La galleria genovese ospita "Paraphilia Onirica", un viaggio fra perversione sessuale e sogno. Elisa è amara e realista quando si parla di difficoltà per un giovane artista: «Impossibile vivere del proprio lavoro, è deprimente e demotivante...»
Elisa Boccedi è una giovane artista formatasi presso l’Accademia di Belle Arti di Genova. Modenese di nascita ma cresciuta tra Rapallo e Genova, si è laureata in decorazione ed è diplomata tatuatrice. Le sue opere sono attualmente esposte presso la MF Gallery di Vico dietro il Coro della Maddalena, raccolte in una mostra dall’inquietante e originale titolo “Paraphilia Onirica”: in essa Elisa illustra una serie di parafilie, ovvero perversioni di natura sessuale, le quali – filtrate attraverso la sua capacità immaginativa e interpretativa – entrano in una dimensione, appunto, onirica, dissociata dalla realtà: così, attraverso questo artificio, più liberamente lo spettatore approccia temi tanto difficili e controversi, e riflette su di essi.
In questa mostra hai scandagliato il mondo delle parafilie: perversioni sessuali che vanno dalle più leggere al reato vero e proprio. Perché hai scelto questo tema, così difficile, e in che ottica l’hai affrontato?
«È semplicissimo. Il sesso attira: siamo una generazione di depravati alienati. Quello che mezzo secolo fa era catalogabile come pornografia ora te lo vedi sparato sul cartellone della “Sloggi”. Per quanto possiamo dire di esservi “visivamente abituati”, il nostro “subconscio” (termine che aborro, qui lo utilizzo a mo’ di eufemismo) registra gli innuendo sessuali che tracimano da ogni dove, è ovvio.
Quindi, tanto per esasperare la propensione sociale alla sessualità coatta, perché non occuparsi di un caso limite all’interno dello scabroso? La cosa si fa doppiamente intrigante per chi non registra l’orrore della dipendenza implicita all’interno delle parafilie. Però la mira finale è fare dell’abominevole, dell’inconcepibile un medium per innestare una reazione emotiva potente (positiva o negativa che sia me ne frega), che crei qualche tipo di ripercussione psicologica ed induca ad interpretare personalmente quello che si ha davanti agli occhi. Farsene un’opinione propria, insomma».
Puoi spiegarmi la scelta del titolo, che associa l’onirico alla perversione?
«Tutto ciò che denotiamo come gusti, preferenze, dipendenza, si genera e si sviluppa in un contesto mentale, in risposta a qualche tipo di stimolo esterno, inizialmente. Le mappe neuronali che codifichiamo in base alle nostre esperienze e alle reazioni di attrazione/repulsione innescate dalle suddette vanno a comporre il nostro quadro comportamentale. Questa è roba neuro-scientificamente provata. Pertanto anche la perversione può benissimo essere collocata all’interno di questo contesto (l’oceano della mente), e specificatamente nella zona off-limits, al di fuori di quella cosciente e diurna, soggetta al controllo razionale; la zona che più di tutte si può definire onirica per illogicità, insomma. L’allusione al sogno rimanda anche all’intento di smorzare un po’ l’audacia del tema, di renderla più appetibile agli occhi del pubblico, tramite l’uso di cromie accese, figure mostruose, fluttuanti, in pose iconografiche; in una parola: al di fuori di questa realtà».
Le tue immagini mi ricordano un po’ Dalì, un po’ Odilon Redon e Gustave Moreau. C’è qualcosa della storia dell’arte che ti ha influenzata e ispirata o lavori slegata, almeno nelle intenzioni, dagli esempi?
