Patrizio racconta sé stesso, la sua scrittura e la passione per i bar, luogo d'ispirazione o meglio «l'estensione del salotto, la camera che non hai...»
Patrizio Pinna, scrittore genovese classe 1968. E’ vegetariano e vive senza televisione da oltre 15 anni… Le sue grandi passioni sono Frank Zappa, Tom Waits, Bjork, gli Smiths e i scrittori contemporanei americani (in particolar modo la Beat Generation). Adora i bar e le atmosfere che si creano con i gomiti sul bancone e la mente che prende il largo… Scrive quasi esclusivamente di notte e si occupa principalmente di romanzi autobiografici e romanzi demenziali. La sua opera d’esordio “Mitote” (Chinaski Edizioni, novembre 2004), nasce dopo un sogno e regala a Patrizio visibilità e consensi.
Oggi lo scrittore genovese ha deciso di curare personalmente la produzione e la distribuzione delle proprie opere.
Cos’è la memoria per te? Io mi difendo dalla memoria nel senso che non la alimento. Ho parecchie cose che potrebbero crearmi dei problemi ma vengono automaticamente rimosse. Ho pochissima memoria e questo è il mio meccanismo di difesa.
Dove cerchi le tue idee? Non c’è bisogno… L’autobiografico è autobiografico… Puoi romanzare, puoi fare un tuo collega più rock n roll di quello che sarebbe, un personaggio femminile diventa spaziale…
Quindi tutto quello che hai scritto è autobiografico? No, i romanzi demenziali non sono autobiografici. Ne ho scritti tre, poi magari sono considerabili demenziali anche gli altri…! “Libro Maria” (1996), “2001 odissea alla fiera della mescolanza genetica” (2001) e “The book of cool” (2009). In quest’ultimo caso mi prendo per il culo da solo, nel senso che sono credenze metropolitane e belinate che proponevano a me da piccolo… mia nonna ad esempio non voleva che si bevesse acqua dopo la banana!
Cosa è che ti ispira… un posto, una situazione, qualcosa che fai e che sai già che ti ispirerà… Io adoro i bar. Mio padre era un frequentatore quando ancora esistevano i bar di quartiere dove si passava gran parte dell’esistenza, è un’estensione del salotto è la camera che non hai…
I tuoi riferimenti letterari? Mi piace la gente che scrive della propria vita. Henry Miller ha dato il bianco e così Ernest Hemingway, anche se ha ucciso tantissimi animali e essendo io vegeteriano è una cosa che mi infastidisce. Poi Jack Kerouac, piccino… lui aveva anche problemi seri. Finché non hanno deciso di togliersi dai giochi hanno avuto una vita realmente rock n roll. Io non riesco a leggere i romanzi…
Mettiamo caso che tu potessi scegliere di passare una serata al bar con uno di questi scrittori, chi sceglieresti e come te la immagini? Al bar Kerouac, assolutamente. Immagino una serata allucinante di quella da devastazione totale… E non ne dico altri perché sarebbe troppo per il mio fisico, con Kerouac almeno fino alle dieci e mezza potrei resistere!
Dovessi chiederli una cosa? A Kerouac?! Beh di pagarmi da bere!
Marcello Cantoni
Se stavo sognando non ne avevo l’impressione, per questo, quando la vidi, rimasi senza fiato. Una Lancia Fulvia HF rossa, da Rally, preparata proprio come ricordavo e posteggiata malamente in seconda fila.
Non poteva essere vero.
Ne seguii con la mano la sagoma lucida, fino ai bordi leggermente frastagliati degli elefanti che riposavano correndole sui fianchi. Più bassa di quel che mi sarei aspettato, in miniatura quasi. Il mio sguardo per la prima volta la superava, oltre la lunga antenna dell’autoradio che disegnava una curva fino alla fine del tetto, come non ne fanno più. La toccavo in punta di piedi, un tempo, facendola rimbalzare sul suo grande mollone. La vetroresina era ruvida e provocava un affascinante fastidio, come il velluto dei pantaloni a zampa che ero costretto a indossare.
Le girai intorno con la sensazione d’aver bevuto e, temporeggiando sulla soglia per evitarne la dissolvenza, mi accesi una sigaretta portandomi direttamente alla bocca un pacchetto di francesi senza filtro che non avrei nemmeno dovuto avere.
Le stesse che se lo portarono via.
Aspirai quel fumo pesante come un macigno senza spingermi oltre in quel ragionamento, quando, inspiegabilmente, lo vidi. Salì i tre scalini che separavano il bar dal marciapiede come se non ci fosse nulla di strano, vestito esattamente come ricordavo. Un paio di pantaloni grigi con un ampio risvolto, una camicia chiara dal lungo colletto, cravatta e doppiopetto blue. Non riuscii a mettere a fuoco le scarpe, d’altronde, non lo facevo nemmeno da bambino.
Il fascino vintage di quell’abbigliamento, un tempo economico, gli conferiva un’aura dandy che non mi sarei mai aspettato, sebbene portasse ancora (o forse dovrei dire già) un anello al mignolo.
Non avevo mai notato la sua somiglianza con Chet Baker prima di allora.
Reggeva una sigaretta mezza consumata tra le dita e, scavate in volto, profonde rughe da deportazione. Restai immobile accanto alla macchina, fissandolo senza il timore che forse avrei dovuto provare, in attesa di un suo cenno, di una parola, di una spiegazione forse, o semplicemente di un abbraccio, come uno di quelli di cui non possedevo più nessuna memoria. Semplicemente attesi, proprio come mi aveva insegnato, ma senza bicchiere in mano. Terminata la sigaretta se ne portò un’altra alle labbra e accettò la fiamma da quell’accendino d’argento che un tempo era stato suo.
Ebbi un brivido, ma le parole mi si congelarono in gola. Restai immobile sul marciapiede, avvolto dalla stessa nuvola azzurra di nicotina che un tempo mi provocava mal di testa, fino a quando, con un sorriso appena accennato, non risalì in macchina restituendo alla realtà i suoi monotoni contorni. Ascoltai il motore tossire rauco, come faceva lui la notte senza nemmeno rendersene conto, finché non si perse, di nuovo, chissà dove.
Cercai di capire come avesse potuto non riconoscermi, poi, accendendomi un’altra di quelle sue sigarette micidiali, realizzai…
Non ero più il suo piccolo, ero cresciuto e c’era un posto per me da qualche parte là fuori.
Oltre il bancone di quel bar.