Dalle quote rosa al chilometro rosa, le difficoltà delle donne di imporsi in ruoli dirigenziali all'interno del mercato del lavoro, tra disparità rispetto ai colleghi maschi e arretratezza italiana. Ma lo sviluppo delle imprese femminili potrebbe agevolare la ripresa economica?
“Non tutti sanno che se l’occupazione femminile arrivasse al 60% il Pil crescerebbe del 7 per cento”, scriveva qualche mese fa la giornalista Lidia Baratta su linkiesta.it. Quello che emerge dagli ultimi report (e quello che sta sotto gli occhi di tutti) è che, per quanto riguarda il settore dell’occupazione femminile, in Italia la situazione è ancora di grande arretratezza rispetto ad altri paesi. Nonostante il più o meno recente dibattito sulle quote rosa aperto in Parlamento e nelle altre istituzioni preposte, resta alto il numero delle donne disoccupate: casalinghe, madri, pensionate, ma anche giovani che, una volta terminato il ciclo di studi, non trovano o non cercano lavoro e si dedicano – volenti o nolenti – alla famiglia. Forse non ce ne rendiamo conto, ma questo fenomeno è talmente diffuso che ha preso anche un nome: “chilometro rosa”, ad indicare la corsa ad ostacoli che le donne sono costrette a correre con i loro colleghi uomini. All’inizio il percorso è lo stesso, poi la corsa si fa impari: le donne compiono questa impresa lavorativa/sportiva con una zavorra sulle spalle che i loro equivalenti maschi non hanno e restano pertanto escluse dal podio dei ruoli dirigenziali.
L’Italia vive uno stallo ineguagliabile e la riflessione su questa situazione è tornata in auge proprio in questa fase storica, in cui la crisi costringe tanti a vivere in povertà (i dati Istat del 14 luglio stimano che il 10% della popolazione, vive in condizioni di povertà assoluta o relativa). Ci si chiede se l’occupazione femminile e l’accesso delle donne ai ruoli di potere possa aiutare a rimettere in moto l’economia.
In generale, sembra una prospettiva non troppo utopica: anche se le imprenditrici sono ancora poche nel nostro Paese (1,5 milioni, pari a circa il 23,6% del totale) e ricoprono ruoli meno rilevanti dei colleghi maschi, le imprese guidate da donne sembrano aver retto meglio alla crisi. Ci sono migliaia di imprese rosa in più rispetto agli ultimi anni: oltre 3 mila in più nel 2013 e 11 mila nuove imprese negli ultimi 3 anni, in base ai dati di Unioncamere.
In Italia le aziende guidate da donne sono poche, meno di 1 su 4, e per la maggior parte si tratta di imprese piccole, con fatturato minore rispetto a quelle a conduzione maschile.
In base ai dati Eurostat 2013, la percentuale di donne in posizione dirigenziale in Italia è poco rassicurante: 34,7%, con calo drastico al 4%, se si considera la presenza femminile nei CdA di società per azioni. Situazione opposta quella delle PMI a conduzione femminile, che resistono alla crisi più di quelle maschili e sono in costante aumento (incremento di oltre il 4% nel 2013 di società di capitali).
I dati nel complesso non sono ancora rassicuranti, ma si stanno facendo progressi verso il consolidamento di un sistema imprenditoriale femminile vero e proprio. A questo proposito, lo scorso 9 maggio nel corso del primo Forum nazionale Terziario Donna a Palermo (organizzato dal Comitato delle donne imprenditrici della Confcommercio, dal titolo “Donne motore della ripresa”) sono stati presentati i risultati dell’osservatorio sull’evoluzione dell’imprenditorialità femminile nel terziario realizzata in collaborazione con il Censis: «Negli ultimi cinque anni» – spiega Luisa Cecchi Famiglietti, Presidente Terziario Donna Ascom Genova e Consigliere Nazionale Terziario Donna – «è cresciuta la percentuale femminile sul totale degli imprenditori, rappresentando 1/3 delle imprese italiane, mentre, a livello di rappresentanza nel sistema Confcommercio arrivano al 50%».
