add_action('wp_head', function(){echo '';}, 1);
I ragazzi dell'Accademia Ligustica di Belle Arti guidati da Simona Barbera sono in mostra alla Sala Dogana di Palazzo Ducale, con una serie di lavori che mettono al centro il territorio e il rapporto con l'uomo
La nuova esposizione ospitata da Sala Dogana fino al 10 marzo, dall’evocativo titolo “Our Possession, Unseen” dà spazio questa volta ai ragazzi che studiano all’Accademia. A guidarli in un’esperienza di ricerca artistica legata profondamente al territorio è stata Simona Barbera, docente di installazioni multimediali presso l’Accademia ma soprattutto artista a sua volta. «Lavorare tenendo sempre presente l’idea di ambiente e con un occhio attento allo stato attuale delle cose, non rinunciando però agli aspetti della realtà legati al magico, alle sottoculture, a generi espressivi diversi come musica, cinema, fotografia, che entrano nell’arte in maniera underground – racconta – può spiegare il titolo del progetto che abbiamo realizzato».
I ragazzi scelti per la mostra sono My Lothe, Ronny Faber Dahl, Federica Montrucchio, Sofia Desideri, Francesca Migone, Francesco Manias, Alice Porotto, Bjørnar Johnsen.
Come hai scelto i ragazzi che partecipano all’esposizione con i loro lavori?
«Io insegno all’Accademia con un corso-progetto, ciò significa che devo indirizzare i miei studenti nello sviluppo del loro percorso individuale; ho l’occasione di lavorare con ragazzi davvero giovanissimi, di 19-20 anni, a volte i percorsi maturano, a volte invece, per un fattore legato alla timidezza che crea problemi nell’esporsi di fronte a un pubblico, il lavoro non riesce a essere portato a termine. Quindi i ragazzi sono stati scelti nell’arco di due anni, e ho cercato di individuare i lavori più maturi, che hanno trovato una loro “via” e soprattutto un rapporto con la teoria critica. Abbiamo infatti lavorato moltissimo sullo sviluppo di temi e soggetti con riferimento alla società: chi è riuscito a seguire meglio questo percorso è stato scelto per formare questo primo gruppo. Probabilmente ce ne saranno altri».
Come si riassume tutto questo nel titolo “Our possession, unseen”?
«La frase ha più riferimenti. “Our” perché mi interessava l’idea di “unire” e “unirci” e mi sono ispirata a uno dei progetti più importanti a livello curatoriale – anche se io non sono esattamente una curatrice quindi mi pongo più da artista in questo senso – che è “When Attitudes Become Form” di Harald Szeemann (storica figura di curatore indipendente, n.d.r.) che rappresenta un importante manifesto curatoriale e un certo modo di stare insieme e lavorare in gruppo: quell’esempio mi ha portata a concepire quest’esperienza come una sorta di collettivo perenne. “Possession” in quanto abbiamo lavorato sulla questione legata al possesso relativamente al territorio, all’uso che si fa degli spazi, alla fruizione individuale che se ne ha, e in questo caso ci siamo posti in una dimensione di “dispossession” continua (esproprio, n.d.r.), cioè non poter abbracciare qualcosa che ci sfugge (“unseen”), a causa dell’urbanizzazione estrema da un lato, del degrado del paesaggio locale dall’altro. Devo dire che tantissimi studenti dell’Accademia hanno questa tensione verso una sorta di sconforto e rapporto conflittuale con gli spazi, più di altri. Per esempio i ragazzi norvegesi (degli otto selezionati tre sono appunto norvegesi che studiano qui) lavorano su altri aspetti più intimi e ancestrali, facendo emergere un rapporto col magico addirittura, e con le religioni alternative».
Il lavoro ha riguardato anche il concetto di potere…
«Ci sono dei lavori in particolare che contengono riferimenti precisi, per esempio quello sull’esondazione del Bisagno dello scorso anno sottolinea il fatto che il torrente, il cui nome in latino è bis amnis, cioè due fiumi, è stato soffocato da un’imposizione: la riflessione è stata su questo gioco di potere ma soprattutto sull’apprezzamento e non sfruttamento del territorio. Abbiamo preso in considerazione anche diverse teorie critiche come quelle di filosofi contemporanei quali Judith Butler o Giorgio Agamben sul concetto di biopolitica e controllo assoluto della società, e questo per noi si rispecchia moltissimo nel territorio».
I “segmenti di natura” di cui parli si configurano quindi come elementi di contrapposizione al controllo esercitato dal potere ed esplicitato in ambito urbano?
«Sì….in particolare c’è un momento secondo me, quando si decide di estraniarsi o trovare un luogo intimo, alternativo, che costituisce una scintilla che potrebbe determinare un vero cambiamento, una vera trasformazione nei rapporti tra esseri umani: il fatto di volerla cercare, di trovarla e fissarla su pellicola fotografica o altri supporti, è già un punto di partenza. Questi luoghi spesso e volentieri non sono ordinari e nel nostro paesaggio urbano sono completamente extraterritoriali.
I temi si sono sviluppati man mano che si lavorava, ho badato fondamentalmente a portare tutta l’attenzione al “qui e ora”, a non indulgere a mitizzazioni, a non estraniare troppo il senso del lavoro in simbologie o gesti al di fuori del controllo o della coscienza legata al rapporto con la contemporaneità, cioè cosa siamo e dove viviamo».
Cos’è la società d’esproprio cui ti riferisci?
«È un concetto legato alla questione della biopolitica, su cui abbiamo insistito molto considerando l’idea di controllo sull’individuo a livelli sempre più capillari. Poi ci sono questioni legate al gesto e a come siamo costretti a dover limitare le nostre considerazioni o vie di fuga nella nostra società; soprattutto in questo caso era mio interesse principale – essendo ragazzi molto giovani – riuscire a mostrare qual è la via di uscita per un gesto creativo da parte di chi è così giovane e ha mille idee e un desiderio di incanalarle e dare loro forma. La cultura visiva contemporanea si allarga così tanto nelle sottoculture! Abbiamo molto lavorato e insistito per portarle fuori, perché poi sono quelle con cui hanno più confidenza».
Claudia Baghino
[foto di Diego Arbore]