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Giovanni Siri, il professore genovese sostenitore della decrescita

Autore del libro "la Psiche del consumo", sostiene che si possa uscire dalla logica del consumismo ponendo al centro della vita i sentimenti, la relazione e il senso di appartenenza


6 Novembre 2011Interviste

Giovanni SiriUno dei sostenitori della decrescita è il genovese Giovanni Siri, professore di psicologia della personalità all’Università di Genova e di psicologia dei consumi presso la libera Università IULM di Milano, che in questa intervista esclusiva spiega la teoria economica delle decrescita e i suoi possibili sviluppi.

Il suo libro “La psiche del consumo” fotografa una comunità “contaminata” dal consumo a tal punto da condizionare la percezione dell’io e della realtà. La “decrescita serena” teorizzata da Latouche parte proprio dall’autolimitazione dei consumi… Come può, in un sistema “psicologicamente corrotto”, affermarsi il desiderio di consumare meno?

L’orientamento consumista della personalità dipende dalla convergenza di due movimenti: da un lato la necessità da parte del nostro sistema economico “maturo” di fare appello non più al bisogno ma al desiderio, e dall’altra l’esigenza delle persone di trovare nuovi supporti alla costruzione e alla conferma della propria identità per sostituire in questa funzione le istituzioni classiche (famiglia, scuola, ideologie, religione). Il consumo si propone alla confluenza di queste due necessità, di sistema ed individuale, divenendo così la cultura dominante interiorizzata: ora la promessa di soddisfare i desideri di felicità e di affermazione narcisistica di sé passa attraverso il gioco del consumo. Questa convergenza non avviene però senza pagare un prezzo. Si tratta di una identità fluida e proteiforme che se in un primo tempo esalta l’edonismo e i nuovi giochi relazionali telematici, oggi comincia a far sentire il peso e l’ansia della incertezza e insicurezza che questo stato di fluidità comporta. Rinasce quindi il bisogno di appartenenza, di relazione, di valori-guida. D’altro canto il sistema economico-produttivo sta confrontandosi con i limiti sociale ed ecologici che un consumismo a qualunque costo impone, ed ha bisogno di ri-orientare il consumo stesso verso mete meno rischiose a medio-lungo termine. L’esito di questo secondo intreccio di motivi individuali e socioeconomici sta nell’emergere del consumo responsabile, dello sviluppo sostenibili, nella green economy, nel volontariato, nei gruppi di acquisto spontanei e così via. La filosofia della decrescita consapevole si propone oggi come un orizzonte di valore e di significato dell’esistere che ripropone l’umanesimo della persona al centro dell’orizzonte di senso, e il consumo come uno strumento secondario di questo centro valoriale. Non si tratta di anti-consumismo, ma di un ri-orientamento delle aree di consumo che premia la persona facendola sentire intelligente e piena di valori buoni, più consapevole della centralità della propria vicenda esistenziale. Credo quindi che la filosofia della decrescita sia uno degli aspetti della nuova sintesi tra bisogni personali e necessità del sistema socioeconomico, coerente con l’evoluzione della postmodernità. Una cosa buona e positiva, che si inserisce in un orizzonte ampio e di medio periodo, non una moda passeggera o una semplice reazione alla fase precedente.

Ci può aiutare a comprendere meglio la differenza fra il concetto di “decrescita” e quello di “sviluppo sostenibile” (quest’ultimo definito “un ossimoro” da Latouche)?

Dal mio punto di vista lo sviluppo sostenibile è la ricerca del modo di mantenere le (cattive) abitudini consumistiche senza dover pagare il dazio dei danni ambientali e delle asimmetrie sociali che questo sta generando. Per esempio ricorrendo a innovazioni tecniche (gli OGM nella agricoltura, per es.) o alla scoperta di fonti rinnovabili efficienti, e così via.  Il concetto di “decrescita” è diverso in quanto invece mira a mettere in discussione il valore della ricerca – come fine principale degli individui e dei sistemi sociali – della crescita continua di benessere “materiale” ed economico, per proporre uno stile di vita che pone al primo posto di valore la capacità di godersi il tempo, di cercare un benessere psicofisico e armonico, di dare spazio alla relazione ed al rapporto con la natura. Anche per non sottrarre risorse ai più poveri o per non depauperare la Natura, ma in primis perché il senso della vita non può stare solo nell’inseguire mete di benessere materiale, edonistico e consumista.

Come uscire allora da questa logica del consumo spropositato?

Lo vediamo già in atto: mettendo al centro i sentimenti, la relazione, il senso di appartenenza ad un mondo che va oltre il proprio “io”. Uscendo dalla logica coattiva del consumo come unico modo di autorealizzazione, dalla idea di successo e di edonismo materialista come unico valore. Sta già accadendo, anche se manca qui il ruolo della politica, intesa come proposta di ideali unificanti che proiettino gli individui oltre sé stessi verso unità di insieme cui partecipare e di cui sentirsi responsabili. Manca anche il ruolo degli intellettuali, degli artisti, della religione: solo una ripresa delle tradizionali fonti di “produzione” di ideali può davvero far traghettare oltre il consumismo egocentrico e coatto in cui abbiamo rischiato di scivolare.

Gabriele Serpe


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