In base ai dati forniti da Ascom, le donne imprenditrici resistono alla crisi meglio degli uomini, dimostrando grande capacità innovativa: dal 2009 il numero complessivo di imprenditori è passato da 4 milioni 514 mila a 4 milioni 308 mila del 2013, con un’emorragia di 206 mila unità (4,6%). Tra le donne le perdite sono state inferiori sia in termini assoluti (-47 mila imprenditrici tra 2009 e 2013) che relativi (-3,5%). L’effetto combinato delle diverse dinamiche ha determinato una crescita seppur lieve del livello di femminilizzazione della nostra imprenditoria: l’incidenza delle imprenditrici sul totale degli imprenditori è passata dal 29,8% del 2009 al 30,1% del 2013.
Commenta Famiglietti: «Va riportata l’attenzione su un’Italia al 74° posto per parità di genere, al 90° per opportunità di partecipazione alla vita economica e al 48° per istruzione femminile e presenza in parlamento. Inoltre 800 mila sono le mamme che, costrette, hanno abbandonato il lavoro negli ultimi 2 anni e oltre 4 milioni le donne che vorrebbero lavorare e non possono. Questi dati sono il segnale di quanto sia necessario immaginare percorsi professionali davvero in grado di conciliare produttività e tempo di lavoro, in quanto la conciliazione tra maternità e lavoro ai livelli apicali rischia di essere impossibile, mancando le strutture, gli aiuti e politiche pubbliche adeguate».
Per quanto riguarda la concentrazione delle imprese guidate da donne, dal report fornito nel 2013 da Unioncamere – Osservatorio dell’imprenditoria femminile si nota che le regioni più virtuose sono Molise (29,7%), Abruzzo (27,8%) e Basilicata (27,7%). Tra le province, invece, Avellino e Benevento, con oltre il 32%, Frosinone e Isernia, che superano il 30%, Chieti, Campobasso e Grosseto con percentuali superiori al 29%. La Liguria si attesta a quota 24,4% assieme a Puglia e Toscana, dato superiore alla media nazionale del 23,6%. Tuttavia, la nostra regione registra un calo dello 0,99% rispetto al 2012, con la chiusura di oltre 400 aziende a gestione femminile, su un totale di 510 chiusure.
Stando ai dati che ci fornisce Confesercenti Liguria, nel primo trimestre 2014 le “aziende rosa” (in generale quelle a maggioranza femminile, con il CdA composto al 60% da donne) in Liguria erano 713, di cui 384 a Genova. Per quanto riguarda l’età, il 51% delle donne titolari di imprese fanno parte della fascia compresa tra i 35 e i 50 anni, ma si tratta di una stima approssimativa in quanto gran parte delle donne in questione proviene da un background imprenditoriale famigliare e spesso iniziano da giovanissime a muovere i primi passi in azienda, arrivando però a ricoprire ruoli chiave solo in età più adulta.
Ad oggi in Liguria la percentuale di imprenditrici in età compresa tra i 20 e i 35 anni è il 17,1, seppur in leggero aumento rispetto agli scorsi anni, resta bassa se comparata al 51% della fascia superiore.
Nessuna sorpresa. In Italia l’incidenza più bassa si registra nelle costruzioni (solo l’1,95% del totale, contro il 98,05% degli uomini), mentre percentuali più alte si riscontrano nel settore della moda, in cui le donne sono più degli uomini, e nel campo benessere e sanità (46,57%).
In generale, in base ai dati forniti dall’Osservatorio Confcommercio-Censis sull’evoluzione dell’imprenditorialità femminile nel terziario tra il 2009 e il 2013, si riscontrano: 74 mila nuove attività di commercio al dettaglio (abbigliamento, alimentare, arredo, etc); 35 mila attività di ristorazione e catering; 24 mila istituti di bellezza, centri estetici; quasi 20 mila imprese di commercio all’ingrosso; circa 8 mila donne si sono registrate alla Camera di commercio rispettivamente come agenti o intermediari assicurativi e altrettante come agenti immobiliari, mentre 5 mila hanno avviato attività di manutenzione e pulizia di edifici.
