L'Ue ha prestato ad Atene 130 miliardi: ecco cosa è successo, cosa poteva succedere e quali scenari si aprono per la Grecia e per l'Europa
Mentre in Italia l’opinione pubblica era assorbita dal “caso Celentano” e dalle mutande di Belen, l’euro stava per saltare. L’accordo raggiunto in extremis ha “comprato” altro tempo alla Grecia, ma il paese è sempre a rischio bancarotta e questo potrebbe cambiare in maniera drammatica il nostro futuro.
COSA E’ SUCCESSO?
La Troika (cioè il triumvirato: Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Unione Europea), che gestisce gli aiuti alla Grecia, doveva decidere su un prestito da 130 miliardi al governo ellenico. Per sbloccarlo ha posto delle condizioni molto precise e dettagliate, che ricalcano pressapoco la lettera che la BCE aveva spedito all’Italia nel 2011. Il messaggio, neanche troppo velato, è: “se volete i nostri soldi, dovete fare quello che diciamo noi”. Domenica scorsa il parlamento greco, mentre fuori infuriava la guerriglia urbana, ha chinato la testa, acconsentendo ad assumere impegni molto onerosi. Tutto risolto quindi? Niente affatto.
La Troika, dietro alla quale incombe il peso politico della Germania, non si fida più delle promesse dei Greci, i quali, in quattro anni di crisi, al di là delle parole hanno fatto poco. Pertanto pretendeva la massima sicurezza sul rispetto degli impegni e non voleva transigere nemmeno sui “miseri” 325 milioni di tagli che mancavano all’appello. Ma soprattutto era preoccupatissima per le imminenti elezioni greche. Chi ci assicura, pensano a Bruxelles, che quando ad aprile si insedierà un nuovo governo, gli accordi presi oggi dall’attuale governo verranno rispettati?
Il premier, Lucas Papademos, è uomo gradito all’establishment finanziario europeo. Ma cosa succederà quando, con tutta probabilità, verrà eletto Antonis Samaras, il leader del partito di centro-destra? Samaras si spertica in rassicurazioni, ma poi lascia cadere frasi sibilline su “rinegoziare le condizioni” che toccano i sensibilissimi nervi scoperti della Troika. Per questo motivo tra le due parti cominciava a farsi strada l’ipotesi di rimandare la decisione sul mega-prestito a dopo aprile. C’è solo un piccolo dettaglio: il 20 marzo maturano 14 miliardi di titoli di Stato greci e le casse di Atene non sono abbastanza capienti per ripagarli. Quindi o arrivava il prestito, oppure la Grecia saltava in aria: bancarotta disordinata e uscita dall’euro. Perciò il parlamento greco ha dovuto tirare fuori i tagli mancanti e rassicurare Bruxelles sul tema elezioni. Così ieri, dopo estenuanti trattative, il prestito è stato finalmente sbloccato: ad Atene arriveranno 130 miliardi di euro. Ma a che prezzo?
L’ACCORDO
E’ ovvio che 130 miliardi sono sempre 130 miliardi: una cifra considerevole. Per sbloccarla, si è dovuto coinvolgere diverse parti in un complesso accordo. Gli investitori privati hanno accettato di tagliare il loro credito verso lo stato greco di un buon 53,5% e sono stati fatti nuovi titoli di Stato per sostituire più del 30% delle precedenti obbligazioni, con rendimenti fissati al 2% per le scadenze nel 2015. Tutte queste misure servono a una sola cosa: ristrutturare il debito. E’ questa la preoccupazione maggiore dell’Europa.
Atene ha un debito pubblico clamoroso e va ridotto. L’accordo raggiunto e il prestito sbloccato dovrebbero portare il debito pubblico greco in rapporto al PIL al 120% nel 2020. Anche le quattro maggiori banche greche, che ovviamente hanno un sacco di titoli di stato del loro paese, beneficeranno di parte di questi soldi per ristrutturarsi. Ma nel 2013 il debito pubblico greco arriverà al 168% del PIL e anche l’economia sarà in profonda recessione. E’ probabile inoltre che scatti un commissariamento vero e proprio della Grecia da parte della Troika, come auspica l’Olanda. A questo punto, di fronte a questo quadro, viene spontaneo farsi qualche domanda.
1. Ammesso e non concesso che i Greci sopportino i sacrifici, gli Europei sono davvero disposti a finanziarli, oppure al momento delle ratifiche dell’accordo nei vari parlamenti uscirà fuori un voto contrario?
