Grazie all'attività del neonato Cantiere per la legalità responsabile, che unisce associazioni e cittadini del centro storico, torna in auge il tema del riutilizzo dei beni confiscati alla mafie. Un centinaio di immobili a Genova fra la Maddalena e altre zone della Città Vecchia, ma anche Sampierdarena, Sturla e Coronata, sono dei veri e propri "buchi neri" per l'amministrazione. Come procedere?
Come tutti i cantieri che si rispettino, anche quello per la legalità responsabile, che ha mosso i suoi primi passi sabato 7 febbraio, è un vero e proprio work in progress. Nata con l’obiettivo di rendere concreta la restituzione alla città di beni confiscati alla mafia e alla criminalità organizzata, questa rete conta sul supporto di una dozzina di associazioni che gravitano attorno alla Città Vecchia (da A.Ma al Civ, dall’Arci alla Comunità di San Benedetto, da Libera a Y.E.A.S.T. passando per la Caritas e diverse cooperative che vivono quotidianamente il territorio).
«L’obiettivo di fondo – spiega Chiara Cifatte, operatore socio-educativo attiva nella rete – è quello di promuovere iniziative culturali e sociali per una positiva vivibilità del quartiere in risposta alle varie forme di illegalità che lo attraversano. Vogliamo raccogliere idee per il riutilizzo di questi beni da proporre al Comune che ne diverrà proprietario. Per questo, al Cantiere potranno unirsi tutti i cittadini che condividono il nostro impegno e i nostri principi». Principi che sono stati sintetizzati in una “Carta degli intenti”: rispetto delle persone, delle decisioni prese insieme e cura degli spazi collettivi; responsabilità delle proprie azioni e dei propri comportamenti di fronte agli altri; collegialità intesa come resa operativa delle decisioni prese collettivamente, nei modi e nelle forme condivise; trasparenza in particolare considerazione del contesto pubblico in cui ci si muove; legalità responsabile attraverso il rispetto e la pratica delle leggi che contribuiscono alla costruzione di una società più giusta ed equa a partire dal nostro territorio.
Come abbiamo avuto modo di raccontare sull’ultimo numero (#58) della rivista bimestrale di Era Superba (dove trovare la rivista), quest’iniziativa muove i passi dalla più grande confisca di beni sottratti alla mafia avvenuta nel nord Italia: si tratta dell’operazione “Terra di Nessuno”, balzata agli onori delle cronache nell’estate 2009, che ha portato al sequestro e alla confisca (confermata dalla Suprema Corte di Cassazione un anno fa) di un centinaio di immobili appartenenti alla famiglia Canfarotta, sostanzialmente destinati alla prostituzione e per la maggior parte concentrati alla Maddalena (ma qualche immobile si trova anche a Sampierdarena, Coronata, Valle Sturla e, naturalmente, altre zone del centro storico).
Secondo la legge 109/96, i beni sequestrati alle mafie e alla criminalità organizzata possono essere restituiti alla collettività per finalità istituzionali o sociali, in via prioritaria, attraverso il conferimento al patrimonio del Comune in cui sono collocati. Gli enti territoriali possono, poi, decidere di amministrare direttamente i beni o assegnarli in concessione, a titolo gratuito e nel rispetto dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità e parità di trattamento, a comunità, enti, associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali, comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti.