Infine, aumenta la quota di imprenditrici straniere, soprattutto nei settori come servizi alla persona, sanità e agenzie immobiliari. Racconta Ilaria Mussini, Consigliere Terziario Donna Ascom Genova: «Il numero di imprenditrici straniere in Italia è cresciuto di oltre 20 mila unità dal 2009, con le cinesi in testa a tutte (+45,5%), rappresentando nel 2013 ben il 17,4% delle donne di origine straniera alla guida di un’azienda, seguite da rumene (8,9%)».
Lo stesso discorso vale per la Liguria: anche qui i settori privilegiati restano quelli tradizionalmente associati alla cultura di genere femminile, ovvero cultura, servizi e turismo. Si pensi che su 713 aziende rosa di Confesercenti ben 502 sono riconducibili a questi tre settori.
Si evince, dunque, che sia a livello nazionale che regionale è il terziario il settore preferito dalle donne per l’avvio di attività, con il 76% delle nuove imprenditrici italiane: il 58,6% (ma nei servizi la percentuale è del 60,3%) ha tra i 30 e 50 anni, e il 19,1% meno di 30 anni. Questa spiccata preferenza per il settore terziario vale soprattutto per quanto riguarda le giovani e giovanissime: ben l’82,3% del totale delle nuove imprenditrici con meno di 30 anni sceglie i servizi per l’avvio di una nuova attività, e stessa preferenza esprime il 78,2% di quante hanno tra i 30 e 50 anni.
Cosa facevano queste ragazze prima di fare il salto al lavoro in proprio? In piccola parte provenivano da un’altra occupazione di tipo per lo più dipendente, mentre in maggioranza (rispettivamente 37,9% e 39,4%) si trattava di disoccupate/alla ricerca del primo impiego, oppure di casalinghe/studentesse.
In generale, queste due categorie – giovani e donne – restano discriminate: per questo, si sta tentando da parte di Confesercenti di aprire un dialogo tra il progetto ministeriale Garanzia Giovani (qui l’approfondimento) e il mondo dell’imprenditoria femminile under 35, in modo da far confluire parte dei finanziamenti della Youth Guarantee nel settore delle “aziende rosa”.
La discriminazione tra lavoratrici/lavoratori e tra imprenditrici/imprenditori spesso si registra già nell’accesso alla professione e durante il percorso della vita lavorativa, in cui le donne – specie se qualificate e laureate – sono più sottoutilizzate degli uomini. Qualora queste prime problematiche vengano superate, spesso ci scontra con lo scoglio più insormontabile: la retribuzione inferiore delle donne, a parità di mansione. Questo fenomeno viene denominato gender pay gap: la media europea di divario si attesta attorno al 16% (a fronte di uno stipendio medio maschile di 2 mila euro, una donna ne guadagna in proporzione circa 1600 e nell’arco di un anno dovrebbe lavorare due mesi all’anno in più per eguagliare lo stipendio del collega uomo). I dati relativi all’Italia all’apparenza stupiscono: il gender pay gap qui è del 5,5%, ma bisogna considerare che nel nostro Paese il tasso di occupazione femminile è tra i più bassi d’Europa (tasso di inattività femminile quasi quattro volte quello della media UE).
Il dato reale è che, a parità di posizione, la retribuzione per le donne è inferiore di circa il 20% rispetto a quella maschile: una stima che sale anche vertiginosamente a seconda dei settori, con percentuali che variano tra il 24 e il 18, e per le donne meno scolarizzate. Un retaggio del passato? Oggi le cose non stanno più così? Un pensiero comune, ma purtroppo errato: di questa discriminazione soffrono tutte, dalle giovanissime (-8,3% di retribuzione rispetto ai coetanei) alle più adulte (12,1%).
Se effettivamente il mercato del lavoro femminile è così svantaggiato rispetto a quello maschile, come far fronte alle difficoltà di natura economica che si presentano per un’imprenditrice?
Stando a quanto evinciamo dalle nostre ricerche (cosa che confermano anche da Confesercenti Liguria), non esistono veri e propri incentivi specifici per una donna che voglia aprire un’azienda, sia a livello nazionale che locale (regionale, provinciale, comunale). Al momento, l’attenzione maggiore si riscontra a livello statale, con misure quali il protocollo d’intesa ABI per agevolare l’accesso femminile al credito, e alcune misure intraprese dai ministeri.
