add_action('wp_head', function(){echo '';}, 1);
Il curatore Marco Goldin ha portato a Genova “Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo”, il quadro di Gauguin del valore di 300 milioni di euro
Il 12 novembre apre a Palazzo Ducale la mostra “Van Gogh e il viaggio di Gauguin”, attesissima per il livello di eccellenza delle opere esposte, e soprattutto per il prestito epocale del celeberrimo “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” di Gauguin, concesso dal Museo di Boston per la quarta volta soltanto nella sua storia, e solo per la seconda in Europa. Oltre a opere dei due grandi artisti cui la mostra dedica il titolo, saranno esposti nomi del calibro di Friedrich, Turner, Monet, Kandinsky, Hopper, Rothko. Abbiamo incontrato Marco Goldin, curatore della mostra.
Per quale motivo scegliere Genova per ospitare questa mostra?
Abbiamo firmato un primo contratto biennale con Palazzo Ducale e il programma biennale è stato dedicato a due temi centrali per Genova, il primo è il Mediterraneo (con la mostra fatta tra 2010 e 2011), il secondo è il tema del viaggio, e Genova è la città in Italia che meglio di ogni altra avrebbe potuto ospitare una rassegna dedicata all’idea del movimento, del viaggiare.
Siete riusciti a portare “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” di Gauguin, che non era quasi mai stato spostato dalla sua sede a Boston, fino a Genova. Come avete fatto? Come si dispiegano le forze per ottenere un pezzo così straordinario?
Un lavoro di rapporti, confidenze, fiducia nei miei confronti da parte del museo di Boston, col quale collaboro personalmente da diversi anni; loro hanno prestato e stanno continuando a prestare alle mostre che faccio molti quadri importanti. È stato un lavoro diplomatico ai fianchi, perché era già un azzardo anche solo pensare che questo prestito potesse andare a buon fine.
Quando ho messo in piedi questo progetto sul viaggio (oltre due anni fa) ho pensato subito a questo quadro, ho coltivato per qualche mese l’ambizione di chiederlo. Poi ho pensato di non farlo perché mi sembrava una cosa troppo complicata, l’avevano concesso in Europa una sola volta in un secolo -quindi questo dà già il senso dell’eccezionalità del prestito- ed era stato circa dieci anni fa in una mostra dedicata a Gauguin nella Polinesia, prodotta dal museo di Boston insieme al Grand Palais di Parigi e che poi è andata a Boston, quindi un’occasione molto speciale, poi non è stato più concesso in Europa e solo un paio di volte negli Usa.
Per molti mesi ho accantonato l’idea fino a che, un po’ più di un anno fa, ho detto “ci provo” e sono cominciati alcuni viaggi a Boston, anche per altri quadri che mi servivano (qui alla mostra di Palazzo Ducale ci saranno, del Museo di Boston, due quadri di Monet – un ponte giapponese e una versione delle ninfee – e un meraviglioso quadro di Van Gogh a Auvers, uno degli ultimissimi dipinti dell’artista olandese). Poi loro sono venuti in Italia all’inaugurazione della mostra “Mediterraneo”, e insomma, il mio proposito è diventato realtà.
Contano il rapporto di fiducia e naturalmente anche poter rischiare dal punto di vista economico per un prestito assolutamente oneroso: la sola assicurazione ci costa 300.000 euro, il quadro ha un valore di 300 milioni di euro, non ho mai avuto un quadro così costoso in tutta la mia attività, e ci costa circa 200.000 euro farlo venire qui, per il trasporto speciale, la scorta armata che lo seguirà da Boston all’aeroporto di New York, una cassa speciale di 6 metri per contenerlo. Ci ha aiutato uno dei due principali sponsor della mostra, Unicredit, che ha aderito alla mia richiesta di aiutarci a pagare le spese di trasporto e assicurazione.
Come prendono forma le vostre mostre? Viene prima l’idea, il tema, o può a volte essere un’opera a suggerire il dipanarsi del filo rosso su cui si imposta la mostra?