«I beni confiscati alla famiglia Canfarotta e collocati in territorio genovese – spiega Umberto Torre, l’amministratore della confisca nominato dall’Agenzia nazionale dei sequestrati e confiscati – dovrebbero essere 95 ma il numero non è ancora confermato a seguito di errori tecnici presenti nei decreti di sequestro». Non tutti gli immobili, dunque, sono stati ispezionati per valutarne lo stato: della settantina analizzata si può dire che solo una dozzina si trova in situazioni decenti da consentirne l’abitabilità. «Nella maggior parte dei casi – riprende Torre – il termine migliore per definire questi immobili è “grotte”, con muri che cadono a pezzi, muffa ovunque e situazioni di inabitabilità diffusa. E pensare che in alcuni casi siamo a meno di 100 metri da Palazzo Tursi». A complicare ulteriormente il quadro è arrivato il nulla osta da parte del Tribunale all’affitto di alcuni immobili: «Eppure – avverte l’amministratore – la legge antimafia prevede che i contratti si estinguano al momento della confisca definitiva (che per i beni provenienti dalla famiglia Canfarotta è arrivata un anno fa, ndr). Quindi, a questo punto, sono anche costretto a sfrattare persone, nella maggior parte indigenti, che hanno stipulato un contratto regolare e che in molti casi non hanno alternative. Mi chiedo: come pensiamo di promuovere la legalità se, poi, nei fatti a molte persone in difficoltà l’illegalità comporta più benefici?».
I beni attualmente sono di proprietà dello Stato, attraverso l’Agenzia nazionale appositamente creata. Secondo quanto previsto dalla legge, potranno passare nella disponibilità degli enti locali solo attraverso la risposta a un bando pubblico di manifestazione di interesse che, al momento, è ancora lungi dall’essere pubblicato. «Ma una volta pubblicato il bando, il Comune avrà solo 30 giorni di tempo per rispondere – spiega Torre – per cui sarebbe meglio studiare preventivamente un piano d’azione. Solo allora potrò sollecitare l’Agenzia a emettere il bando». E lo stesso amministratore prova a tracciare una rotta: «L’ideale sarebbe far sì che alcune associazioni si accordassero con il Comune in modo che sia Tursi ad accollarsi formalmente gli immobili ma che, non appena ottenuti dall’Agenzia, li girasse direttamente alle onlus per mettere in pratica il progetto di valorizzazione. Bisogna però tirare fuori idee ben precise, accompagnate da un quadro di fattibilità economica per evitare di dar via al solito “mungificio” delle casse pubbliche». E soprattutto bisogna muoversi con intelligenza: «Innanzitutto, si possono studiare alcuni strategici spostamenti tra proprietà pubbliche, in modo da accorpare i beni attraverso permute interne e creare una sorta di economia di scala condominiale per la ristrutturazione. Poi, si può puntare all’Europa, magari cercando finanziamenti per l’edilizia residenziale pubblica».
È evidente che il problema sia sempre il solito: la mancanza di risorse. «Qualunque siano i progetti per rimettere a disposizione della collettività questi beni – commenta l’assessore a Legalità e Diritti del Comune di Genova, Elena Fiorini – servono grandi investimenti. Questi immobili sono dei veri e propri buchi neri, con strutture pregiudicate, tetti lesionati, amministrazioni non pagate per anni. Per questo abbiamo chiesto l’intervento dell’unità di supporto della Prefettura, così come previsto dalla legge, perché dati gli altissimi costi prevedibili abbiamo necessità di fare squadra». Ma l’assessore non dispera: «Le possibilità ci sono: parlo dei fondi Fesr, dei Por e di un’apposita legge regionale (la n. 7 del 2012) per la prevenzione del crimine organizzato e mafioso e per la promozione della cultura della legalità che esiste ma non è stata ancora finanziata da Piazza De Ferrari. Il punto è far diventare la riqualificazione di questi immobili una priorità per le istituzioni, che devono lavorare assieme, altrimenti non andremo da nessuna parte».
Ecco, dunque, la necessità di fare quadrato sul futuro di questi spazi (e non solo di questi, dato che, secondo la mappatura realizzata da Libera, in Liguria su 140 immobili confiscati alle mafie solo una decina è riutilizzata a scopi sociali).
