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Ex Acna di Cengio e Saliceto e la bonifica attesa da 20 anni. La storia di un impianto industriale che inquina ancora

Chiuso nel 1999 il sito è tra i più inquinati del paese. Un fardello che ci accompagnerà ancora per molto tempo


12 giugno 2019Notizie > Iplom > Rifiuti

Foto Eni.com

A inizio maggio di quest’anno, l’Ispra (Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale) ha stilato un elenco di tutti i luoghi contaminati in Italia. Sono in totale 12.482, di cui 58 classificati come gravemente inquinati e a elevato rischio sanitario. Di questi 58, 41 sono classificati come “Siti di interesse nazionale” (Sin), sotto la diretta responsabilità del Ministero dell’Ambiente, e di questi due si trovano in Liguria: un’area di più di 220 chilometri quadrati nei Comuni di Cengio e Saliceto (in provincia di Savona) e la zona intorno alla Stoppani di Cogoleto (provincia di Genova) per un totale di più di due chilometri quadrati, di cui 1,67 a mare e 0,45 a terra. Il sito di Pitelli, in provincia di La Spezia, è stato invece cancellato dall’elenco dei Sin nel 2013, quando la responsabilità dell’area venne trasferita alla Regione Liguria provocando le polemiche di associazioni ambientaliste come Legambiente.

Due siti possono sembrare pochi rispetto, per esempio, ai cinque della Lombardia, ma bastano a fare della Liguria la quinta regione italiana per estensione delle proprie zone Sin, alle spalle di Piemonte, Sardegna, Sicilia e Puglia. Inoltre, non sono conteggiati come liguri due Sin appena fuori i confini della nostra Regione, come quello di Serravalle Scrivia e quello di Massa Carrara.

L’Italia iniziò a interessarsi seriamente della gestione dei propri siti inquinati nella seconda metà degli anni 80. Nel 1986 venne istituito il Ministero dell’Ambiente, a cui le leggi degli anni successivi attribuirono la responsabilità della gestione dei siti ritenuti inquinati secondo criteri come la quantità e la pericolosità degli agenti inquinanti presenti nel terreno e nelle acque sotterranee e l’impatto di tali sostanze sull’ambiente circostante.

Da allora, i lavori di bonifica si sono conclusi solo sul 15% della superficie dei Sin individuati e il 12% delle acque sotterranee, e nonostante la caratterizzazione (cioè la definizione dei fenomeni inquinanti) sia già stata fatta su più del 60% dei terreni e delle acque, ad oggi sono approvati interventi solo per il 12% dei suoli e il 17% delle acque. A rallentare le operazioni di bonifica sono, oltre alle difficoltà tecniche, anche la frammentazione o la mancanza di chiarezza nella proprietà di diverse aree, che rende difficile comprendere di chi sia la responsabilità operativa delle opere di bonifica richieste, oltre a una selva di regolamenti farraginosi.

Il Sin di Cengio e Saliceto

La storia del sito di Cengio e Saliceto inizia nel 1882, quando nella valle del fiume Bormida si installa il Dinamitificio Barbieri. La fabbrica, a poca distanza dal porto di Savona che la rifornisce in modo efficiente di materie prime, fiorisce nei primi decenni del 900, quando è già diventata la Sipe (Società italiana prodotti esplodenti) e occupa un’area di mezzo milione di metri quadrati. Le numerose guerre del Regno d’Italia nella prima parte del secolo assicurano una dose costante di lavoro allo stabilimento, ma i danni ambientali sono già evidenti al punto che nel 1909 il pretore di Mondovì vieta qualsiasi utilizzo dell’acqua contenuta nei pozzi a valle dello stabilimento. Nel libro Un giorno di fuoco, del 1963, lo scrittore Beppe Fenoglio descriverà così il fiume che raccoglieva gli scarti dell’industria: “Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna”.

