"Da bambina ho sempre tenuto tanti diari, ho sempre avuto la necessità di fermare su carta quella che era la mia vita. Mi emoziona molto l'idea di riuscire a rendere partecipi anche gli altri delle mie paure e delle mie ansie"
Giunta ormai alla settima pubblicazione, Valeria Abate è una scrittrice genovese, con la passione dello sport. Ha partecipato a Videoscrittori e ci ha invitato nella sede della società di canottaggio dove si allena a Sestri Ponente nella Marina Aeroporto.
Cosa rappresenta la scrittura nella tua vita?
«La possibilità di poter parlare con me stessa. Da bambina ho sempre tenuto tanti diari, ho sempre avuto la necessità di fermare su carta quella che era la mia vita. Riuscire a rendere partecipi anche gli altri di quelle che sono le mie paure, le mie goie, i mie pensieri e le mie ansie è una cosa che mi emoziona molto e spero che un domani possa diventare la mia professione»
Quale è il complimento che vorresti sempre ricevere come scrittrice?
Vorrei che qualcuno potesse sentire proprio quel tu con cui ho raccontato una storia.
di Marcello Cantoni
Si erano conosciuti con un’occhiata. O meglio. Si erano incrociati, la loro prima volta, nel riflesso di uno specchio. Lei, intenta a domare quei ricci ribelli con una forcina, lo aveva visto di schiena. Spalle larghe, andatura decisa. Lui, direttore dell’hotel, l’aveva vista prima. Prima che lei lo vedesse riflesso. Lui aveva visto una buffa espressione, due occhi intensi color nocciola e una montagna di riccioli. E lì, probabilmente, si erano innamorati. Senza conoscersi. Senza sapere nulla più di quello che lo specchio, quello specchio, aveva mostrato loro. Si riconobbero, poi, qualche giorno più tardi. Lei aveva una minuscola forcina a incastrare un ciuffo di capelli più chiaro. Lui aveva sempre quella sua andatura decisa. Si piacquero. Indubbiamente si piacquero. Ma non si parlarono. Lasciarono che a farlo fossero i loro sguardi. Gli occhi nocciola intenso di lei gli dissero: «Speriamo che questa stupida forcina regga». Gli occhi ghiaccio freddo di lui le dissero:«I gemelli della camicia non mi piacciono». I loro occhi si parlarono molte altre volte. Non si dissero qualcosa di veramente importante. Quello non era un semplice gioco di sguardi. Anzi. Forse non lo era nemmeno. Non si guardavano per ipnotizzarsi. Non cercavano di rubare l’attenzione. Lo facevano senza sapere perché lo stessero facendo. Fino a quando non furono costretti a parlarsi. Si diedero del lei, benché in tutte le loro precedenti confidenze si fossero sempre dati del tu. «Mi scusi- lei gli disse- potrebbe gentilmente chiamarmi un taxi?». «Il suo taxi sarà qui tra pochi minuti, vuole che la accompagni fuori?». «No, non si disturbi. Molto gentile. Grazie». Appena lei salì sul taxi, entrambi pensarono che darsi del lei fosse stata una pessima idea. Quel taxi, infatti, portò lei- hostess di volo- su un volo per Parigi e, infine, nuovamente per Roma. Poi, come un taxi l’aveva portata via, così fu un altro taxi a riportarla in hotel. Quando lei scese da quell’auto bianca, la prima cosa che lui vide e riconobbe fu quell’ inconfondibile montagna di riccioli. Lei lo vide venirgli incontro e, ancora una volta, furono i suoi occhi a parlare per lei. «Dannazione, mi si è smagliata un’autoreggente». Lui rispose con un discreto e ufficiale: «Bentornata. Aspetti, mando qualcuno a prenderLe il bagaglio». E con un pensiero più indiscreto: «Maledizione! Ancora una volta questo lei distante e insopportabile». Lei arrossì. Gli aveva appena detto le stesse cose, con la stessa indiscrezione. Dopo qualche giorno, tornarono a darsi del tu. Davanti a quello specchio.- nel riflesso di quello specchio- che aveva saputo svelarli, per nulla timidi, per l’unica volta. Ma tra loto due, ormai, il ghiaccio che si era sciolto si era già anche riformato. Un gioco di sguardi, benché non fosse un semplice gioco di sguardi, non bastava più a nessuno dei due. Ma il problema, vero, era che a entrambi non bastava il coraggio per uscire dal riflesso di quello specchio.