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Fondatore della scuola di musica Music Line, chitarrista fra gli altri dei Delirium di Ivano Fossati, ma anche spalla di Francesco Guccini e del grande Giorgio Gaber
Gianni Martini, classe ’52, è un musicista genovese, ma non solo: compositore, direttore di coro, insegnante, autore di testi didattici. Una lunga carriera alle spalle e un’esperienza che si snoda attraverso i decenni più entusiasmanti della musica recente, e che l’ha portato a collaborare con musicisti come Ivano Fossati, Francesco Guccini e Giorgio Gaber.
Quando hai preso in mano una chitarra per la prima volta? Quale musica ti ha formato da ragazzo?
«Come molti ho iniziato a suonare in parrocchia, dove si organizzavano varie attività tra cui rientrava anche la musica; mio padre, che avrebbe voluto che imparassi uno strumento, vide di buon occhio la cosa e mi comprò una chitarra. Era il ’66 e io avevo circa 13 anni. Iniziai con il beat, la canzone di protesta, quindi Beatles, Rolling Stones, Equipe 84, Nomadi, Rokes, Dik Dik, Bob Dylan… quel clima lì insomma. Tiravamo giù dai dischi gli accordi delle canzoni e si mettevano su i primi complessi – perché allora si chiamavano complessi, non gruppi o band – una strada che in quegli anni tutti hanno percorso».
Com’era l’atmosfera musicale a Genova in quegli anni?
«Molto viva. Alla sordità – e il termine non potrebbe essere più appropriato – istituzionale corrispondeva una grande vivacità della scena musicale genovese che tutta l’Italia ha sempre riconosciuto. Dai cantautori ai turnisti i musicisti genovesi sono stati sempre molto apprezzati. C’erano moltissimi gruppetti in quegli anni a Genova, “complessi” appunto, fermenti di ragazzi adolescenti che vivevano in quel periodo un fenomeno sociologico assolutamente nuovo: nuovo il fatto di fare parte di questi gruppi, nuovo il fatto che molti personaggi famosi dell’epoca erano ragazzi. Quando è uscita “Love Me Do” nel ’62 i Beatles erano dei ragazzi, così come i Rolling Stones e molti altri anche qui da noi, Rita Pavone, Morandi o Celentano per esempio. Dai complessi genovesi sono usciti poi musicisti di ottimo livello. Naturalmente, come sempre succede, dei tantissimi che suonavano solo una piccola minoranza è andata avanti, è un fatto fisiologico; comunque c’erano gli Apostoli, Bambi Fossati coi Gleemen prima e i Garybaldi poi, Marco Zoccheddu con i Plep che poi divenirono Nuova Idea, i Sagittari da cui nacquero i Delirium, i New Trolls… io mi sono formato in questo contesto, andavo a sentire suonare nei locali. Intanto ci riferivamo a due riviste di musica, “Big” e “Ciao Amici”, la seconda in particolare era il nostro vangelo, pubblicavano recensioni, novità e classifiche. Tutti avevano la divisa alla Beatles, io stesso avevo capelli, giacca e stivaletti alla Beatles; non era semplice trovarli ma ci arrangiavamo e ce li andavamo a cercare. Si andavano a fare delle session in posti distantissimi, per un periodo avevamo provato a Sussisa e alla domenica si partiva con il lazo per andare fin sopra Sori. Oggi mi sembra che i ragazzi abbiano un po’ meno entusiasmo, voglia di sbattersi, di cercare. Anche perché ora è sempre tutto a disposizione, già pronto, “spalmato sul pane” citando Gaber, allora invece non c’era niente e dovevi inventare».
Puoi raccontare le tue esperienze coi Delirium, la Famiglia Ortega, l’Assemblea Musicale Teatrale per arrivare al Teatro Canzone di Gaber, col quale hai collaborato per molto tempo in qualità di chitarrista?
