Il crollo è stato un'accelerazione della storia. La polvere ora si è posata, ma al di là del ponte non c'è più nessuno
Come un mantra, fin dai primi istanti post crollo, l’idea che Genova sarebbe stata capace di rialzarsi è stata proposta, ripetuta e imposta costantemente. Una sorta di ipnosi collettiva, le cui radici traumatiche ne hanno blindato l’opportunità e la credibilità. In molti hanno cavalcato o si sono rifugiati, più o meno consciamente, in un orgoglio posticcio innestato su di un’identità cittadina che non esiste. O che, per lo meno, non esiste più.
A quasi due mesi dai fatti, interiorizzato il lutto, esaurito il teatro della tragedia, la polvere ha iniziato a posarsi sulle macerie, rivelando lo scenario che ci circonda: questa volta Genova non si rialzerà.
Giù il ponte, su il sipario. Una delle più evidenti differenze con altre catastrofi contemporanee è stata la spettacolarizzazione della tragedia: mentre la comunità internazionale s’interrogava su come poteva essere possibile che in Italia, saldamente tra le fila del primo mondo, in una delle sue città tra le più grandi e importanti a livello economico e culturale, un siffatto ponte potesse crollare su se stesso, le istituzioni locali e centrali mettevano in scena il teatro del dramma. Slogan e chiacchiericcio, alla faccia degli appelli al silenzio (leggi pensiero unico), il cui apice è stato l’evento a De Ferrari ad un mese dalla tragedia, dove il dolore di una città è stato brandizzato e messo su di un palco: prima l’enfatizzazione e la commozione “recitata” per le vittime (tutte, senza ritegno e rispetto per chi aveva scelto di non essere messo nella parte per i precedenti funerali di stato), poi la celebrazione trasversalmente condivisibile e indiscutibile per chi nella tragedia ci ha messo le mani, gli eroi, alla quale si è agganciata la sfilata dei rappresentanti politici delle istituzioni, che hanno celebrato quanto fatto, sventolando decreti e provando a corresponsabilizzare la platea: “Io ve lo giuro, e voi lo giurate con me, che questa città riavrà il suo ponte – ha gridato il governatore Toti dal palco – ricostruiremo un ponte bellissimo e ci passeremo sopra insieme”.
Il giuramento dell’ovvio. Come ovvi e dovuti dovrebbero essere i provvedimenti messi in atto nel post tragedia, dalle case agli sfollati agli interventi sul trasporto pubblico, dagli aiuti economici e fiscali alla viabilità. Ci sarebbe da stupirsi del contrario: questo dovrebbe essere considerato il minimo per uno Stato, corresponsabile di questa tragedia, essendo “proprietario” dell’infrastruttura e responsabile della salute pubblica delle persone che almeno sulla carta rappresenta, in base al patto sociale fondativo delle istituzioni stesse.
si è giocato al ribasso, economicamente e politicamente, e ci si è lasciati precedere da quel “prima o poi succede”, che talvolta succede veramente
Responsabilità a tutti i livelli. Se giuridicamente esistono diverse ricadute, la responsabilità morale e politica della classe dirigente locale e nazionale, degli ultimi decenni fino ad oggi, non può essere dimenticata. Il ponte era sotto gli occhi e piedi di tutti, e tutti sapevano che c’erano dei problemi. Gli strumenti per “alzare la mano” e fare qualcosa, o pretendere qualcosa, c’erano: sono molteplici gli organismi inter-giurisdizionali che da anni si riuniscono per discutere di sicurezza, infrastrutture e lavori. Con tecnici dello Stato, di Regione Liguria e di Comune di Genova. Certo, chi si sarebbe preso la responsabilità politica (ed economica) di far chiudere un ponte che oltre al traffico autostradale faceva da tangenziale e da collegamento tra le due parti del porto? L’accelerazione dei lavori della viabilità a mare degli ultimi anni, con la Guido Rossa inaugurata nel 2015 e i lavori per il nuovo Lungomare Canepa iniziati nel 2016 con i primi interventi a San Benigno, e i primi progetti di riorganizzazione dei caselli autostradali post Gronda che prevedevano Genova Aeroporto con casello di testa, scoraggiando l’utilizzo dell’ultimo tratto della A10, ponte compreso, possono forse essere letti come una volontà di predisporre una alternativa al “grande malato”. Ma, nel caso, si è giocato al ribasso, economicamente e politicamente, e ci si è lasciati precedere da quel “prima o poi succede”, che talvolta succede veramente. Inaccettabile.
Questa drammaturgia di facciata ha trovato il suo epilogo nelle briciole del decreto legge emanato dopo una gestazione tormentata dal governo giallo-verde, che per settimane ha dialogato con le giunte azzurro-verdi di Regione e Comune; un documento, da subito orfano, che ha saputo scontentare tutti e che ha messo nero su bianco come nulla, nei fatti, fosse cambiato. Non solo per la quantità delle risorse messe sul tavolo, ma, e soprattutto, per la provenienza delle stesse: tutte le coperture derivano da fondi già di comparto, non un euro è stato spostato da altre voci di bilancio. Anzi, i milioni che arriveranno a Genova saranno tolti ad altre città.
