«Fare l'archeologo è un mestiere duro, anche dal punto di vista fisico, ma permette di sviluppare capacità logica e un atteggiamento mentale aperto...»
Chi era presente? Quando? Perché si trovava lì? Quali testimonianze si hanno a disposizione? Queste non sono le domande di un detective sulla scena del delitto, bensì di un archeologo… «Un libro di introduzione all’archeologia che studiai all’università paragonava la nostra professione a quella di Sherlock Holmes…» afferma Giovanni Battista Parodi, dottorato in Archeologia Medievale all’Università di Siena, ma residente in Valle Scrivia e direttore di uno scavo di oltre ottocento metri quadrati a Montessoro, paesino sulle alture dell’entroterra ligure a venti minuti di strada da Isola del Cantone. Siamo andati sul posto ad incontrare il direttore per un’intervista.
«Si tratta – prosegue Parodi – del primo scavo in estensione dell’Appennino Ligure di età romana imperiale tardo-antica. Abbiamo scoperto un sito rurale, verosimilmente una fattoria, abitato in fasi alterne tra il I secolo a.C. e il VI secolo d.C. Sorgeva lungo la fittissima rete di mulattiere che collegavano Genova alla Pianura Padana, anche se è probabile che il centro sul quale tutta questa zona gravitava fosse in realtà quello di Libarna (nei pressi dell’attuale Serravalle Scrivia, ndr), distante circa venti chilometri.»
Quali elementi di interesse storico sono emersi?
«E’ uno scavo molto rilevante dal punto di vista archeologico in quanto permetterà di avere un quadro completo con ipotesi cronologiche e socio-economiche inedite su questo periodo e questa zona. L’archeologia medievale ligure è infatti una materia relativamente giovane, in quanto nel passato l’interesse era più che altro rivolto alla parte artistico-monumentale e la ricerca privilegiava le classi sociali più alte e agiate. Anche per questa ragione gli scavi relativi al periodo tardo-antico (IV-V secolo d.C.) e alto-medievale (VI-VIII secolo) sono stati sempre molto ridotti. Mi sembra comunque giusto sottolineare che il quadro che ci siamo fatti è ancora provvisorio, in quanto lo scavo, che è iniziato nell’estate del 2009 e finirà quest’anno, è tuttora in evoluzione. La planimetria del sito è comunque stata identificata nella sua completezza e i dati raccolti saranno analizzati in seguito con un’analisi dei materiali e dei reperti venuti alla luce. Tra essi, abbiamo ceramica da fuoco, anfore e piatti da mensa e altri oggetti particolari, per esempio un colino in bronzo. Dal punto di vista edilizio, i tetti erano in tegole mentre le case avevano pianta quadrangolare, presentando poche finestre al fine di mantenere quanto più possibile il calore. I muri eretti tra V e VI secolo, tra l’altro, non sono lavori banali, ma opera di muratori specializzati. Lo studio dei semi rinvenuti indicherà invece i tipi di cereali presenti, così come le ossa animali che abbiamo trovato riveleranno quali bestie venivano allevate dal nucleo famigliare – nel IV e V secolo forse i nuclei erano due – che abitava il sito».
Ma chi erano gli abitanti del sito e come mai si trovavano lì?
«Probabilmente si trattava di contadini che tuttavia non finalizzavano la loro attività alla vendita di prodotti agricoli e si dedicavano anche alla pastorizia e all’allevamento. E’ anche probabile che usassero il bosco per ottenere legname. Mi tocca purtroppo ripetermi dicendo che dovremo comunque aspettare la fine dello scavo e dell’analisi dei dati per avere un quadro più chiaro. Sicuramente, l’obiettivo è proprio quello di illuminare alcuni punti oscuri riguardo alla storia della Valle Scrivia. Riguardo ai documenti scritti abbiamo infatti un buco nero di circa seicento anni che arriva fino al 1200».