«Da ragazzino frequentavo un paio di locali, il Christie’s (prima ancora Snoopy), e il Rendez vous, (prima Gallery Club). Il primo locale era gestito da Alberto Canepa, che poi divenne mio carissimo amico. Aveva tre anni più di noi ed era quell’età in cui tre anni sembrano una vita… andavamo lì di sabato e domenica pomeriggio a sentire i gruppi, e c’era l’usanza, oggi completamente persa, che un gruppo facesse metà o tutta la stagione, quindi trovavi lo stesso gruppo sempre lì a suonare tutto il weekend per diversi mesi. A un certo punto per vivacizzare le serate infrasettimanali fecero delle jam session aperte anche ai giovani e io cominciai a parteciparvi, si creavano gruppi assolutamente estemporanei, si provava in settimana e alla domenica pomeriggio si occupava metà tempo della performance. Tra questi giovani c’era anche Ivano Fossati che suonava nei Poeti, ci conoscevamo perché frequentavamo entrambi le zone di Marassi e ci incontravamo ai concorsi. Fatto sta che una sera mi chiama Alberto Canepa dicendomi che questo gruppo, i Delirium – allora avevano già fatto “Il Canto di Osanna” con un certo successo al Festival di Bari – cercava un chitarrista elettrico e se poteva interessarmi fare una prova con loro. Andai a casa di Ivano e feci la prova: studiavo chitarra classica così suonai un adattamento dell’Adagio di Albinoni. In qualche modo la mia performance un po’ emozionata fu ritenuta sufficiente ed entrai nel gruppo. Di lì a poco si cominciò a provare per Sanremo e lì iniziò la mia carriera professionale. Prima di questo suonavo in un locale di Sampierdarena nei Beatnik, gruppo che si è rimesso insieme poco tempo fa; facevamo quattro sere a settimana pagati, in regola e coi contributi, cosa che a raccontarla adesso, che se va bene fai quattro date in una stagione, i ragazzi non ci credono. Bene, mentre suonavo con loro mi capitò l’occasione coi Delirium, ne parlai a Mauro Boccardo che faceva parte dei Beatnik e lui comprese benissimo e mi disse di andare. Coi Delirium io rimasi un po’ meno di un anno con un contratto da turnista, infatti nelle copertine dei dischi in cui ho suonato non ci sono. Ci sono invece nei servizi fotografici delle riviste, ma non comparivo come membro ufficiale.
Poi mi staccai insieme ad Alberto Canepa che era anch’egli stato nel coro di Jesahel a Sanremo; in quel periodo era uscito Joe Cocker con un gruppo numerosissimo che si chiamava Mad Dogs and Englishmen, due batterie, le mogli dei musicisti che cantavano, i figli piccoli che camminavano per il palco mentre suonavano… c’era un’idea di gruppo “familiare” che ci piaceva molto. Io e Alberto, sulla scorta di questa idea, creammo la Famiglia Ortega nel ‘72, gruppo all’interno del quale esistevano legami familiari: c’erano infatti tre sorelle, Canepa e sua moglie, i due fratelli venezuelani Ortega che poi dovettero lasciare quando scadde il permesso di soggiorno. Facemmo un LP che fu per me la prima esperienza discografica importante come arrangiatore; ci fu una tourneé in Grecia e tanta televisione, poi il progetto ebbe fine, ma con la Famiglia approdammo a Michele Maisano che cercava un gruppo numeroso con cui fare le tourneé nelle grandi discoteche del meridione e dell’Emilia; il nostro produttore gli propose noi, così si fece questo Michele Show con noi e il suo vecchio gruppo di un tempo, gli Odissea. Andammo a suonare anche negli Stati Uniti e passammo il capodanno ’74-’75 a New York, alloggiati in un albergo di Manhattan dalle cui finestre si vedeva la sede del New York Times, come nel finale de “I tre giorni del condor”.
Dopo questo io tornai a suonare in un gruppo da discoteca, i Raptus, in cui c’era un ancora sedicenne Gian Piero Alloisio, e da questo gruppo nacque l’Assemblea Musicale Teatrale, cui parteciparono anche Alberto Canepa, Bruno Biggi e Gino Ulivi. Con l’Assemblea debuttammo in uno spettacolo alla Sala Chiamata del Porto nel ’75, mentre nel frattempo mantenevamo in vita anche i Raptus in attesa che il progetto Assemblea crescesse. D’estate alla Festa dell’Unità suonavamo con entrambi i gruppi per esempio. Una formula che riuscì bene e che mantenemmo per anni.
