«Il lavoro si può anche perdere, ma non si può perdere il reddito». La dichiarazione pop-modernista di Grillo è emblema di un Paese che intende rassegnarsi al declino e ad una visione standardizzata della crisi economica. Se i cittadini non lavorano il problema è di chi governa. L'approfondimento
Il premio per il peggior modo di onorare la festa del lavoro va quest’anno a Giuseppe Piero Grillo, detto “Beppe”. Il nostro concittadino conquista l’ambito riconoscimento sbaragliando un’agguerrita concorrenza fatta di politici di tutta Europa, ministri dell’economia e premier in carica, grazie all’epico discorso pronunciato sabato scorso a Piombino: «Il lavoro si può anche perdere, ma non si può perdere il reddito».
Storditi dalla crisi e intontiti da una girandola di dichiarazioni-shock che solo dieci anni fa avrebbero mobilitato le piazze, non ci siamo accorti di questo perfetto, elegantissimo epitaffio per secoli di lotte e rivendicazioni sindacali: eppure la portata dell’affermazione non andrebbe sottovalutata, perché in essa è contenuto il nucleo più profondo del pensiero pop-modernista di Grillo, ed è insieme la conferma della sua sudditanza rispetto alle logiche del capitalismo globale. Per dirla in termini più comprensibili il comico vorrebbe essere portavoce di una forza dal basso, ma dimostra di fare nei fatti gli interessi di chi sta in alto.
Vediamo di capire perché, cominciando a contestualizzare la frase incriminata.
Il M5S da tempo si batte per il reddito di cittadinanza, ossia una serie di “misure volte al sostegno al reddito per tutti i soggetti residenti sul territorio nazionale che hanno un reddito inferiore alla soglia di povertà”. Il principio è molto simile a quello del reddito minimo garantito e risponde indubbiamente ad una logica sensata: garantire a tutti dignità sociale, attutendo l’impatto negativo di un’eventuale perdita del lavoro. Dunque, all’interno di una discussione sugli ammortizzatori sociali e sul senso complessivo del nostro mercato del lavoro, è una posizione che merita certamente di essere considerata e discussa.
Tuttavia questa volta Grillo fa un passo ulteriore in una direzione che forse non era mai stata esplicitata così bene: non solo difende il principio del sostegno al reddito, ma lo pone in contrapposizione al principio del diritto al lavoro. In questo modo va a interfacciarsi direttamente, in chiave polemica, con i principi fondanti della nostra Costituzione. Dire infatti che: “il lavoro si può anche perdere, ma non si può perdere il reddito” significa porsi in contraddizione con l’articolo 1, per cui “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Grillo, insomma, ci sta chiedendo espressamente di ripensare i nostri principi, collocando il reddito prima del lavoro.
Che non si tratti di una interpretazione fantasiosa o di una frase estrapolata dal contesto è confermato dai fatti. Il comizio ha avuto luogo a Piombino, dove le storiche acciaierie Lucchini stanno ormai per chiudere, certificando il declino della siderurgia italiana. Parlando a una folla colma di (ormai prossimi) disoccupati, Grillo ha attaccato non solo, come era logico attendersi, l’amministrazione di sinistra che ha gestito questa transizione; ma si è scagliato anche contro i sindacati, sancendone la presunta inutilità (“sono morti”) e confermando così il desiderio più volte esplicitato di eliminarli dalla scena, senza che sia ben chiaro a chi affidare la tutela dei lavoratori.
Il “megafono del movimento”, poi, ha negato ogni possibile soluzione: ha consigliato alla piazza di rinunciare a coltivare illusioni («si sapeva benissimo che era un altoforno a fine carriera»), di rassegnarsi all’inevitabile declino industriale della zona (al massimo «se si fosse creato un forno elettrico, forse 700-800 persone avrebbero mantenuto il posto di lavoro» – e questo su un totale di circa 1500 addetti…) e ha parlato del reddito di cittadinanza come, sostanzialmente, l’unico rimedio contro la povertà della disoccupazione.
Tutto ciò dimostra che Grillo avalla la versione standard sulle dinamiche della crisi. Cioè, il declino industriale italiano non sarebbe un fatto contingente, dettato da scelte contingenti; non sarebbe un trend da invertire facendo le scelte giuste (e sapete già qual’è la più importante): al contrario, al declino sarebbe necessario rassegnarsi. Il motivo è nella globalizzazione, nella deindustrializzazione in salsa “green”, nella decrescita felice, nella Cina o in quello che volete: resta il fatto che il mondo gira così e che non staremo più come stavamo un tempo. Perciò gli operai di Piombino si rassegnino e votino M5S, che almeno butta lì 600 euro al mese.
E’ evidente, pertanto, che Grillo non sta semplicemente sollevando doverose questioni sociali: la sua analisi, piuttosto, rivela una clamorosa sottovalutazione del tema del lavoro. E questo era in qualche modo inevitabile, dato che preoccuparsi del reddito in un momento di crisi economica significa curare i sintomi evitando di affrontare la causa. Con una metafora si potrebbe dire che è come consigliare a una donna che viene presa a schiaffi dal compagno di tenere in casa il Lasonil. Ed è la miglior prova che è un bene, all’opposto, che la nostra Costituzione sia fondata sul lavoro e non sul reddito.
Lo Stato come costruzione ideale dipende da esigenze molto concrete, come garantire benessere e sicurezza a tutti cittadini. Per i padri costituenti il modo migliore per garantire a tutti questo benessere e questa sicurezza, per consentire pace e ordine sociale, è evidentemente proprio il lavoro, che viene per questo incastonato all’inizio della Costituzione. L’obiettivo della piena occupazione è il senso stesso dello Stato, ciò che conferisce a una costruzione altrimenti retorica e evanescente una funzione pratica e un consenso spontaneo e democratico.
