Martedi 17 aprile alle ore 18 il film sarà presentato in anteprima nazionale presso il Cinema Sivori in Salita Santa Caterina 12
Dieci giovani uomini tra i 20 e i 30 anni di età, italiani e stranieri, davanti alla telecamera raccontano la loro esperienza quotidiana e personale dentro il penitenziario più affollato della Liguria. Ma non si tratta di un’azione di denuncia fine a se stessa, piuttosto di un processo di ricerca reso possibile dall’instaurazione di una relazione continuativa tra i protagonisti del video e gli autori, un punto di vista parziale ma indipendente, una scelta precisa e consapevole, ovvero quella di dare la possibilità di parola a chi non l’ha mai avuta e invitare la società a guardarsi allo specchio attraverso i corpi, i volti e le voci dei giovani che hanno partecipato al film.
Il documentario è il risultato di un prezioso lavoro promosso dal Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova – uno spazio sperimentale all’interno della Facoltà di Scienze della Formazione, nato dall’esigenza di utilizzare l’audiovisivo come linguaggio accessibile a tutti per la divulgazione dei risultati della ricerca sociale e la telecamera come strumento di indagine della realtà sociale – un gruppo eterogeneo, formato da sociologi, ricercatori, studenti, registi, artisti e video maker, in collaborazione con il Centro Frantz Fanon ed il Ser.T ASL 4 di Chiavari sui giovani adulti in carcere.
Martedi 17 aprile alle ore 18 “Loro Dentro”, questo il titolo del film, sarà presentato in anteprima nazionale presso il Cinema Sivori in Salita Santa Caterina 12. (Il trailer è visibile al link http://www.laboratoriosociologiavisuale.it/lab/?p=5)
«Dall’incontro con il direttore del carcere di Marassi, Salvatore Mazzeo e con l’assessore provinciale alle carceri, Milò Bertolotto è scaturita la nostra proposta di realizzare un laboratorio video all’interno delle mura del penitenziario di Marassi coinvolgendo una decina di giovani detenuti – spiega Francesca Lagomarsino, sociologa, ricercatrice presso l’Università di Genova – la nostra intenzione era confrontarci con i reclusi attraverso un percorso di conoscenza reciproca e metterli in condizione di esprimere quello che sentivano come maggiore esigenza di comunicare all’esterno. E così i ragazzi hanno deciso di raccontarci la loro vita all’interno del carcere, un racconto, ovviamente soggettivo, di una quotidianità che oscilla tra le domandine, l’attesa di un colloquio, la speranza di ottenere le pene alternative».
Il film è uno strumento per informare, sensibilizzare e riflettere sulla situazione del carcere in Italia, proprio a partire dalle narrazioni dei detenuti coinvolti nel laboratorio. Il gruppo di lavoro – composto da Massimo Cannarella, Francesca Lagomarsino, Luca Queirolo Palmas, Fabio Seimandi, Simone Spensieri, Cristina Oddone – ha girato insieme a loro nei luoghi del carcere quali ad esempio la sala colloqui, l’aria, il campo, le cucine, i corridoi delle sezioni, provando a raccontare le storie di vita dei protagonisti, biografie spesso segnate dalla migrazione, dell’emarginazione sociale, della tossicodipendenza.
«Ci interessava raccontare il carcere dal punto di vista di chi lo abita nella quotidianità – spiega Cristina Oddone, videomaker, dottoranda in Sociologia presso l’Università di Genova e regista del documentario – quali sono le pratiche di adattamento o di resistenza all’interno dell’istituzione penale, quali relazioni si stabiliscono tra i detenuti, se riflettono le appartenenze culturali o se queste vengono negoziate in funzione di altri interessi (scambi economici, relazioni di potere, alleanze, favori, ecc.). Abbiamo voluto creare una relazione continuativa recandoci in carcere ogni settimana per 5 mesi (tra febbraio e giugno 2011) proprio per superare l’urgenza della denuncia, sia per andare più in profondità rispetto alle traiettorie biografiche dei giovani, sia per non ripetere le notizie sul carcere prodotte da stampa e televisione. C’è voluto tempo per arrivare a identificare i nodi fondamentali della narrazione. Penso che sia stato un processo di ricerca per noi, ma soprattutto per loro: il percorso comune li ha aiutati a guardarsi dentro, ha creato la possibilità di uno spazio di riflessione sul proprio vissuto».
«Il laboratorio video è stato lo strumento per costruire questa relazione, offrendo ai detenuti la possibilità di “mostrarsi” alla telecamera, utilizzando il proprio linguaggio, la propria fisicità, guidandoci negli spazi della loro vita quotidiana – racconta Oddone – i temi che emergono, soprattutto all’inizio, sono quelli di loro interesse: come si fa la spesa, quali sono le possibilità di lavorare, come si trasformano le relazioni con la famiglia».
«Abbiamo superato un’inevitabile distanza iniziale grazie ad un approccio graduale – continua Oddone – Il visuale è stato uno stimolo fin dall’inizio, una sorta di mediazione: abbiamo visto insieme film, documentari, video clip, frammenti del materiale girato. Riconoscersi sullo schermo è stato molto importante per i ragazzi che hanno compreso la preziosa opportunità offerta dalla realizzazione di questo video».
