Marco Ongaro e Vittorio De Scalzi hanno messo in musica la poesia di Riccardo Mannerini
Il cantautore veronese Marco Ongaro ha curato le liriche del disco "Gli occhi del mondo" di Vittorio De Scalzi
Marco Ongaro è un cantautore di Verona, ha adattato le poesie di Riccardo Mannerini per “Gli occhi del mondo“, l’ultimo album pubblicato da Vittorio De Scalzi.
Ongaro è stato vero e proprio tramite fra i versi di Mannerini e la musica di De Scalzi, proprio come accadde nel 1968, quando il disco dei New Trolls “Senza Orario Senza Bandiera” si avvallò della collaborazione di Fabrizio De Andrè.
Oggi, dopo oltre quarantanni, quel ruolo è stato di Marco. “Era la prima volta che lavoravamo insieme – racconta il cantautore – di lì in poi abbiamo scoperto il piacere di una sintonia fondata principalmente sulla stima reciproca, dunque sul massimo rispetto per la dimensione artistica dell’altro. Su indicazione dello storico della canzone Enrico De Angelis, Vittorio si è rivolto a me con la fiducia e il viso aperto che subito gli riconobbi come elementi fondamentali della sua indole. Avevo letto la raccolta di poesie di Riccardo Mannerini nei giorni precedenti il mio arrivo a Genova, cominciai a lavorare sui testi mentre viaggiavo in treno da Verona e arrivato a casa di Vittorio avevo già due testi pronti!”
“Nei giorni successivi lavorammo sempre, in ogni istante, ad ogni ora e in ogni occasione… un atelier in piena funzione! Fare il grosso del lavoro in più di dieci giorni avrebbe significato frenare l’ispirazione per la considerazione sciocca che serva molto tempo a creare qualcosa di buono. Non è così, nella storia della musica e della poesia ci sono opere scritte di getto ancora difficili da eguagliare, quando il tornado si leva, non si può che seguirne il vortice. Ho cercato di dare il mio apporto senza interferenze competitive, tutto all’insegna di una collaborazione lontana da impulsi ragionieristici. In seguito abbiamo applicato lo stesso metodo alla costruzione delle canzoni per il mio spettacolo teatrale sulla Costituzione, L’Alba delle libertà, con analoghi risultati. Le nostre rispettive sensibilità si sono calibrate l’una sull’altra in miracolosa armonia. Eravamo diretti a uno scopo, consapevoli che non esiste al mondo lavoro più bello che quello di creare”.
Cosa significa interpretare i versi di un poeta e tradurli in canto? Quanto c’è dei tuoi “occhi” in questi “occhi del mondo”?
“In alcuni brani, come ne L’ultimo altare, c’è molto di Mannerini e molto di me. Mai che ci sia poco di suo e tanto di mio, semmai viceversa. Come prima cosa ho cercato di assumere in me l’essenza del mondo che Mannerini trasmetteva nelle sue poesie. Poi, dando ad esse forma metrica e rime, ho aggiunto e levato in ordine al mio gusto in fatto di canzone, lasciando che l’immedesimazione prendesse il giusto sopravvento dando voce con immagini mie a sentimenti stimolati dal poeta. Esiste una zona grigia in ogni poesia che meriti tale qualifica, un’area ispirativa imprendibile e interpretabile in più modi, a più livelli. Ecco, l’orgoglio per il mio lavoro sta nel rispetto di quest’area e nella riproposizione, pur tra mille modifiche, del medesimo spirito imprendibile.
“Siamo gli occhi del mondo / ma tali / non dobbiamo rimanere”… scrive Mannerini…
“E smettiamola / di guardarci le mani”, così si conclude la breve poesia. Mani che rimangono inerti e non creano, occhi che non guardano altrove, che non cercano per il mondo ciò che il mondo dovrebbe vedere. “Siamo gli occhi del mondo” è l’esortazione a una testimonianza vigile, a una responsabilità attiva. Vittorio e io abbiamo chiuso la canzone con il pensiero estetizzante e ammirato sulle ragazze che escono nella bella stagione, nei loro abiti a fiori. Un tantino decadente, certo, ma almeno si è smesso di guardarsi le mani e, da questa bellezza che è vita, si può ricominciare a testimoniare. La canzone dà il titolo al cd perché rappresenta il vigore vitale della poesia di Mannerini, i suoi ritratti sono il risultato del frugare tra le pieghe del mondo per rappresentare ai sordi la necessità di non addormentarsi, di stare all’erta nell’universo delle ingiustizie e delle fatalità, di leggere almeno il labiale della realtà per cercare la verità sottostante.
Gabriele Serpe