Arriviamo al ’77 quando partecipammo al Club Tenco con “Marylin”, il nostro secondo disco. Più o meno nello stesso periodo prendemmo contatti con Guccini attraverso conoscenze comuni: un amico di un mio amico sapeva dove Guccini andava in campagna. Questo filo così esile per noi fu sufficiente; sapevamo che Gian Piero scriveva cose interessanti, e si andò a trovare Guccini (io quella volta non c’ero). Lui che è una persona gentilissima fu accogliente e ci diede appuntamento per una prossima festa del proletariato giovanile, la Festa del Sole, che si teneva dalle parti di Conegliano Veneto. Noi pensavamo non sarebbe mai venuto, invece venne con Renzo Fantini, suo amico e produttore, noi facemmo il nostro spettacolo e gli piacque molto, tanto che produssero il nostro secondo disco, Marylin appunto, registrato difatti a Bologna, e numero uno dell’etichetta indipendente L’Alternativa, etichetta di Fantini. Divenimmo gruppo spalla di Guccini, eravamo al settimo cielo. Aveva provato diversi gruppi e solisti ma quando questi iniziavano la gente cominciava a urlare “Guc-ci-ni! Guc-ci-ni!”. Voleva qualcuno che avesse grinta e prese noi. Per tre anni buoni, nel momento di massimo splendore della canzone d’autore. Poi facemmo la stessa cosa anche per Claudio Lolli, che era nella scuderia di Fantini, e per Paolo Conte, allora agli inizi. Noi facevamo venti minuti tiratissimi e la cosa funzionava. Era lavoro qualificatissimo, una volta suonammo davanti a 80.000 persone a una Festa dell’Unità a Roma, cose che non ti capitano tutti i giorni.»
Puoi spiegare il significato del nome Assemblea Musicale Teatrale?
«Noi eravamo estimatori di Gaber, e ci piaceva la sua formula di alternare monologhi a canzoni: quindi era uno spettacolo musicale e teatrale. Assemblea perché venivamo dal movimento ed eravamo compagni che si impegnavano in prima persona, io per esempio andavo a fare controinformazione coi megafoni in giro per i quartieri, eravamo alle manifestazioni, alle riunioni; questo era il nostro progetto, vivere facendo musica ma in quel modo, non in uno qualsiasi. Musicale Teatrale perché facevamo musica e teatro; dal punto di vista del teatro non eravamo professionisti, ma ci eravamo inventati delle figure, delle macchiette che recitavamo noi stessi. Successivamente, una sera che Gaber era a Genova con il suo spettacolo, andammo con coraggio nei suoi camerini a presentarci e a proporgli di sentire i nostri pezzi. Lui era, come già Guccini, persona molto disponibile, si prestò ad ascoltare la sera seguente una parte del nostro repertorio, suonata unplugged in casa di Gian Piero e Alberto. Poi venne a sentirci in un cinema di Milano dove facevamo uno spettacolo anche di mattina per quelli che marinavano – pensa che anni che erano!- infatti il cinema era abbastanza pieno. Ci ascoltò e da lì nacque un sodalizio con Gian Piero Alloisio, essendosi Giorgio reso conto che Gian Piero scriveva molto bene. Quando poi nell’84 Gaber decise di riprovare col gruppo dal vivo, dopo un periodo in cui aveva usato solo le basi, cominciò anche la mia collaborazione con lui in qualità di chitarrista, che è durata, escluso il periodo in cui ha fatto spettacoli prettamente teatrali, fino al 2002.»
Nel frattempo però hai seguito anche la strada dell’insegnamento…
«Nel 1978 io lasciai l’Assemblea, che durò ancora un anno, e mi dedicai all’idea della scuola, ne avevo parlato subito con Gian Piero; inizialmente era pensata solo come scuola di chitarra. Poi si aggregò come insegnante Bruno Biggi, anche lui membro dell’Assemblea: eravamo in tre, ognuno col suo studio in casa. Pian piano abbiamo aggiunto strumenti e insegnanti, abbiamo preso un locale in affitto; il primo collaboratore è stato Massimo Palermo, insegnante di basso, poi Dado Sezzi come insegnante di batteria e percussioni, e la scuola si è ingrandita via via. Abbiamo sempre cercato, nell’insegnamento, di partire da un assunto: la persona che ti trovi davanti, prima di essere un musicista o un futuro musicista, è un individuo. L’idea è di impostare un dialogo, creare una comunicazione e tirare fuori qualcosa partendo dal suo vissuto.»