2. Davvero ristrutturare il debito e tenere in recessione il paese aiuterà il paese ad uscire dalla crisi?
3. Non converrà lasciare andare la Grecia al suo destino?
State pur certi che quest’ultima domanda è presa in seria considerazione a Bruxelles, a Berlino, a Washington, a Roma e persino ad Atene. Gli Stati Uniti e l’Italia sembrano spingere verso l’aggregazione, ma è evidente che in Germania come in Grecia ci siano circoli politico-finanziari favorevoli alla disgregazione.
Quanto sono influenti le forze favorevoli a una fuoriuscita della Grecia?
Difficile dirlo. Ma ci sono segnali preoccupanti. Berlino, ad esempio, sta stipulando accordi commerciali con paesi asiatici, dal Kazakistan alla Cina: segno forse che i tedeschi pensano di poter fare a meno del mercato interno europeo per le loro esportazioni? Ad aumentare il sospetto hanno contribuito anche le parole di Franz Fehrenbach, presidente del gruppo Bosch, il quale ha detto esplicitamente che l’UE dovrebbe mettere la Grecia alla porta e lasciare che il paese recuperi la sua competitività con una dracma svalutata. Insomma: nonostante l’europeismo di facciata, lo scenario è aperto.
Chi ci guadagna se Atene abbandona l’euro?
Possiamo anche pensare che, se i Greci un giorno dovranno fronteggiare una bancarotta disordinata e caotica, con il rischio addirittura di un colpo di stato dei militari, come riportavano alcune voci di corridoio ad Atene, a un certo punto sono problemi loro: se la sono cercata. Ma è difficile che tutti gli altri paesi abbiano qualcosa da guadagnarci. Con ogni probabilità, la crisi non si allenterebbe, ma si estenderebbe, anzi, al resto del continente, gettando quindi un’ombra funesta sulla sopravvivenza dell’Europa unita. Se infatti si creasse il precedente di un paese europeo in procinto di fallimento che, per un motivo o per l’altro, non riesce ad essere salvato, i mercati e gli speculatori ne trarranno la lezione che si deve trarre: e cioè che l’Europa non è né coesa politicamente, né in grado di prendere le giuste decisioni dal punto di vista economico-finanziario. E avrà ragione a scommettere contro. Dopo la Grecia, quindi, non ci sarà motivo per cui non debba essere la volta di Portogallo e Irlanda, e poi anche di Belgio, Spagna e, certamente, anche dell’Italia. Per questo la linea tenuta finora della governance europea è contestata sempre più apertamente dagli economisti e da vari governi, compreso il nostro.
Qual’è stata finora la linea dell’Europa di fronte alla crisi?
La linea di rigore europea è sostenuta della Germania, che è il paese più forte. Si basa sull’assunto che la crisi dipenda dalla “mentalità del debito“, come l’ha definita l’ormai ex-presidente della Germania Christian Wulff in un discorso di qualche giorno fa alla Bocconi. Secondo i tedeschi, la tendenza degli stati ad indebitarsi per far fronte alle spese sanitarie, all’istruzione e alle pensioni (ma anche ad inefficienze, assunzioni clientelari, evasione fiscale e corruzione) ha dato origine a finanze pubbliche incontrollate e alle conseguenti preoccupazioni per la solvibilità dei debiti sovrani che agita i mercati finanziari. Pertanto la soluzione non potrebbe che essere una politica di austerità e di drastici tagli che azzeri il deficit e riconduca gradualmente il debito pubblico in rapporto al PIL ad una percentuale ragionevole. Ecco perché l’accordo punta tutto sulla ristrutturazione del debito. Peccato che questa linea, anziché migliorare, abbia peggiorato le condizioni dell’economia greca, avvicinando il paese al baratro più di quanto non lo fosse due o tre anni fa.
Perché questa linea non sta dando frutti?
Il motivo, al netto degli errori dei Greci, è molto semplice. Come fa notare, ad esempio, Joseph Stiglitz, nobel per l’economia nel 2001, sono decenni che i paesi del sud Europa presentano un elevato indebitamento pubblico: non si tratta affatto di una scoperta venuta con la crisi. La crisi è scoppiata per la bolla dei mutui subrprime, non per i debiti sovrani. Ma quello che la crisi ha messo in mostra è che il sistema finanziario globale non ha controlli e non ha regole: in una parola, è inaffidabile. Le informazioni non sono condivise e conosciute da tutti, ma nascoste, truccate e modificate secondo i vari interessi. E’ questo che ha rallentato la circolazione della liquidità e gli investimenti: nessuno si fida più di quello che appare.
