Pittore, docente e presidente dell'Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, autore degli arazzi che ornano il foyer del Teatro Carlo Felice. L'artista bogliaschino si racconta...
Raimondo Sirotti è nato a Bogliasco nel’34. Alla pittura e alla ricerca artistica ha sempre affiancato l’attività di docente, prima al liceo e poi presso l’Accademia di Belle Arti di Genova, di cui è stato successivamente vicedirettore, direttore e per la quale oggi ricopre l’incarico di presidente. È l’autore degli arazzi che ornano il foyer del Teatro Carlo Felice, e suoi sono diversi interventi sul patrimonio artistico genovese. Ha lavorato alla decorazione degli interni di grandi navi, e ha realizzato opere per edifici pubblici di Genova, Chiavari, Camogli, Bogliasco. Per dieci anni è stato anche sindaco della natia Bogliasco. A lui Edoardo Sanguineti ha dedicato un sonetto nel 2005.
Abbiamo intervistato il pittore nella sua casa di Bogliasco. Lo studio dà su un bellissimo e raccolto giardino; il gatto, “che a volte ha combinato qualche disastro qui in studio”, salta su e giù dal divano mentre discorriamo. Fuori, il silenzio tiepido di un mattino d’autunno in riviera: la stessa luce e gli stessi colori che escono dai suoi quadri e dalla sua arte.
Un po’ di storia, dai primissimi inizi a quando ha capito che dell’arte voleva fare un mestiere…
«Mio padre mi aveva iscritto a ragioneria all’istituto Tortelli, perché c’era già mio fratello che frequentava il liceo artistico, quindi poteva sembrare un po’ esagerato che due figli su due volessero fare gli artisti; fortunatamente ci fu l’incontro con un docente di lettere che vedendomi disegnare convinse mio padre. Non ci fu nemmeno bisogno di insistere troppo, devo dire che fu davvero molto comprensivo, e passai al liceo artistico. Poi, quello che serve è la voglia rabbiosa di chi ha intenzione di fare un certo tipo di lavoro di cercarsi le solidarietà giuste nei docenti e nei compagni, compagni con cui si condivide e ci si fomenta a vicenda, e quindi lievita la voglia di perseguire questo obiettivo. Come ho detto, bisogna farlo quasi con rabbia, bisogna essere convinti, non avere indecisioni e farsi prendere dalla pittura. O forse è la pittura che ci prende fin dalla nascita. Non so, può darsi che sia già un germe dentro di noi».
Ancora oggi chi decide di vivere di arte o di musica viene visto leggermente come outsider… all’epoca come venivate visti dalla generazione precedente?
«Un po’ strani, come d’altronde è sempre stato visto l’artista. Quando per anni sono stato sindaco di Bogliasco, i giornali parlando di me scrivevano “il sindaco pittore” mentre se uno è ingegnere, geometra o altro non scrivono “il sindaco geometra”: questo dà la misura di come l’artista sia considerato fuori dal normale. Forse è anche colpa, o merito, dell’artista che in fondo vuole essere fuori da certi schemi. Per me dipingere, vivere al cavalletto momenti che ho già vissuto sono come un liberare dei sentimenti, delle voglie. Alla fine, è una voglia di libertà».
Nel suo percorso, come molti genovesi, è andato a Milano, dove chi guardava i suoi quadri le diceva “si vede che sei ligure”… cosa intendevano?
«Altri compagni di scuola erano già andati, io li raggiunsi. All’epoca Milano era, in Europa, una delle città più vive di fermenti artistici, con un dibattito dialettico apertissimo tra la forma geometrica e la non forma; per mio essere mi sono orientato verso l’informale. In questo tipo di pittura si va sul colore, si fanno dei gesti (componenti principali dello stile informale sono la gestualità e il colore, n.d.r.)… e così veniva fuori la mia natura. Siamo tutti condizionati dagli ambienti in cui viviamo, e qui c’è un condizionamento dei luoghi talmente forte che basta una pennellata di bianco per capire che è stata data da uno che ha assorbito i nostri climi».
Il legame con la nostra terra sembra essere molto forte in tutti gli artisti liguri, mi viene in mente anche la scuola cantautorale genovese per esempio…
«Credo che tutti, non solo i liguri, siano influenzati dal contesto. Ma il sapore della nostra luce ligure è qualcosa di veramente penetrante, che ci condiziona sempre. Giustamente ricordava i cantautori, certamente questo elemento è presente anche presso di loro».
Come nascono le sue opere? È qualcosa di meditato interiormente e poi esplicitato in immagini o la costruzione avviene direttamente sulla tela?