Tu sostieni che negli ultimi anni ci sia stata e ci sia tuttora una mancanza di novità e di ricerca in musica (segui la rubrica di Gianni Martini su Era Superba n.d.r.); in questo senso, cosa cerchi di insegnare ai tuoi allievi per trasmettere loro lo slancio alla ricerca dell’inedito?
«Innanzitutto dico sempre che la tecnica deve essere al servizio dell’espressività, perché la tecnica fine a se stessa credo sia di poco interesse; i chitarristi di fine anni ’80 che scaleggiavano a velocità stratosferiche rischiavano di annoiare al di là della mentalità del ragazzino che rimane affascinato. L’importante è cosa uno cerca di comunicare con la musica, con lo strumento e con le parole, cosa vuole esprimere. La tecnica ti aiuta a plasmare un’idea che tu hai già dentro. Molto spesso l’esuberanza tecnica nasconde invece povertà di idee. È chiaro che la ricerca è qualcosa di difficile. Ciò che poi rende novità l’idea che hai è il contesto in cui sei. Ai nostri tempi la risposta al conformismo e al piattume asfissiante della società sono stati dei “no!”, dei “basta!” accompagnati da un’espressività artistica che ha fatto da sponda alla volontà di cambiare la realtà. L’idea di cambiamento era così diffusa che si sono create poi le condizioni perché diventasse anche un business economico. Poco per volta anche le major si volsero al fenomeno creando etichette minori con le quali coprire tutto il mercato, dalla musica di ricerca a quella più commerciale.
La mancanza di oggi è molto problematica, i media per come sono strutturati creano una sorta di corto circuito, ogni cosa nuova si brucia subito e il giorno dopo è già copiata in tutto il mondo. Una volta non era così, non essendoci questo enorme specchio mediatico che diffonde e riverbera le cose, le novità che uscivano erano tutte molto diverse tra loro. La novità per me non è tale quando qualcuno scrive qualcosa di nuovo e di bello, non basta; diventa novità quando ha un riflesso in senso sociale.»
Quest’anno la scuola compirà 35 anni: quali sono i progetti a proposito?
«Abbiamo dato il via già l’anno scorso a un programma di stage con musicisti di alto livello, quest’anno avremo Luca Colombo, chitarrista, Fabio Treves che farà una lezione particolare sulla storia del blues, e infine Beppe Gambetta; torna Dado Sezzi con corsi su tutte le tecniche percussive, e Paolo Bonfanti che farà parte del cast di insegnanti come già l’anno passato. Inseriremo anche corsi di canto, chitarra, armonica, percussioni un po’ più popolari che ironicamente abbiamo intitolato “Strumenti contro la crisi”; infine, visto che c’è richiesta in tal senso, vorremmo fare un corso specifico che prepari seriamente chi vuole presentarsi ai reality musicali, visto che continuano a tenere banco.»
Un’ultima considerazione sullo svuotamento della figura del musicista…
«È un aspetto della discussione a cui tengo molto. Il mestiere di musicista sta effettivamente attraversando molte difficoltà e soprattutto a livello istituzionale non c’è attenzione alcuna alla musica, che se fosse considerata nel modo giusto potrebbe dare da lavorare a migliaia di persone, come d’altronde il teatro, l’arte, la cultura che ci si ostina a non considerare, almeno non nei fatti, pilastri della società. Si è persa per di più la ritualità dell’ascolto, ridotto a un momento sul bus, con gli auricolari, tra gli spintoni dei vicini, o a quella troppo alta in luoghi inappropriati, come il ristorante. La musica va ascoltata nei luoghi deputati a sentire musica, che sono i teatri, i luoghi da concerto, i club, i pub… invece viene proposta ovunque ed è talmente inflazionata che poi non ne puoi più.
Se la musica comincia a diventare, come già succede per tanti, un secondo lavoro, non ci può essere la capacità di tenuta professionale richiesta se uno lavora otto ore al giorno a qualcos’altro e dedica due ore a suonare. Investimenti e finanziamenti per far sì che i giovani decidano di fare musica professionalmente non ce ne sono. Perché i metalmeccanici devono avere diritto ad aiuti e il musicista no? Se ci fosse la volontà e la comprensione di queste problematiche si potrebbe far sì che la musica continui a vivere».
Claudia Baghino
foto e video di Daniele Orlandi
Commento su “Gianni Martini, da Fossati a Gaber: intervista al chitarrista genovese”