Com'è cambiato il tessuto sociale del quartiere, il rapporto con Don Andrea Gallo, la funzione dell'Associazione Princesa per la tutela dei diritti dei transgender, la sfera privata. Una giornata in loro compagnia
Fondata nel 2009 con il sostegno della Comunità di San Benedetto al Porto e di Don Andrea Gallo, Princesa è l’associazione che si batte per i diritti dei transgender, contro la transfobia e l’omofobia, per la promozione dei diritti, dell’identità sociale e personale. L’Associazione al momento della sua creazione riuniva già 32 persone transgender che vivono a Genova, con la Presidenza onoraria di Don Andrea Gallo.
Presidente dell’Associazione è Rossella Bianchi, a Genova da quasi 50 anni, arrivata in città nel ’65. Ma oltre Rossella, ci sono molte altre trans che da decenni lavorano qui: come Ulla, che di recente ha festeggiato il matrimonio con il compagno di vita Maurizio, o come Mela, “new entry” del gruppo che – stufa della vita “nomade”- ha trovato una casa grazie alle amiche del ghetto. Di tutte loro, solo in poche vivono nel quartiere, mentre le altre preferiscono lavorarvi soltanto ma tenere gli affari lontani dalla vita privata. Un mondo che sta a pochi passi dagli universitari di Via Balbi, dalla Casa di Mazzini e dai rolli di Via Lomellini, dalla colorata e trafficata Via Prè, controverso crocevia di persone: un labirinto di vicoli che resta escluso ai normali transiti e di cui le trans hanno fatto il loro punto di ritrovo. Ma come si vive nel ghetto, com’è cambiato nel corso dei decenni con l’arrivo di nuove comunità, e come vivono le trans? Lo abbiamo chiesto a loro.
Rossella: «Ho avuto modo di vivere tutte le trasformazioni del quartiere, sono una di quelle che è arrivata prima qui e posso parlare con cognizione di causa: la vita è peggiorata nel corso degli anni, prima stavamo meglio, ora si è persa l’atmosfera famigliare di un tempo, ma restano tolleranza da parte degli altri e rispetto tra noi. Ci sono integrazione e libertà, e questo è un dato che testimonia il lavoro di sensibilizzazione svolto da noi, da Princesa, da Don Gallo e da GhettUp nel cercare di combattere la transofobia e l’omofobia. Inoltre, fino a qualche decennio fa il ghetto era invivibile a causa della piaga della droga e delle bande criminali, che causavano continue tensioni nel tessuto urbano. Ora queste problematiche sono state sconfitte, ma se la situazione è migliorata è grazie a noi che ci lavoriamo e che sentiamo nostro questo luogo: da parte delle istituzioni, non c’è stata l’attenzione né il sostegno che speravamo».
Ulla: «Anch’io sono una delle veterane del ghetto. Sono arrivata qui negli anni ’70 e ricordo che all’inizio ci perseguitavano. All’epoca gli abitanti del ghetto erano tutti italiani: c’erano famiglie tradizionali, lavoratori, ragazzi, casalinghe. Poi, dalla metà degli anni ’70 hanno iniziato ad arrivare i primi immigrati dal nord Africa, i “marocchini”, e sicuramente questo ha influito molto sul cambiamento del tessuto sociale del quartiere. Con l’arrivo dei migranti, dapprima si è creata una situazione allarmante: si sono incrementati casi di spaccio, di violenza, di risse (per colpa sia degli italiani che degli stranieri, sia chiaro!), tanto che gli abitanti tradizionali, se ne sono andati in pochi anni. Prima era un quartiere “normale”, tranquillo, come tanti altri; poi, con questo esodo dei genovesi, il quartiere ha progressivamente perso prestigio: un circolo vizioso. Più se ne andavano, più qui la situazione degenerava. Alla fine, siamo rimasti in pochi: tra tutti, anche 5 o 6 di noi trans abitiamo qui. Io, ad esempio, ci abito e ci lavoro da una vita. Ho spesso pensato, all’epoca, di andarmene via, ma dove? Tutto sommato qui è sempre stata un’oasi felice per noi, anche nei tempi più critici, e lo è tanto più ora che la situazione è migliorata: via gli spacciatori, stop alla violenza. E questo grazie anche a noi trans, che siamo i baluardi e i presidi del quartiere: tempo fa c’era un pazzo che si aggirava con un coltello minacciando tutti e noi abbiamo subito avvisato la polizia, che lo ha arrestato tempestivamente; o ancora, ci è capitato di salvare vecchiette che stavano per essere scippate. Noi proteggiamo il quartiere che abbiamo scelto come casa di elezione, abbiamo tutto l’interesse affinché qui tutto sia tranquillo e non ci siano problemi. Assieme a noi, inoltre, da qualche anno anche l’arrivo della casa di quartiere GhettUp ci ha aiutate a favorire l’integrazione e ha mantenere il quartiere tranquillo. Ora c’è più controllo e attenzione verso il ghetto, e anche il rapporto con gli stranieri -dapprima problematico- è migliorato: c’è cooperazione reciproca, e loro ci difendono. I tempi per l’integrazione delle varie componenti sono maturi».