«Ottima osservazione! Apprezzo particolarmente tutti e tre gli artisti citati, anche se la mia sacra triade rimane quella composta da A. Kubin, F. Rops e A.Beardsley. In generale sono stata e rimango un’entusiasta estimatrice della corrente del Simbolismo, troppo immeritatamente soppiantata dal successivo Surrealismo. Ed è un peccato, perché ritengo che i simbolisti si siano spinti molto più in là dei surrealisti nello scandagliare le profondità mobili della materia mentale. Sogni, visioni, premonizioni, allucinazioni..il tutto nella sua integrità inscalfibile ed enigmatica (La Sfinge di Moreau, per ritornare alla tua citazione). Questo senza incorrere nel tentativo di dragare le imperscrutabilità della psiche dal loro imprescindibile mistero (con che mezzuccio poi: la castrante psicoanalisi freudiana!). Del resto, qualunque tipo di contaminazione mi affascina: dalla multiformità del pensiero indiano, alle malformazioni genetiche, alle malattie rare, agli ibridi e gli incroci, naturali e non. Amo i particolari, la carnalità viscerale: perdo ore a contemplare tavole anatomiche calcolando come poter trasformate una vertebra in una nave spaziale, una metastasi in un grappolo di crisantemi e così via…».
Cosa riversi nel tuo lavoro? Quali elementi prendi dall’osservazione dell’esterno e quali da te stessa?
«Ho un temperamento lunatico, ansioso, e la mia sensibilità è di tipo “nevrotico”. Quindi, ho sempre utilizzato l’espressione “artistica” (tra virgolette perché lo ritengo un aggettivo abbastanza controverso, oggigiorno) come mezzo propedeutico per il mantenimento di un (precario) equilibrio psichico. Peccato che, come tutte le “valvole di sfogo”, si sia innestato su di un processo circolare/ossessivo composto da: periodo di osservazione/arricchimento/saturazione-maturazione-rilascio. E via daccapo.
Non percepisco una netta differenziazione tra interno ed esterno, tra me e gli altri e/o l’altro (per questo il mio umore è così mutevole). Tutto si fonde e si sfilaccia ai bordi, si mescola alle estremità, come se congiunto da suture invisibili in un gigantesco patchwork. Faccio ricorso pertanto all’ibridazione più sfrenata, nei miei lavori, nel tentativo di convogliare, almeno in parte, la suddetta impressione sensoriale (che, tengo a sottolineare, è sempre stata naturale e non conseguenza di assunzione di sostanze stupefacenti. Questo onde evitare una domanda fastidiosamente frequente)».
Dici che nel tuo lavoro tendi a “immolare qualsiasi convinzione”. Tolte le convinzioni, cosa proietterà l’immagine? Dubbi, domande, paure?
«Sì, riconosco che così estrapolata la frase ha un po’ un sapore da “idealista radicale riottosamente arroccata nella sua convinzione di dover immolare qualsiasi convinzione”. Così si ricade nel paradosso, che è poi ciò che della vita più mi diverte e che più mi piace puntualizzare. La coscienza della paradossalità potenziale presente in qualsiasi azione, pensiero, parola, per via di una limitazione biologica cerebrale a vedere solo un frammento di ciò che analizziamo. Non sono tanto contro le convinzioni in sé, quanto contro la mentalità che solitamente le regge, e mi riferisco a quell’impianto settoriale, categorizzante e sovente accusatorio (per autodifesa, ovvio) di molle lassismo e di accettazione rassegnata. Semplicemente: è noioso, è restrittivo, è costrittivo. Perché ridursi a languire in simili pastoie (il più delle volte tramandate, imposte e assorbite passivamente) quando l’unica libertà che ci è consentita, in definitiva, è quella di poter variare il nostro pensiero? Anche solo per il gusto di “andare contro”, senza aspettative: per puro esercizio ginnico mentale. La libertà di pensiero, credo, è soprattutto questo».
Ti definisci interessata al “lato potenzialmente incontrollabile e distruttivo che ciascuno contiene”: come entra questo aspetto nella tua arte?
«Diciamo che ha una valenza personale, introspettiva (se lo applico a me), e una sociale, di sensibilizzazione (se lo applico agli altri).
Premetto che, per me, il termine “distruttivo” non assume alcuna connotazione negativa. Distruggere non significa annientare, bensì “smantellare”, ed è implicito che, fatta materia prima di ciò che si era precedentemente scomposto, se ne ricrei una nuova, differente, con qualche innesto o detrazione, magari. Sotto questa luce la distruttività e l’incontrollabilità non possono che procedere a braccetto, finché non interviene qualcosa, nel nostro pensiero, a frenarle».
