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La Genova della Grande Guerra: l’industria e il sacrificio umano, come eravamo cento anni fa?

Una passeggiata immaginaria nella Genova del 1915 che si apprestava a seguire la deriva italiana nell'incubo della Prima Guerra Mondiale. Oggi cosa è rimasto di quegli anni di conflitto? Quali sono le tracce lasciate dalla Grande Guerra fra le vie cittadine?


26 giugno 2015EraSuperba60
Illustrazione di Nicoletta Mignone

Illustrazione di Nicoletta Mignone

“Popolo grande di Genova, Corpo del risorto San Giorgio; Liguri delle due riviere e d’oltregiogo […]oggi dice la fede d’ Italia: “Qui si rinasce e si fa un’ Italia più grande”. Con queste parole, il 5 maggio di cento anni fa, Gabriele D’Annunzio incendiava la folla accorsa allo scoglio di Quarto, per l’inaugurazione del monumento dedicato alla spedizione garibaldina dei Mille. Pochi giorni dopo, il 24 maggio, il Regio Esercito italiano iniziava le operazioni militari contro l’Impero Austro-Ungarico, facendo seguito alla dichiarazione di guerra proclamata il giorno precedente. Si apriva così il fronte italiano della Grande Guerra, che da un anno stava insanguinando l’Europa, e che presto sarebbe diventata il primo conflitto su scala mondiale.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero 60  di Era Superba

Oggi sappiamo come andò, e quali furono i costi di quella epopea: oltre un milione di morti, tra soldati e civili (di cui molti falciati dalla epidemia di Spagnola del 1918), e una vittoria che rimase “mutilata” dal disegno post bellico della diplomazia internazionale. Un fallimento della politica e dell’economia imperialista europea, che fece germogliare i semi del totalitarismo fascista.

Genova, lontana dal fronte, non divenne teatro fisico di questo conflitto, ma partecipò in prima linea alla mobilitazione totale che la giovane nazione italiana faticosamente sostenne in quegli anni. Lo fece con le sue industrie, con la sua terra, con la sua gente.

A poter viaggiar nel tempo, girando per le strade del capoluogo ligure in quei giorni, gli occhi del visitatore vedrebbero ovunque un gran fermento; all’epoca, infatti, l’assetto urbano della città era in gran trasformazione. L’Esposizione Universale di Marina e Igiene Marinara e delle Colonie dell’anno precedente, aveva lasciato in eredità ai genovesi due grandi infrastrutture: lo Stadium, un enorme impianto sportivo edificato in quella che oggi è Piazza della Vittoria, e la Telfer, un trenino su monorotaia rialzata, che collegava la zona di fronte alla stazione Brignole, sede dell’esposizione, al Molo Giano, passando per quella che oggi è la Fiera del Mare. Entrambe le costruzioni fecero la loro parte durante gli anni del conflitto: lo Stadium, fu demolito per far spazio, dal 1916, ad una piazza d’armi, dove le reclute completavano il loro addestramento prima di partire per il fronte, mentre la piccola ferrovia fu convertita per il trasporto del carbone, necessario per le industrie della Val Bisagno, smantellata a fine conflitto. Anche i cantieri erano in forte attività, per garantire allo sforzo bellico del paese tutto il materiale necessario: oltre a quelli della Foce, situati dove oggi troviamo Piazzale Kennedy, furono soprattutto le catene di montaggio dell’Ansaldo a crescere grazie alle commesse dell’Esercito. Dai 30 milioni di lire di capitale sociale pre-guerra, si arriverà a 500 milioni, grazie ai ricavi ottenuti dalla produzione del 46% di tutta l’artiglieria prodotta dal paese: 3000 aerei, 96 navi da guerra e 10 milioni di munizioni. I dipendenti passarono da 17 mila del 1914 agli oltre 80 mila del 1918.

Il conflitto, come sappiamo, divenne subito guerra di logoramento, e Genova, come tutte le grandi città del paese, fu “spremuta” per sopportarne lo sforzo: oltre all’arruolamento di massa (è difficile calcolare precisamente quanti genovesi partirono per il fronte, le stime sono dai 30 mila agli 80 mila, contando anche tutto il genovesato), vennero organizzate requisizioni  forzate di automezzi agricoli, bestiame da traino e da macello, cosa che depauperò ulteriormente l’economia ancora fortemente contadina della città. Nel 1918, quando tutto il paese era allo stremo, venne disposto l’obbligo per i proprietari di “donare” i cadaveri del bestiame, censito nel 1914, per poterne estrarre grasso per le industrie di armi. Anche le difese della città, inizialmente rafforzate, vennero via via smantellate, per fornire il fronte di più armi possibili. Questo avvenne soprattutto dopo Caporetto, nonostante la forte opposizione delle autorità cittadine, che temevano attacchi aerei, come successo a Napoli, città decisamente distante dal fronte, bersagliata dalle bombe di un dirigibile tedesco.