Dei 290 milioni messi a bilancio dal decreto, solo 108 sono “freschi”, cioè realmente aggiunti sul piatto, mentre i rimanenti derivano da una sospensione fiscale. E poco importa se queste cifre cresceranno di qualche decina di milioni, anche fossero i 140 milioni indicati da Bucci: la natura esclusivamente risarcitoria del provvedimento servirà a poco per una vallata, e per una città, che il 13 agosto era già in profonda crisi. Economica, culturale e sociale.
Evidentemente le priorità della politica sono altre: nel 2018 la spesa italiana della difesa aumenterà quasi del 10% arrivando a 25 miliardi all’anno, cioè 185 volte il “Decreto Genova”, che vale più o meno come un chilometro di Terzo Valico, giusto per avere delle proporzioni. Genova, come molti altri territori del nostro paese, dovrebbe essere sommersa da una valanga di investimenti per la messa in sicurezza del territorio, per la riconversione degli spazi urbani, per la manutenzione del costruito, per la diversificazione dell’economia, per la creazione di un benessere condiviso e di una giustizia sociale che possa garantire una vita degna, sana e libera a tutti.
E poi il pasticcio del Commissario: con ogni evidenza, viste le tempistiche e la genesi sofferta, la nomina del sindaco a commissario per la ricostruzione è una nomina di compromesso politico, e come tale per nulla rassicurante. L’istituto stesso della figura commissariale, normato dalla legge 400 del 1988, nacque dalla resa delle istituzioni di fronte ai meccanismi amministrativi dello stato stesso, che in emergenza vanno in tilt: un escamotage la cui ratio fu proprio quella di sottrarre ai labirinti politici le situazioni di urgenza; tornare ad una nomina politica, quindi, completa il giro del fallimento delle istituzioni: Genova oggi avrebbe bisogno di un sindaco a tempo pieno e di un commissario a tempo pieno, non di un accentramento di responsabilità, e quindi di un imbuto, che durerà anni, per riportarci, forse, all’assetto del 13 agosto. Anni che saranno inoltre caratterizzati da una campagna elettorale permanente, che non si farà scrupoli di strumentalizzare il dramma genovese, da una parte e dall’altra: europee nel 2019, elezioni regionali nel 2020 e forse la rincorsa per le prossime amministrative del 2022. Buona fortuna e buon lavoro, prepariamoci.
Ma se Genova non si rialzerà, sarà soprattutto per la mancata reazione della comunità genovese. Dopo il crollo di un ponte, anzi del Ponte, la prima manifestazione di protesta è arrivata a 55 giorni dai fatti, portando in piazza poco più di tremila persone, a fronte delle decine di migliaia che ogni giorno, dal 14 agosto, subiscono sulla loro pelle tutto il dramma di una città sospesa, sprofondata. Troppo poco, per non preoccuparsi.
Un ponte ha un destino binario: o sta su, o sta giù. Il Morandi è andato giù, e tutti sappiamo che poteva andare peggio nella conta dei morti, molto peggio.
Un corpo che attaccato da agenti patogeni sviluppa febbre, è un corpo sano, che, seppur infetto, funziona; viceversa una risposta apiretica deve destare allarme. Un ponte ha un destino binario: o sta su, o sta giù. Il Morandi è andato giù, e tutti sappiamo che poteva andare peggio nella conta dei morti, molto peggio. Potevano esserci mariti, mogli, figli, parenti, colleghi, amici di tutti noi lì sopra, e lì sotto. I genovesi non si sono arrabbiati per questo, e Genova è rimasta li a giacere nelle sue macerie tristi.
Dopo quasi due mesi alcune parti della comunità “stanno perdendo la pazienza”, a fronte di una viabilità impazzita, di presidi sanitari persi, di mancata chiarezza. Ma la pazienza doveva finire il 14 agosto alle 11,36, quando il fallimento politico e istituzionale della gestione del territorio si è palesato nella maniera più evidente. Cosa di peggio deve succedere per far salire la febbre? Genova non si è mai fermata, ma avrebbe dovuto farlo, subito.
Il crollo di Ponte Morandi, e la reazione politico-istituzionale ad esso conseguente è solo una accelerazione della Storia, la cui direzione è nota. E il fatto che non esistano movimenti, qualsivoglia parti politiche, o anche sindacati (forse troppo occupati oggi a difendere un modello economico fallimentare) che sappiano condensare una alternativa, lasciando abbandonati a se stessi gli individui, è spaventoso. Le macerie siamo noi: la polvere si è posata, e al di là del ponte non c’è più nessuno.
Nicola Giordanella