Le mostre che curo nascono sempre da un pensiero, molte volte da un’emozione. Alcune sono nate dentro di me viaggiando, molto spesso quando visito dei musei per dei prestiti specifici per una mostra che sto organizzando, guardando opere di altra natura che magari non c’entrano niente con la mostra, nascono emozioni diverse, nascono prime pagine di appunti. Ho quaderni che riempio, quando giro per il mondo, con piccoli pezzi di poesie, sensazioni davanti a un quadro, o davanti a paesaggi lontani da quelli della mia terra. Quindi ci sono tante cose che crescono anche così, improvvisamente, inaspettate e da queste nascono mostre. Progetti allo stato embrionale ne ho tanti in questi fogli sparsi, poi bisogna però rendere concreti questi progetti, certo l’idea è determinante, ma poi la concretizzazione avviene attraverso i prestiti delle opere, e questo è l’aspetto veramente complicato.
Il motivo conduttore dell’esposizione è il viaggio, naturalmente non solo materiale, spaziale, ma anche e soprattutto interiore. Il viaggio interiore è qualcosa che richiede coraggio e grande onestà con se stessi, qualcosa che oggi spesso si fugge. Si preferisce guardare fuori. La mostra culmina nel climax della stanza buia in cui campeggia “Da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo”: sono i quesiti assoluti, quelli che hanno accompagnato tutta la storia dell’uomo con la loro forza dirompente. Pensa che il tema della mostra riuscirà a portare lo spettatore, oltre la mera fruizione estetica, a guardarsi dentro?
Questa è sempre stata la mia ambizione come curatore – c’è chi anzi mi accusa di portare il visitatore troppo verso questo aspetto – anche con gli spettacoli che scrivo e che da tanti anni ormai portiamo in giro nei teatri italiani. Per me è importante, e vedo che la gente reagisce benissimo a questo tipo di approccio rispetto all’arte, portare lo spettatore in contatto con la propria anima più profonda.
Direi che questa mostra dedicata al tema del viaggio lo fa in misura straordinaria, forse tra tutte le mostre che ho fatto non ce n’è un’altra che più di questa possa arrivare a toccare quel punto segreto, profondo, lontano che mette in contatto la nostra quotidianità col tempo primo del mondo. Per me questa è veramente l’ambizione massima, anche perché mi piace molto lavorare su una sorta di grande intreccio, di grande armonizzazione tra la parola, l’immagine, la musica, anche il pensiero filosofico sicuramente. Io credo che la gente abbia molta voglia di questo, e che la semplice nozione di carattere accademico non sia sufficiente.
Gli storici dell’arte si possono forse accapigliare su un’unghia marrone o gialla di Veronese, di Tintoretto, di Rembrandt, sono però temi che possono interessare non dico nemmeno a tutti gli storici dell’arte, forse a una parte. Io credo invece che la pittura debba essere detta e raccontata in un modo che deve assolutamente essere comprensibile per le persone; chi fa il mio mestiere ha un compito straordinario che è quello di porgere la Bellezza alle persone che vengono a vedere le mostre, con un linguaggio piano, chiaro, semplice, fluente e questo si fa non soltanto parlando della tecnica dei pittori, dei movimenti artistici, delle successioni nella storia dell’arte, tutto importantissimo ovviamente, ma tutto ciò dev’essere mescolato per far sì che le persone vadano ad incontrare le cose e non se ne sentano respinte.
Nel 2010 la cultura (musei, teatri, musica, cinema) ha generato valore per 40 mld di euro in Italia, a fronte di un investimento da parte dello Stato di 1,5 mld (dati Repubblica). Sono più i biglietti venduti per il teatro che per il calcio. (Con la differenza che la cultura produce non solo ricavi ma anche valore sociale. I paesi del Nord Europa hanno moltiplicato gli investimenti nella cultura in risposta alla crisi, sapendo che a lungo termine tali investimenti pagheranno). Cosa pensa del fatto che qui ci si ostini a considerare istruzione e cultura come uno dei primi campi (un’opzione) cui tagliare fondi invece che come un bene imprescindibile?