Non è solo ciò che lo scavo sta facendo emergere, ma la storia stessa di come è nato a essere affascinante…
«Stavo iniziando a scrivere la tesi di Dottorato sull’archeologia medievale della Valle Scrivia e i dati che avevo a disposizione erano ridotti, per usare un eufemismo. Proprio in quel periodo, un contadino di Montessoro aveva trovato delle tegole in questa zona, facendo partire una segnalazione. Venutone a conoscenza, chiesi subito l’autorizzazione a fare un piccolo saggio per vedere se potesse emergere qualcosa di interessante. Il campo che mi si presentava davanti era di ben milleduecento metri quadrati e i tentativi che avevo a disposizione erano limitati. Bisogna tra l’altro considerare che il sito, nei pressi del Castello Spinola del XIV secolo, era stato spianato e raso al suolo nel XVIII secolo. Individuai un punto preciso e decisi di scavare lì. Non avrei potuto davvero scegliere un punto migliore, in quanto scoprii l’intersezione di tre edifici che abbiamo poi portato alla luce! A quel punto ho subito contattato la Cattedra di Archeologia Medievale all’Università di Torino, che ha immediatamente mostrato grande interesse. Il sito offre infatti la possibilità di avere dei dati sulla zona appenninica ligure-piemontese e far svolgere degli stage agli studenti di Torino al fine di accumulare crediti formativi.»
Proprio il concetto di condivisione è fondamentale nell’archeologia, giusto?
«Non per fare i soliti vuoti discorsi retorici, ma non è davvero possibile fare uno scavo di questo genere da soli. Le circostanze e gli studi a priori mi hanno portato a individuare questo sito, ma non sarei arrivato da nessuna parte senza il lavoro di gruppo con gli altri responsabili dello scavo, tutti laureati e dottorati, Daniela De Conca, Valeria Fravega, Marco Ippolito, Alessandro Panetta e Paolo De Vingo, quest’ultimo proveniente dall’Università di Torino e Direttore scientifico dei lavori. L’aiuto dei ragazzi in stage – circa quindici – dell’Università di Torino è altrettanto importante. Fare l’archeologo è un mestiere duro, anche dal punto di vista fisico e c’è bisogno del lavoro di tutti. Questa, oltre ovviamente agli aspetti più strettamente legati alla ricerca, è la parte di questo lavoro che più ho imparato ad apprezzare.»
Quali sono gli scenari futuri che si apriranno in seguito a questo scavo?
«Come dicevo in precedenza, si aprirà un quadro storico, economico e sociale più definito, che verrà sintetizzato nella pubblicazione di un volume con il cappello accademico dell’Università di Torino. Rimarranno comunque tante cose da capire, perché l’archeologia offre tanti elementi per ragionare, ma lascia sempre anche dei punti oscuri. Come già accennato, dal punto di vista archeologico e documentario esiste davvero pochissimo sulla Valle Scrivia dell’età tardo-imperiale e medievale, ma questo non significa che l’area fosse stata spopolata, per quanto sicuramente la popolazione dell’Alto Medioevo si fosse contratta. Per esempio, abbiamo dei castelli risalenti al XII e XIII secolo, ma in molte parti d’Italia ne abbiamo di precedenti. Sarebbe interessante scavare per trovare altri castelli, perché attraverso di essi possiamo capire gli insediamenti circostanti. Vale la pena inoltre approfondire ciò che riguarda la cristianizzazione della zona, altro punto molto oscuro.»
In quale modo l’archeologia è una disciplina arricchente a livello personale?
«Sicuramente, il fascino dell’archeologia va aldilà dell’aspetto di ricerca finalizzata a una pubblicazione accademica. L’archeologia permette di sviluppare la capacità logica e un atteggiamento mentale aperto, dato che un errore che un archeologo deve assolutamente evitare è quello di fissarsi su preconcetti sempre suscettibili a essere smentiti da successive scoperte. Inoltre, per quanto mi riguarda, il bello di scavare nelle zone dove sono nato è quello di scoprire la storia della mia terra e capire meglio le mie origini. Tra l’altro, il modello che uno scavo di questo tipo riesce a creare non è ristretto a un’area geograficamente circoscritta, come magari si potrebbe pensare. A dimostrazione di ciò, un docente dell’università spagnola di Vitoria ha mostrato grande interesse per il nostro sito, trovando delle analogie con lavori che la sua équipe sta svolgendo nella sua zona. In questo modo, il nostro lavoro ha una portata locale e internazionale allo stesso tempo.»
Un punto di riferimento da imitare tra gli archeologi italiani?
«Sicuramente il Professor Tiziano Mannoni, mancato purtroppo due anni fa, una figura fondamentale nell’archeologia medievale italiana. Insegnava alla Facoltà di Architettura a Genova. Oltre alle sue notevoli competenze e alla sua grande esperienza, ti sapeva coinvolgere con il suo modo di fare accogliente e umano. Per me e per molti miei colleghi è senz’altro un modello da imitare.»
Daniele Canepa