Ma il “prodotto” principale di questa guerra fu l’immane tragedia umana. Genova, lontana dalle trincee, non poté sottrarsi dal penoso spettacolo dei convogli di ritorno dal fronte: centinaia di feriti e mutilati, accolti in ospedali militari adibiti in alcune scuole della città, tra cui la Garaventa, la Dapassano, la Mameli e la Chiabrera. La cosa non fece scalpore: fin dall’inizio del conflitto, infatti, molte infrastrutture scolastiche erano state requisite per far spazio a caserme, depositi e corpi di comando.

piazza-vittoriaMa oggi, cosa rimane di quegli anni? Quali sono le tracce lasciate dalla Grande Guerra? Decine sono le lapidi, le targhe e i monumenti eretti per eternare il sacrificio dei giovani soldati, sparse per la città e i suoi sestrieri: all’epoca comuni indipendenti, quasi tutti i quartieri di Genova hanno il proprio monumento ai caduti: Sturla, Nervi, Cornigliano, Voltri, Pegli, Sestri Ponente, Quinto, Rivarolo, Bolzaneto, Prà e Pontedecimo.

Il monumento più famoso e simbolico è senza dubbio l’Arco della Vittoria, detto anche Arco dei Caduti: ideato nel 1924, inaugurato nel 1931, è la costruzione centrale della gigantesca omonima piazza, cornice della Scalinata del Milite Ignoto, oggi conosciuta come “Le Caravelle”. Lo stile e il contesto storico in cui sorse, legano indissolubilmente questo manufatto al fascismo (tanto che tra i volti dei bersaglieri rappresentati nel fregio del lato ovest, spunta puntuale un ritratto del duce), facendo dimenticare tutte le tragedie che dovrebbe rappresentare; 680 mila, per la precisione, quanti furono gli uomini tramutati in soldati dalla legge e costretti a morire nel fango delle trincee o nei ghiacci delle alpi.

Esistono inoltre dei frammenti urbani che raccontano storie più piccole: è il caso dell’ex orfanotrofio di Granarolo, dedicato ad Angelo Campodonico, giovane ufficiale genovese, morto ventenne sul Carso, nel 1917: una struttura composta da due edifici uguali, separati da una piccola chiesa, dove riposa il soldato, voluta e fatta costruire dal padre, e visibile da ogni parte della città vecchia. All’esterno, un cannone austriaco, trofeo della vittoria, è puntato sulla città, forse per ricordare il pericolo scampato e il significato del sacrificio di quella giovane vita spezzata, e non solo della sua.

monumento-mutilatoIl luogo che più di tutti evoca le tragedie e le contraddizioni della Grande Guerra, rimane però la Casa del Mutilato, situata all’inizio di Corso Aurelio Saffi: edificio inaugurato nel 1938, sede della Associazione Nazionale Fra Mutilati e Invalidi di Guerra (la precedente sede genovese era in via San Donato), oggi è una quinta quasi dimenticata della vita frenetica della città. Sulla facciata, tra due teste di medusa, campeggia la scritta “La Guerra è una lezione della Storia che i popoli non ricordano mai abbastanza”, autore Carlo Del Croix, fondatore dell’ANMIG, orrendamente mutilato durante la guerra, divenuto orgogliosa bandiera del fascismo prima, e del Partito Monarchico poi.  Al suo interno troviamo opere dedicate alla tragica sorte dei soldati, tra cui il Monumento al Mutilato, dove un fante esausto è sorretto da una magra e anziana signora incappucciata e un soldato, che gli indica, con un braccio senza mano, il futuro di sofferenza che ha davanti. Autore della scultura Eugenio Baroni, lo stesso che realizzò il monumento di Quarto dedicato ai Mille, sotto il quale, tra l’entusiasmo inconsapevole della folla, la corsa verso l’inferno delle trincee era incominciato.

 

Nicola Giordanella

L’articolo integrale è pubblicato sul numero 60 di Era Superba


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