Certamente con questo non si intende dire che un sito improduttivo debba essere mantenuto in piedi indefinitamente a spese pubbliche: se Piombino fosse davvero alla fine del suo ciclo, bisognerebbe prenderne atto. Tuttavia si può dire che se i cittadini non lavorano, questo è un problema di chi governa; il quale può e deve preoccuparsi di rimuovere gli ostacoli all’impresa, promuovere l’educazione, garantire le infrastrutture, incentivare la ricerca e via dicendo. Perciò la famosa frase per cui “se il lavoro non c’è, non può essere creato” è falsa: se il lavoro non c’è, è preciso compito dello Stato attivarsi per incentivarlo, ricorrendo anche, se necessario, alla tanto vituperata spesa pubblica.
Siamo al 13% di disoccupazione non certo perché abbiamo fatto spesa pubblica, ma perché, al contrario, “non potendo svalutare la moneta, si svaluta il lavoro” (Fassina dixit); e per svalutare il lavoro occorre aumentare la disoccupazione, con lo sgradevole effetto di “distruggere la domanda interna” (Monti dixit), creare ulteriore disoccupazione e aumentare il debito. Il che dimostra che aver dato retta a chi ci diceva di mettere in secondo piano il lavoro è stata una pessima idea (piuttosto chi ci ha mal consigliato evidentemente rispondeva ad altre logiche).
E’ preoccupante, dunque, non tanto (o non solo) il fatto che Grillo ammetta con tanta distrazione le deindustrializzazione in atto e la svendita dei nostri settori produttivi; quanto il fatto che chi ha l’ambizione di guidare il paese non si preoccupi di come garantire a tutti i cittadini un lavoro qualificante e dignitoso; che non si renda conto di condividere la stessa diagnosi di quelli che vorrebbe mandare a casa; e che arrivi a mettere in discussione il principio fondamentale della nostra Costituzione, che mai come in questi tempi avrebbe bisogno di essere ribadito e sostenuto.
Il lavoro è l’anticamera per l’autonomia, il sostentamento, la creazione di un’identità e una realizzazione personale. Seicento euro senza far nulla, invece, sono solo un’elemosina per evitare disordini sociali. Sono panem et circenses, con cui distrarre la gente e riempirgli la pancia. Persino gli schiavi vengono mantenuti: ma occorre il lavoro per avere gente libera.
Andrea Giannini
Gent.mo Pierluigi,
concordo con tutto quello che scrive: mi tocca però farle notare che non sono argomenti rilevanti rispetto al tema dell’articolo. In questa sede ho trattato il rapporto del M5S (o forse, più probabilmente, di Beppe Grillo) con il problema centrale del lavoro: e rispetto a questo problema rilevo che l’analisi si può definire, sostanzialmente, “liberista” e in contrasto con “il principio fondamentale della nostra Costituzione”. Capisco che si possa essere in disaccordo con questa mia conclusione: ma non va confusa con una valutazione globale sul movimento, che certo nella sua interezza non è quella forza eversiva che spesso si dipinge (come d’altronde ho sempre scritto).
Cordialmente.
Voglio cominciare dalla fine del suo articolo: “…che arrivi a mettere in discussione il principio fondamentale della nostra Costituzione, che mai come in questi tempi avrebbe bisogno di essere ribadito e sostenuto.” Forse le sarà sfuggito ma negli ultimi mesi alcuni deputati 5 Stelle sono saliti sul tetto di Montecitorio per difendere proprio la Costituzione : in particolare l’art 138 che con un colpo di mano avrebbero voluto modificare. La nostra Repubblica è fondata sul lavoro ma non crede che proprio chi lo Stato ha rappresentato negli ultimi decenni ha fatto in modo che questo elemento fondante venisse frustrato e annichilito da politiche economiche inesistenti? E questo solo a vantaggio delle rendite finanziarie, basti pensare alla differente tassazione del lavoro ( un “bene” di lusso ) e degli investimenti in borsa . Per non parlare ovviamente dello scandalo dei vari “scudi fiscali” per un fantomatico rientro di capitali che sarebbero dovuti rientrare nel circolo produttivo ( ma ha mai visto un ladro che fa investimenti per un bene collettivo?).
Oggi che finalmente si intravede lo spiraglio di un cambiamento post ideologico, una nuova presa di coscienza che lo Stato sono i Cittadini e non le classi politiche, vogliamo addossare a Grillo l’effetto ( perdita del lavoro) di cause di una pessima politica? Concordo che il lavoro è un bene primario che crea coesione sociale ed è un diritto che va perseguito e non garantito ( non sono d’accordo con il “lavoro per decreto”) ma come mai nella maggior parte degli Stati esiste un reddito minimo garantito , ovviamente con regole rigide ma che permette di trovare reinserimenti e nuova formazione, e in Italia dovrebbe essere uno scandalo? Certo se si vuole condensare in una frase il giudizio di un Movimento che nasce non nei circoli politici ma dalla “curiosità” dei Cittadini che tornano ad occuparsi delle Loro scelte senza delegare, allora possiamo inventarci anche che il sig. Berlusconi è un santo perchè ha “rifiutato” gli arresti domiciliari per andare ad accudire gli anziani nella casa di riposo di Cesano Boscone.
Apprezzo il suo giornale ma il suo articolo mi è sembrato a dir poco “riduttivo”.
Buon Primo Maggio.
Pierluigi – Genova –