Princesa: di che cosa si occupa nello specifico la vostra associazione?
Rossella: «Abbiamo uno sportello presso i locali di GhettUp in Vico della Croce Bianca 7-11r per favorire l’integrazione nel quartiere di transgender e offriamo aiuto sia burocratico che psicologico alle persone che vogliono intraprendere un percorso di cambiamento di genere. Seguiamo sia queste persone che si rivolgono a noi che i loro famigliari, e diamo loro sostegno in questa delicata fase di passaggio. Siamo disponibili a parlare e portare la nostra esperienza come esempio: di recente, una madre che era arrivata da noi scettica e poco propensa a sostenere il figlio, è tornata da noi a parlarci di come sia riuscita ad accettare questa transizione».
Ulla: «Non ci tiriamo indietro, quando c’è qualcosa da fare siamo sempre in prima fila: dalle feste al cineforum estivo a cadenza settimanale (aperto a chiunque!), ai compleanni e feste (di tutti!) nella piazza detta “Princesa”, alle interviste (come questa, e quelle di tempo fa per la tv nazionale e per periodici internazionali, a testimonianza di quanto interesse ci sia anche fuori da Genova per questo luogo, n.d.r.): non è un’esagerazione dire che siamo una famiglia».
Don Gallo, un uomo che al ghetto ha dato tanto e che Genova ricorda con nostalgia: una piazza a lui dedicata potrebbe giovare al quartiere?
Ulla: «Don Gallo per noi era un padre spirituale. Il mio rapporto con lui era molto stretto, amicale, familiare: era un padre per me che il papà l’ho perso anni fa. Ci manca in modo indescrivibile: anche se è poco che ci ha lasciate, sentiamo un vuoto incolmabile. Pensa che quando mi incontrava mi baciava le mani, lui a me! E io gli dicevo “Don, non è il caso, cosa penserà la gente? Sono io che devo baciare la mano a lei!”, ma lui non si curava di nulla e sapeva starci vicino e farci sentire importanti. Ci ha restituito la dignità che ci è sempre stata sottratta e non ci sono parole sufficienti per spiegare quanto gli siamo riconoscenti e quanto adesso sia difficile andare avanti senza di lui. Ricordo che spesso scappava da San Benedetto e veniva a rifugiarsi qui in mezzo a noi, dicendo che questa era la sua seconda casa. Una piazza dedicata a lui? Certamente la cosa ci fa piacere e ne saremmo felici, tanto più che quella è la “nostra” piazza, ed era anche la sua, che partecipava sempre alle nostre iniziative. A mio avviso, però, questa inaugurazione non servirà a portare più visibilità al ghetto. I turisti qui ci vengono già anche da soli, ce ne sono tantissimi, vogliono scoprire il ghetto e conoscerci».
La vita nel ghetto: per voi questa enclave significa protezione o isolamento?
Ulla: «Io sono nata a Messina e non sono genovese doc, anche se sono arrivata qui con i miei genitori quando avevo tre anni. Anche loro hanno abitato in città e tutto sommato per me il ghetto è una casa». Mela: «Senza esitazioni, rispondo che mi sento cittadina di Genova. Io sono nel ghetto da meno tempo di loro, sono la nuova arrivata. Prima ho vissuto in giro, ma mi sono stufata di viaggiare, trolley alla mano, senza avere fissa dimora. Qui ora ho una famiglia e sono stata bene accolta dalle altre, che già conoscevo e con cui eravamo già amiche. Prima di stabilirmi qui, tuttavia, la mia vita era molto mondana e ho sempre frequentato vari ambienti genovesi (e non solo) e tutti i locali “in” della città: quindi sì, sono in tutto e per tutto genovese. L’integrazione c’è, oggi non mi sento discriminata».
Ulla, non possiamo fare a meno di congratularci con te e il tuo compagno, Maurizio, per il vostro recente matrimonio lo scorso 22 novembre.
«Il matrimonio è stata una cosa importante sotto il profilo legale ma anche goliardica. Io e Maurizio ci consideriamo sposati da 32 anni e lui è una grande persona, l’unico che ha saputo starmi vicino sempre, anche nei momenti difficili -come quando ho perso i miei genitori-, e con cui ho condiviso la vita. Con questo matrimonio (la registrazione nell’elenco delle unioni civili del Comune di Genova, con grande festa alla presenza di amici e parenti, tra cui anche Vladimir Luxuria, n.d.r.), posso dormire sogni tranquilli: mi stava a cuore sapere che, un domani, le poche cose che ho andranno al compagno di una vita, alla persona più importante. Pensa che lo chiamo “mamma”, perché per me lui è tutto. Adesso, dopo questa unione, io sono “il capofamiglia”, mentre lui farà il “mantenuto”!».
Elettra Antognetti