Nel 1925 l’Italgas rileva l’impianto per renderlo una fabbrica di coloranti, nel 1929 il regime fascista rende lo stabilimento uno dei centri dell’immensa Acna (Aziende Chimiche Nazionali Associate), ma nonostante l’intervento del Governo il progetto è un fallimento e nel 1931 l’Acna viene svenduta alla Montecatini. L’Acna mantiene lo stesso acronimo, ma diventa “Società anonima colori nazionali affini” e poi “Aziende Colori Nazionali e Affini”. A parte la parentesi della Seconda Guerra Mondiale, che vede l’Acna tornare alla produzione bellica, il centro di Cengio diventa un importante polo chimico dell’Italia repubblicana, con una storia che nei decenni successivi vede contrapposte da un lato le proteste degli abitanti della valle per i livelli insostenibili di inquinamento e dall’altra un fronte compatto di politica, industria e sindacati, più attenti alla tutela dei posti di lavoro.

Negli anni 60 l’Acna acquisisce quasi tutte le fabbriche di coloranti in Italia, per chiuderle e trasferire tutta la produzione nello stabilimento di Cengio, che nel 1979 ha più di 4.000 dipendenti. Le proteste popolari per i livelli di inquinamento ormai insostenibili raggiungono l’apice nel 1987, quando i cittadini si organizzano nell’Associazione per la Rinascita della Val Bormida. L’anno dopo, il 23 luglio, un’enorme nube bianca fuoriesce dallo stabilimento. Quel giorno, come riportano le cronache dell’epoca, un odore acre raggiunse tutti i comuni limitrofi e gli abitanti di Saliceto denunciarono irritazione agli occhi e alle vie respiratorie e attacchi di nausea. Solo l’anno prima il Consiglio dei Ministri aveva dichiarato la Val Bormida “area ad elevato rischio ambientale”.

Persino in quell’occasione, alla proposta del ministro dell’ambiente Giorgio Ruffolo di chiudere a turno i vari comparti dello stabilimento per poterli risanare, i sindacati risposero con un’assemblea per presidiare lo stabilimento, invitando a non farsi prendere dall’emotività del momento e ricordando che l’azienda dava da mangiare a quattromila famiglie. Il ministro dell’industria Adolfo Battaglia la pensava allo stesso modo.

“Hai mai visto Bormida? Ha l’acqua color del sangue raggrumato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle rive non cresce più un filo d’erba. Un’acqua più porca e avvelenata, che ti mette freddo nel midollo, specie a vederla di notte sotto la luna”.

Il passaggio a Eni e il piano di bonifica

Lo stesso anno in cui esplodeva la nube tossica, la Montedison (azienda erede della Montecatini proprietaria dello stabilimento) conferì le attività di Acna alla Enimont, una società nata dalla fusione di Enichem (all’epoca interamente pubblica) e, appunto, Montedison. Enimont doveva essere un enorme polo della chimica, nato dalla fusione tra pubblico e privato. La sua storia, però, dura pochi anni e finisce per disaccordi tra le parti che porta all’uscita di scena del socio privato. L’accordo per la fusione, inoltre, è accompagnato da un giro di tangenti pagati a politici di tutto l’arco parlamentare, che fecero dello “scandalo Enimont” uno degli eventi centrali della stagione di mani pulite. Finita la breve parentesi Enimont, nel 1991 il controllo del sito di Cengio passa interamente alla Enichem, in un momento in cui il gruppo Eni si sta già orientando al mercato del petrolio e dell’energia, più che su quello della chimica. La Enichem (che oggi si chiama Syndial, ed è la controllata di Eni che si occupa delle attività di bonifica dei siti Eni dismessi) negli anni successivi riduce progressivamente la produzione, fino alla chiusura definitiva dello stabilimento, nel 1999.

L’anno successivo viene siglato un accordo di programma tra l’Acna, i ministeri dell’Ambiente, della Salute e dell’Industria, le Regioni Liguria e Piemonte e il Commissario Delegato alla bonifica, che prevede la divisione del sito in quattro aree e un piano di bonifica. «Le attività di bonifica dovrebbero formalmente concludersi nel 2020» racconta a Era Superba Andrea Melis, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle. Melis è primo firmatario di una mozione presentata lo scorso 10 giugno in Commissione Ambiente per tirare le somme di un ciclo di audizioni tenuto la settimana prima con tutti gli attori istituzionali coinvolti nel piano di bonifica, durante il quale si è discusso di eventuali modifiche e integrazioni al piano di bonifica.