A livello locale, confermano da Confesercenti, in questo momento in Liguria non sono previsti fondi, né vantaggi di altro tipo . Tuttavia, potrebbe trattarsi di una situazione transitoria, e già da settembre potrebbero arrivare nuove proposte di incentivi e bandi ad hoc. Esistono, però, agevolazioni indirette, come l’ottenimento di un punteggio più alto nei bandi di gara o una maggiore attenzione in genere per gli under 35.
Ma la situazione si complica se si parla diaccesso al credito. Conferma la presidente Terziario Donna Ascom Genova Luisa Cecchi Famiglietti: «A fronte di una situazione di incremento nel settore imprenditoriale in rosa, secondo quanto sostengono Bankitalia e l’Osservatorio Confcommercio le imprese femminili soffrono di un accesso al credito più difficoltoso rispetto a quelle a guida maschile: sono profondamente negative soprattutto le condizioni relative alle garanzie richieste dalle banche (16,0 contro 17,7). Le imprese femminili continuano a lamentare una condizione di maggiore difficoltà rispetto al resto delle imprese italiane del terziario (16,0 contro 19,5) tanto che è al lavoro un protocollo ABI e Ministero delle Pari Opportunità proprio allo scopo di monitorare l’andamento del credito alle imprese femminili».
Oltre al protocollo ABI, un’ulteriore risorsa per facilitare il rapporto del gentil sesso con le banche è l’istituto dell’Arbitro Bancario Finanziario: un sistema per la risoluzione stragiudiziale delle controversie in ambito bancario e finanziario tra intermediari finanziari e clientela (sia imprese che consumatori). ABF, strumento per la corretta uniformazione dei comportamenti bancari, prevede un massimo di 6 mesi per la risoluzione di ciascun procedimento, con soli 20 euro. In particolare, si occupa di risolvere controversie legate a investimenti bancari, recesso o mancato finanziamento in termini arbitrari, modifiche unilaterali delle condizioni contrattuali, aperture di credito in conto corrente.
Esiste, inoltre, sempre a livello nazionale, un fondo di garanzia per le imprese costituite in prevalenza da donne. Si tratta di una misura introdotta mediante decreto 27 dicembre 2013 del Ministero dello Sviluppo Economico, finalizzata agli interventi a favore delle imprese femminili. Il fondo vuole facilitare l’accesso femminile al credito. Le risorse a disposizione ammontano a 20 milioni di euro e sono impiegate per interventi di garanzia diretta, controgaranzia e cogaranzia: una quota pari al 50 per cento della dotazione è riservata alle nuove imprese (start up).
Sullo stesso fronte si sta muovendo anche Confesercenti, con l’istituzione di confidi supportati dalle Camere di Commercio, contro la discriminazione delle banche: non esiste ancora un riferimento specifico, ma ci sono vari soggetti che agevolano l’elargizione monetaria.
Ci sono delle strutture che supportano le imprese femminili, in Italia e in Liguria?
Tra le strutture ufficiali preposte alla tutela del mondo imprenditoriale femminile, all’interno di Ascom Genova (a livello provinciale) e di Confcommercio (a livello nazionale) è operativo il Comitato Terziario Donna. Si tratta di un’organizzazione costituita nel 1989 in seno ad Ascom della Provincia di Genova per la promozione e lo sviluppo dell’imprenditoria femminile negli ambiti sociali ed istituzionali, favorendo il conseguimento delle pari opportunità e il completamento della formazione professionale. Inoltre, la stessa Confesercenti, al cui interno esiste un ramo per l’imprenditoria femminile (CNIF – Coordinamento Nazionale per l’Imprenditoria Femminile) per fornire supporto e per rendere consapevoli le imprenditrici degli strumenti a loro disposizione, facilitando il percorso professionale. Inoltre, esistono comitati di imprenditoria femminile (i cosiddetti CIF) anche all’interno della Camera di Commercio. A livello regionale, molte di queste associazioni sono andate a costituire una rete e cooperano per lo svolgimento di attività di animazione, promozione e divulgazione della cultura dell’impresa in rosa. Le associazioni in questione seguono le imprenditrici (o aspiranti tali) passo passo nel loro percorso: già nelle fasi iniziali, le aiutano a capire come fare impresa, progettando insieme un businessplan e accompagnandole verso l’avvio dell’attività. Inoltre, ancora prima, offrono la possibilità di fare un’autovalutazione per capire se la persona possiede l’attitudine e la stoffa dell’imprenditrice, prima di lanciarsi in un percorso oneroso in termini di energie e risorse.