«In questo momento gli immobili sono patrimonio dello Stato e non ancora assegnati – tiene a precisare l’assessore a Legalità e Diritti del Comune di Genova, Elena Fiorini – per cui il Comune non può metterci mano e non ci può fare nulla. Non siamo, comunque, stati fermi in questo periodo ma abbiamo iniziato ad analizzare i beni, anche attraverso sopralluoghi dedicati. L’idea è quella di ragionare spacchettando gli immobili in gruppi indipendenti: dobbiamo sì avere una visione complessiva ma per trovare i finanziamenti è necessario realizzare una progettualità che vada a interessare immobili mirati». Ad esempio, si potrebbe partire dalle abitazioni disponibili attorno all’asilo della Maddalena che presto sarà consegnato alla città. «Solo partendo da una progettualità per parti – sentenzia Fiorini – possiamo pensare di iniziare da qualcosa».
Una tesi confermata anche da Umberto Torre: «Se cerchiamo di fare un ragionamento complessivo su tutta la confisca, portiamo a termine la procedura tra 10 anni. L’unica strada è quella di ridurre un problema complesso in tanti problemi più semplici».
«Programmare un futuro per i beni confiscati – sostiene Marco Baruzzo, referente regionale di Libera per questo settore – non vuol dire semplicemente immaginare di riempire delle caselle vuote su una cartina. Non stiamo parlando di spazi qualsiasi, neutrali dal punto di vista politico e simbolico. Il loro recupero rappresenterebbe un successo della riaffermazione dello stato sull’antistato, della legalità sull’illegalità». Per questo motivo, secondo Baruzzo, istituzioni e cittadini devono collaborare fianco a fianco: «Il riutilizzo dei beni confiscati è un modo nobile, difficile ma necessario, di mettere in pratica una nuova strada di governo del nostro territorio. Attraverso il Cantiere della legalità responsabile cercheremo di mettere in rete idee e progetti ma non possiamo diventare dei surrogati dell’impegno, anche economico, che deve arrivare dallo Stato e dagli enti locali: da troppo tempo si rinnovano promesse senza che vi faccia seguito una realizzazione concreta».
Il problema, secondo Simone Leoncini, presidente del Municipio I Centro Est, va ricercato nell’immobilismo che caratterizza storicamente la nostra città: «Dobbiamo metterci un po’ di progettualità complessiva, guardando ad altre esperienze virtuose in giro per l’Italia, come il social housing, il co-housing e il co-working. Esistono esperienze in cui le associazioni che ricevono gratuitamente gli spazi si fanno carico della loro ristrutturazione a costo quasi zero. A Genova, invece, non ci muoviamo perché siamo fermi ad un approccio amministrativo antico e aspettiamo che il Patrimonio faccia la valutazione dei canoni di concessione da applicare».
È, dunque, arrivato il momento che le istituzioni facciano la propria parte: «Aggrapparsi esclusivamente alle idee sparse che arrivano dal basso – riprende Baruzzo – segnala la latitanza delle istituzioni che invece di governare un processo, lo subiscono. Perché non facciamo lo sforzo di metterci tutti intorno a un tavolo istituzionale, Comune, Regione, Agenzia Nazionale e Prefettura?».
La risposta, un po’ piccata per la verità, arriva nuovamente da Leoncini: «È errato pensare che solo le istituzioni possano lottare contro le mafie ma serve un cambiamento di pensiero diffuso. Dobbiamo smetterla di pensare al centro storico come una periferia del centro di Genova, l’angiporto, il bagasciaio per antonomasia. Il centro storico deve diventare, invece, il nuovo centro industriale della città». Non è impazzito Leoncini perché l’industria di cui parla è piuttosto sui generis: «Parlo dell’industria culturale e del turismo, l’industria che non porta tumori ma che non promuoviamo neanche come cittadini. Questo non vuol dire che il centro storico deve trasformarsi in una vetrina: deve essere vissuto, anche con un po’ di casino (il giusto, oggi ce n’è troppo) ma deve diventare una priorità dello sviluppo della città, un mantra come per anni lo è stato, e lo è ancora, quello dello sviluppo delle infrastrutture».
Simone D’Ambrosio
[foto di Daniele Orlandi]