«Ormai ho un processo mentale acquisito che deriva dalla tanta pratica. Quando mi metto davanti a un albero, evidentemente, anche senza rendermene conto, il processo formativo dell’immagine è già dentro di me. Ciò significa che io vedo già l’albero come lo farò. Ho detto albero perché mi sono avvicinato alla natura, dopo aver fatto tutto il percorso dell’informale, onde evitare di finire in un accademismo di cui avevo sincero terrore. La natura mi ha dato la possibilità di fare cose nuove utilizzando l’esperienza che avevo accumulato con l’informale. Spesso quando mi pongo di fronte alla natura creo degli appunti su cui lavorare, e spesso lavoro su fotografie. Ma quando poi vado in studio e sono davanti al cavalletto, devo lavorare soprattutto sulla memoria di quello che ho visto. Altrimenti sarebbero soltanto banali ingrandimenti di un’immagine più piccola».
Più di cinquant’anni di attività… cosa la emoziona ancora abbastanza da portarla davanti alla tela? Non si corre il rischio di ripetersi o annoiarsi?
«Un momento di stanchezza può capitare. Mi succede per esempio di buttare all’aria un quadro che la sera mi sembra andare bene e invece la mattina dopo, sceso in studio, non mi soddisfa più. Ma è proprio questo che mi spinge davanti alla tela, tornare sulle cose, cambiandole e inventandone nuove. Lavorare sempre di certo rischia di far cadere nella routine, ma avviene che di fronte al momento di stanchezza ci sia uno “scatto”, ed è lì che il quadro matura, giunge a completamento. Se no il resto è preparazione, quasi un pregustare… a volte mi viene in mente di mettere una cosa in un quadro, e non la metto, aspetto, come lasciarsi il dolce per la fine del pasto, e il massimo godimento è quando poi inserisco quel particolare, alla fine».
E se qualcuno guardando una sua opera percepisce qualcosa di completamente diverso da quello che aveva dentro quando l’ha realizzato?
«Questo capita ed è capitato non tanto sul piano di ciò che io volevo esprimere, quanto sul piano della piccola forma. Faccio un esempio banale: qualcuno legge magari una figura laddove una figura non c’è. E devo dire che la mia pittura ha anche questa possibilità di lettura, ci si possono vedere delle cose diverse.
D’altronde dal momento in cui l’arte ha smesso di raccontare i fatti, la storia, la sua vicinanza alla musica si è fatta sempre più forte: nella musica uno può pensare cose sempre diverse, e così nell’arte, nella pittura quando non è più legata alla funzione descrittiva».
Lei ha insegnato per molti anni: qual è la cosa più importante che ha insegnato ai suoi studenti, e cosa ha tratto invece da loro?
«Credo che una delle doti più autentiche e utili di un docente sia l’onestà intellettuale. Far dipingere gli studenti scimmiottando per esempio Pollock può essere divertente per un po’, ma non insegna niente. Ho sempre detto ai miei allievi che l’esercizio quotidiano, il saper disegnare, il saper dipingere sono il lasciapassare per ogni tipo di libertà, perché se uno decide di fare una certa cosa quando ha tutti gli strumenti in mano, decide con coscienza e sa che è una scelta; se invece parte con una limitazione nel fare, è chiaro che quella è l’unica strada che ha, non potrà più cambiare e non sarà più libero di decidere.
Dagli studenti ho tratto moltissimo. Sembra un luogo comune, ma è vero che nella vita c’è sempre da imparare, da tutti. Nei giovani c’è voglia, vivacità intellettuale e soprattutto curiosità».
Cosa si sente di dire a un giovane che vuole fare arte oggi?
«Credo che le istituzioni preposte alla formazione artistica debbano cercare assolutamente il rapporto con l’esterno: se la scuola chiude le porte, quando le apre per far uscire chi ha finito il ciclo di studi finisce per sbatterlo in mezzo alla strada, quindi è giusto che si facciano lavorare i ragazzi già durante la formazione, che ci siano coinvolgimenti esterni. Questa è la strada».
La pittura oggi ha ancora un senso? Molti giovani artisti che usano tecniche diverse definiscono morta la pittura.
«Se io mi esprimo è ovvio che dica che nella pittura ci ho sempre creduto e ci crederò sempre. Se dipingo è perché ci credo fino in fondo».
Claudia Baghino
[foto di Daniele Orlandi]
Commento su “Raimondo Sirotti, una vita in pittura: incontro con l’artista ligure”