Inoltre, c’è poi una rete di strutture “ufficiose” che a livello nazionale conta ormai migliaia di unità, tanto che ormai è difficile orientarsi.
Ci aiuta a rispondere Patrizia de Luise, presidente di Confesercenti Liguria e Coordinamento Nazionale Imprenditoria Femminile, nonché membro di giunta camerale della Camera di Commercio: «Non ci si può improvvisare imprenditrici: in questo periodo di crisi, molte donne si trovano magari disoccupate, magari a dover mandare avanti una famiglia, e pensano che la soluzione più semplice per reinserirsi nel mondo del lavoro sia aprire la partita iva e mettersi in proprio. Ma non è così semplice: bisogna essere cauti e consapevoli, visto che si mettono in gioco grandi quantità di soldi propri che non vengono restituiti in caso di fallimento. Per questo, è importante affidarsi alle associazioni di rappresentanza, da Confesercenti a Confcommercio e tutte le altre sigle riunite in R.ET.E Impresa Italia e contattare gli sportelli locali per avere un accompagnamento».
«Il sistema italiano è il vero ostacolo al lavoro femminile e alla ripresa del Paese – commentano da Ascom – l’Ocse segnala infatti che se nel 2030 la partecipazione femminile al lavoro raggiungesse i livelli maschili, la forza lavoro italiana crescerebbe del 7% e il Pil pro capite di un punto percentuale l’anno (con una crescita totale del 17%). Ecco perché le donne sono indispensabili per aumentare la forza lavoro in un Paese e in un’Europa a crescita zero, dove nel corso dei prossimi 15 anni si perderanno 20 milioni di lavoratori, anche calcolando il saldo della forza lavoro immigrata. Le donne spesso rinunciano ad avere un’occupazione (sia come imprenditrice che come dipendente) proprio per la grande mancanza di servizi e in quanto il carico del lavoro di cura e famigliare è sempre sulle loro spalle, ne consegue che il tempo dedicato alla cura non può essere destinato al lavoro, si rinuncia oppure se ne dedica meno e ciò si traduce in un’opportunità sprecata per la crescita dell’azienda e personale».
Allo stesso modo si esprime anche Patrizia de Luise: «Che lo sviluppo dell’imprenditoria femminile e della donna in genere possa portare benefici alla società in termini economici, è un dato conclamato da fior fiore di economisti. Nella pratica, però, si è ancora troppo lontani da questo sviluppo: bisogna intervenire sui limiti del sistema, sul welfare (per permettere alle donne di conciliare realmente famiglia e lavoro) e sul sistema di accesso al credito. Oggi il numero di imprenditrici è sì in aumento, ma le donne si buttano in imprese piccole e poco rischiose, con minor forza di incisione. Questo trend deve finire: favorire il lavoro femminile significa favorire la libertà delle donne e degli uomini. Donne realizzate e con un proprio reddito che permette loro di badare a loro stesse e ai loro figli, sono donne libere di decidere della propria vita; sono donne libere di scegliere di andarsene, per esempio, da un marito violento. Questo è un problema anche degli uomini: non è meglio avere a fianco una donna realizzata e indipendente? Dovrebbe essere così, in un sistema sociale sano».
Per dirlo con una metafora calcistica utilizzata dal presidente di Confcommercio Sangalli, «puntare sulle donne è conveniente per l’economia e per l’Italia, quindi perché lasciare in panchina un buon giocatore in una partita così delicata?»
Elettra Antognetti