Due fattori hanno contribuito a creare questo clima di confidenza e fiducia reciproca, come spiega la regista «In primis la continuità della nostra presenza, in uno spazio assolutamente privo di cura, dove le iniziative sono per lo più sporadiche e saltuarie, dove non c’è certezza di niente e si può essere trasferiti da un giorno all’altro senza essere avvisati; e ancora il fatto che il nostro fosse un gruppo di 6 persone, uomini e donne con età e saperi differenti, ha permesso l’instaurazione di dinamiche di gruppo ma anche di relazioni individuali».
«Non abbiamo mai avuto nessun interesse nell’indagare il “perché sono finiti dentro”, nel senso stretto di “quali reati avete commesso” – precisa Oddone – ma di cercare piuttosto le cause macro sociali che portano giovani, poveri, per lo più stranieri, moltissimi tossicodipendenti, a un destino di isolamento, solitudine e castigo, così come è oggi l’esperienza del carcere in Italia».
E due sono anche le criticità maggiori del sistema penitenziario italiano, emerse in tutta evidenza dall’esperienza del laboratorio video. «Innanzitutto parliamo di giovani che appartengono a classi sociali medio-basse, alcuni transitati da dolorose esperienze di tossicodipendenza – spiega Lagomarsino – Oggi il carcere è diventato un contenitore di persone che non hanno potere economico, che non dispongono di buoni avvocati, molti sono i reclusi per reati minori come il piccolo spaccio o l’assenza di documenti, nel caso di stranieri». Quindi l’attuale presenza in prigione di una larga parte di detenuti appare legata in misura preponderante alla marginalità sociale da cui essi provengono, piuttosto che alla gravità dei reati commessi.
«Il secondo aspetto che emerge è il fallimento delle politiche alternative alla detenzione – continua Lagomarsino – Ci sono storie di ragazzi transitati attraverso l’affidamento esterno ad esempio a servizi come i Ser.T (i servizi pubblici per le tossicodipendenze). Giovani che hanno iniziato un percorso di distacco dalla tossicodipendenza ottenendo relazioni positive e magari anche l’opportunità di un posto di lavoro. Ma poi, proprio nel momento in cui stanno provando a ricostruirsi un futuro nella società, ecco arrivare il verdetto della pena definitiva».
Questa è la schizofrenia delle istituzioni che «Delegittima i servizi forniti dallo Stato e il cui operato ed i risultati raggiunti, non vengono riconosciuti – sottolinea Lagomarsino – In altri termini, nel momento in cui, grazie alle misure alternative alla detenzione, si intraprende un percorso e in alcuni casi si conclude positivamente, questo non viene valorizzato adeguatamente». In pratica la pena provvisoria permette l’inserimento in un circuito di inclusione sociale – faticosamente portato avanti tra mille ostacoli dalle istituzioni più sensibili, operatori sociali e realtà del volontariato – che però viene inesorabilmente spezzato quando la condanna diventa definitiva.
Per gli stranieri le problematiche maggiori sono dovute al permesso di soggiorno «Persone che al termine del periodo di detenzione escono dal carcere e si ritrovano al punto di partenza, ovvero senza documenti – racconta Lagomarsino – a causa delle evidenti difficoltà a trovare un lavoro e reinserirsi nel tessuto sociale dopo l’esperienza della detenzione, per i più deboli è fin troppo facile ricadere in un circolo vizioso e ritrovarsi nuovamente reclusi». Senza dimenticare che «All’interno delle prigioni italiane purtroppo le opportunità sono limitate, quasi assenti le attività riabilitative e la possibilità di lavorare è un privilegio per pochissimi – conclude Lagormasino – Per questo motivo vanno incentivati i percorsi alternativi. La presenza in regime di detenzione di ragazzi così giovani è completamente inutile e dannosa ai fini del loro recupero».
«Abbiamo cercato di capire cosa vuol dire avere 20 anni e stare in carcere, in un momento di massima vitalità e possibilità di costruirsi un futuro – racconta Oddone – questi giovani subiscono un destino che non è stato scritto da loro: molto spesso la scelta di migrare è stata quasi imposta; in generale la decisione di delinquere è l’unico modo per sopravvivere in una società che non offre molte prospettive a chi non ha ereditato dalla famiglia la possibilità di studiare, viaggiare, lavorare».
Il fallimento delle politiche riabilitative dimostra in qualche modo la funzione reale del carcere, assai diversa rispetto a quella ufficialmente dichiarata «Rinchiudere gli “scarti della società”, isolarli e nasconderli piuttosto che rieducarli e fornirgli le cure adeguate soprattutto nel caso delle tossicodipendenze – sottolinea la regista – Oggi la detenzione porta alle perdita di sé anziché alla riabilitazione. Il sistema carcerario infatti riproduce e mantiene l’ordine sociale esistente e gli stessi meccanismi di confinamento, siano essi di classe o di razza».
Quali sensazioni ti ha lasciato l’esperienza all’interno del penitenziario di Marassi ?
«È un mondo di grandissimo dolore ed è faticoso affrontarlo con distacco – conclude Cristina Oddone – Un grande senso di ingiustizia sociale, non solo legato al carcere ma alla società in generale. L’idea che l’essere umano ha la possibilità di emanciparsi se gli viene concessa la possibilità di esprimersi, sviluppare se stesso, la propria identità e la propria socialità: la trasformazione di una società passa da questa stessa possibilità».
Matteo Quadrone
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