Be’ la risposta è ovvia per chi fa il mio mestiere e per chi crede fermamente, anche mettendoci denaro proprio, in una visione della cultura aperta, libera, di confronto, di nuova conoscenza, quindi la posizione a me, come a tantissime persone, pare assurda. Come giustamente detto, la cultura non produce soltanto un valore che è sociale, che è arricchimento delle persone, che è incontro, che è conoscenza, ma produce anche ricchezza economica, quindi non arrivo a comprendere fino in fondo perché ci sia questa diabolica necessità di andare a tagliare sempre e soltanto questo aspetto della nostra vita.
Una miopia assoluta credo, i dati però sono sotto gli occhi di tutti, quindi è difficile immaginare -se non secondo l’antica logica per cui per la politica la cultura sia qualcosa che non interessa- perché ci sia questa situazione, perché in realtà ormai lo vediamo tutti, il teatro piace, la musica piace, i festival che si fanno ovunque, dalla filosofia, alla scienza, alla storia sono sempre pieni di decine di migliaia di persone, le mostre pur in un momento di difficoltà continuano a essere punti di attrazione, i musei pure, anche se in Italia forse avrebbero bisogno di una rilucidatina (però speriamo che prima o poi ci si possa arrivare).
Purtroppo non possiamo che constatare questa situazione con la speranza che presto si possa effettivamente cambiare registro. Non so nemmeno se si guardi al breve termine: tutte le ricerche delle università, Bocconi in testa, hanno dimostrato che la ricaduta economica di un avvenimento culturale sul territorio è molto importante, e in effetti sentiamo levarsi le voci delle varie associazioni di categoria che chiedono con forza che le città possano predisporre degli eventi culturali. Questi hanno una durata di quattro, cinque mesi, ciò vuol dire che quasi metà dell’anno è occupata da un evento che può richiamare tante persone che devono mangiare, dormire, acquistare… Quindi non è una visione miope solo in prospettiva, ma anche nell’immediatezza.
Certo senza programmazione non si fa assolutamente nulla. Una mostra come quella che apriremo fra poche settimane ha avuto bisogno di oltre due anni di lavoro, quindi non si può pensare di fare tutto nel giro di due mesi. Le mostre, soprattutto quando sono di questo livello, hanno bisogno di un tempo lungo di preparazione e bisognerebbe fare una cosa che purtroppo in Italia non si fa mai: programmare. Questa è una cosa che la stessa politica mostra di fare in modo piuttosto labile, è una tradizione italiana da sempre, non sto parlando di destra o sinistra. Non abbiamo proprio questa cultura.
Ricordo un aneddoto personale che si è ripetuto infinite volte quando una quindicina di anni fa iniziai a fare esposizioni di carattere internazionale, quindi a fare i primi giri nei musei europei e americani. Ero sconosciuto ovviamente, e venivo da una cittadina di provincia, insomma tutte le condizioni peggiori per iniziare a fare questo lavoro, e avevo l’aggravante di essere italiano, una cosa che tutti quelli che fanno il mio mestiere vivono sulla loro pelle: essere italiano vuol dire che non garantisci la necessaria serietà nel lavoro e soprattutto che ti trovavi a fare le richieste di prestito per un quadro anziché i due, tre anni prima canonici nel mondo internazionale, magari cinque, sei mesi prima, e ti dicevano “il solito italiano che non è capace di programmare”. Purtroppo è un aspetto che ci contraddistingue e mi pare che ancora adesso sia così.
Il quadro generale in Italia è desolante attualmente. Chi è giovane e guarda davanti a sé vede un futuro che definire incerto e aleatorio è un eufemismo. Molti ci consigliano di fuggire all’estero, ma è un consiglio che, nemmeno troppo implicitamente, racchiude la convinzione che non ci sia speranza alcuna. Lei cosa direbbe a proposito?
Credo di avere un buon osservatorio perché rappresentando una realtà abbastanza importante nel mondo dell’organizzazione delle mostre (anche se siamo una piccola azienda, quindici persone che lavorano con me) riceviamo decine di richieste ogni mese per venire a lavorare con noi. Effettivamente gli sbocchi per i giovani, penso anche al campo della cultura in senso generale, non sono molti. Servirebbe la possibilità di far aprire piccole cellule, piccole società, piccole realtà che possano fare questo tipo di lavoro. È difficile, però bisogna provarci.
di Claudia Baghino
Commento su “Marco Goldin porta a Genova Monet, Van Gogh e Gauguin”