da chi essere convinta.Il compito dei religiosi musulmani consapevoli secondo me è anche quello di distinguere chiaramente i precetti religiosi dalle tradizioni locali.In certi paesi, alcuni hanno tentato di immettere usanze di origine tribale come l’infibulazione o l’idea del potere assoluto dell’uomo sulla donna, nel novero dei precetti religiosi. I religiosi sapienti e consapevole da sempre cercano di combattere tutto questo.
Andrea Macciò