«L’ultima attività – prosegue Melis – dovrebbe essere il cosiddetto capping, si prevede cioè che in un’area del sito vengano raccolti tutti i materiali inquinanti raccolti nelle altre aree e messi in sicurezza. Per le altre aree del sito, invece, è prevista la bonifica. Non si parla infatti di un sito per cui è prevista la bonifica completa, ma in parte la bonifica e in parte la messa in sicurezza».

Secondo quanto scritto sul sito di Eni, l’area dedicata al capping dovrebbe essere la zona nominata A1. Sempre sul sito della compagnia, leggiamo che al 31 dicembre 2018 Syndial ha investito 340 milioni di euro per la bonifica del sito, e che conta di investirne altri 15 per concludere i lavori. L’accordo di programma iniziale prevedeva una spesa di 300 miliardi di lire, vale a dire qualcosa in più di 150 milioni di euro.

Foto Eni.com

Un piano che ha bisogno di modifiche?

«Dal ciclo di audizioni – racconta Melis – è emerso che ci sono attività di bonifica ancora da concludere, e che alcune attività di bonifica hanno dimostrato che ci sono ancora lacune o mancanze che ci ripromettiamo di analizzare e discutere meglio». In particolare, sarebbero state le alluvioni che nel 2016 hanno colpito la Val Bormida a far emergere le lacune di cui parla Melis. In quell’occasione l’acqua era entrata nell’area del sito, portandosi dietro tutte le sue sostanze inquinanti, per questo ora gli attori coinvolti ritengono si debba includere nel piano di messa in sicurezza anche un rafforzamento di alcune parti degli argini del Bormida.

«Per questo – sottolinea il consigliere – riteniamo di debba valutare, anche in relazione al progetto iniziale di messa in sicurezza, se tutto è stato fatto correttamente e se è necessario prevedere ulteriori integrazioni al progetto in modo che quelle criticità che si sono presentate siano definitivamente risolte e non si presentino più». Negli anni, inoltre, è emersa la necessità di bonificare aree inizialmente non incluse nel piano di bonifica, come la cosiddetta area Merlo.

La bonifica del sito industriale di Cengio ha attirato anche l’attenzione dell’Unione europea, perché violerebbe una direttiva del 1999 sulle discariche di rifiuti. «In particolare – spiega Melis – allora il commissario governativo non aveva fatto la procedura d’impatto ambientale perché non era previsto per il tipo di intervento, dal momento che non trattandosi di una discarica non aveva seguito la procedura tecnica necessaria per quel tipo di sito».

Le 52 discariche non ancora bonificate – tra cui anche quella di Cengio, dove sono radunati i rifiuti industriali dell’impianto – costano all’Italia ogni anno 21.200 milioni di euro. Per uscire dalla procedura di infrazione europea, il ministero dell’ambiente che dovrebbe fare una procedura d’impatto ambientale ex-post. «In questo frangente – spiega Melis – sarà importante attenzionare il ministero dell’ambiente perché sia tutto analizzato, anche le aree che al tempo non erano ricomprese e che il progetto iniziale sia aggiornato a tutte le variabili che negli anni sono emerse e che in qualche modo ne preveda la totale bonifica e messa in sicurezza».

Dopo la conclusione dei lavori di bonifica, prevista nel 2020, Syndial avrebbe l’onere di un presidio costante sul sito per i successivi 30 anni. Ma non c’è il rischio che le modifiche e le integrazioni necessarie che stanno emergendo facciano allungare i tempi per la conclusione dei lavori? «Per noi – risponde Melis – è importante che verifichi la congruenza del progetto e che se necessario si facciano ulteriori interventi, per essere certi che le aree bonificate lo siano davvero e possano essere adatte a ospitare nuovi stabilimenti industriali».

Luca Lottero

 

 


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