«Credo che ogni persona detenga la possibilità (non il diritto, a quanto pare) del pensiero individuale, condizione sfortunatamente divenuta oggigiorno tanto innaturale da necessitare uno sforzo abominevole per ribellarsi ad un’infinità di stratificazioni preconcette. Al fine di “smuovere” tale ribellione, non intendo adottare mezze misure. Mi avvarrò, finché mi sarà possibile e dentro i miei limiti, di temi volutamente scandalosi, che proprio per la loro controversia stimoleranno prima la curiosità, poi, si spera, il bisogno di interpretare (l’interpretazione è una giustificazione nei riguardi della nostra coscienza perplessa). In altre parole: il bisogno di sentire e di pensare. Questo è ciò che intendo dire quando mi riferisco al lato “potenzialmente distruttivo ed incontrollabile di ognuno”, seguito da un rinnovo».
Come è avvenuta la tua formazione artistica?
«Credo che la formazione artistica sia imprescindibile da un processo di crescita e sviluppo culturale, emotivo e psichico individuale, per formare il quale, oltre a una buona recettività di base, occorrono un gran numero e una varietà costante di stimoli. Per mia fortuna sono cresciuta in un ambiente dove questi non si lesinavano, e ciò, unito al fatto di essere sempre stata molto libera da vincoli e prassi da rispettare, si è rivelato fondamentale per lo sviluppo e l’alimentazione di tutto il mio mondo di immagini, che altro non sono poi, che l’incarnazione “visiva” di impressioni sottili.
L’accademia di Belle Arti mi ha dispiegato la varietà delle tecniche, come rivestimento “poliedrico” al contenuto che macinavo da sempre».
Le tue tecniche preferite?
«Prediligo l’acquerello, gli inchiostri e le ecoline per la loro delicatezza traslucida che acquisisce forza e corposità a furia di velature (l’accanimento del labor limae!). La biro mi dà delle gioie nei ritocchi delicati e nei disegni formato mignon. Poi l’incisione, beh, è stata il mio battesimo accademico e avrà sempre un posto predominante nel mio cuore.
Ma vario sempre, sperimento sempre. Prossimamente passerò a tecnica mista su tela, grande sfida».
Parlando a livello pratico, quali trovi che siano le difficoltà per un giovane artista nel vivere del proprio lavoro, oggi?
«La domanda non si pone, perché è effettivamente impossibile, ora come ora, qui, in Italia (non so poi all’estero come sia la situazione) per un giovane artista vivere del proprio lavoro. Di quelli che, come me, si occupano di lavori prettamente artigianali e per di più con un’impronta così marcatamente personale, non gliene frega (giustamente) a nessuno.
Mi capitano occasioni per allestire mostre, partecipare a eventi (i più di autoproduzione), e alle volte pure delle commissioni che mi fan tirar su qualche soldo occasionale, e allora è una soddisfazione e un piacere (sempre occasionale, però).
Non vedo come potrebbe essere altrimenti, innanzitutto per la situazione economica generale, ma anche per la più completa desensibilizzazione verso l’oggetto artistico in virtù di una concentrazione esclusiva su quello di fruizione immediata, facilmente reperibile e altrettanto facilmente rimpiazzabile. Questa è la necessità di mercato, questo è il caro consumismo che ci allatta al suo seno sempre più acido e sempre più misero (mi concedo una metafora quasi poetica, toh!)».
«E’ deprimente e demotivante. Bisogna ingegnarsi, arrabattarsi, arrotondare con qualche lavoretto (se lo si trova), la competizione è altissima, i colpi bassi non si negano, è tutto uno sciacallaggio che mi ricorda un po’ il cadavere di un geco ricoperto di formiche che avevo trovato sul terrazzo da bambina. Non so, ho 25 anni e posso solo ringraziare quella buon’anima di mio nonno se sono economicamente indipendente. Magari mi butterò sul settore della comunicazione, appena avrò dato gli esami per i certificati di lingue che sto preparando. Oppure mi darò seriamente al tatuaggio, anche se lo sentirei più come un obbligo che come un interesse. Ma può anche benissimo darsi che mi scoglioni definitivamente di questo umanissimo mondo di “cane mangia cane” e vada a consumare i miei giorni venerando la Grande Dea (MahaDevi), nei campi crematori di Calcutta o di Tarapit. Chi vivrà vedrà».
Claudia Baghino