Le stesse banche non si fidano a prestarsi soldi tra loro: sono state talmente brave a nascondere le informazioni che volevano nascondere, che adesso non si fidano più delle solidità apparenti di quelli a cui dovrebbero prestare denaro o degli investimenti su cui potrebbero scommettere. Ed è stata proprio questa mancanza di fiducia ad aver contagiato il mercato obbligazionario, facendo schizzare verso l’alto il rendimento dei titoli di stato dei paesi ritenuti più a rischio di solvenza: cioè, in particolar modo, i paesi europei con un elevato indebitamento. Questi paesi sono più vulnerabili perché non hanno il paracadute di una banca centrale in grado di stampare moneta. E’ una vecchia contraddizione irrisolta dell’UE. I paesi del nord Europa hanno bilanci solidi e sono inattaccabili, almeno per ora; ma i paesi del sud sono tradizionalmente meno rigorosi e adesso, senza un salvagente di qualche tipo, rischiano di essere affossati.
I mercati erano irragionevolmente ottimisti prima della crisi: ma ora sono irragionevolmente pessimisti. Per ripristinare la fiducia, a cominciare dal mercato delle obbligazioni, più che di bilanci solidi, che non si possono avere in un tempo ragionevole, abbiamo bisogno di una qualche misura concreta per far vedere ai mercati che l’Unione Europea e la BCE reagiranno compatti agli attacchi speculativi. I mercati capirebbero che l’Europa tutta insieme è troppo grande per essere affossata e ritornerebbero ottimismo e investimenti. I 130 miliardi, anche se danno un’idea di solidarietà, non bastano da soli.
Che rischio stiamo correndo?
Insistendo sulla linea attuale il rischio che falliscano a catena i paesi cosiddetti “P.I.G.S.” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) è concreto. E’ anche la paura di Obama, che deve affrontare le elezioni presidenziali e non vuole che la crisi europea gli crei problemi. Ma è anche la paura di Mario Monti, che infatti ieri ha firmato con gli altri paesi Europei (con la significativa esclusione di Francia e Germania) un manifesto per la promozione della crescita economia nell’Eurozona. Il premier sa benissimo che l’Italia non è salva e che, in caso di default greco, i prossimi sulla lista siamo noi. In questo momento tutti ci elogiano per le riforme fatte, ma non dobbiamo farci trarre in inganno dalle lusinghe. Obama e gli altri leader europei incensano il lavoro di Monti per dargli più credibilità e usarlo come cavallo di Troia per scardinare il rigore teutonico; la Merkel, dal canto suo, lo elogia per dimostrare che una politica di rigore può dare buoni risultati. Oggi a tutti viene comodo presentarci come il modello da seguire.
Ma i fondamentali dell’economia italiana non sono cambiati: siamo in recessione, i consumi sono minimi, la disoccupazione è alta, la corruzione diffusa. Se la Grecia salta, la speculazione trarrà nuovo vigore e troverà validissimi motivi per scommettere contro di noi. In quel caso, se la Germania non interviene (e perché dovrebbe farlo, se non lo ha fatto per la Grecia?), state pur certi che salteremo. Prova ne è che l’andamento dello spread dei nostri titoli peggiora ogni qualvolta arrivano brutte notizie da Atene. La Germania ha ragione ad avercela con i paesi del Sud: se fossero stati più attenti, oggi sarebbero meno esposti. Per questo fa bene a insistere su un bilancio europeo rigoroso.
Ma bisognerebbe anche spiegare agli elettori tedeschi che questa strada da sola non porta da nessuna parte. Sarà anche vero che i greci hanno truccato i bilanci; che hanno un 25% di dipendenti pubblici, dove la Germania ha solo il 9%; che i contribuenti greci più ricchi pagano poche tasse, mentre quelli tedeschi sono tartassati dal fisco. Ma questi problemi non si risolvono con un colpo di spugna. Se, ad esempio, la Grecia si volesse allineare agli standard tedeschi, dovrebbe licenziare i lavoratori in eccesso nel pubblico impiego, il che vorrebbe dire mettere il 16% dei lavoratori greci sulla strada. E che dovrebbero fare questi, appena perso un impiego sicuro e verosimilmente poco qualificato? Fare impresa? E con che competenze? Ma soprattutto, con che soldi?
Lo Stato non può spendere perché è preoccupato a tagliare la spesa, la gente è povera e le banche non fanno credito. Come si fa ad uscire dalla recessione, se si continua a peggiorare le condizioni economiche di un paese? Si dirà: ma i Greci hanno appena preso 130 miliardi! Vero, ma non sono comunque abbastanza per risollevare il paese (i tagli che la Grecia ha fatto e dovrà fare costeranno molto di più). E poi significa fare nuovo debito. Per questo le previsioni sono che l’anno prossimo il debito greco aumenterà: se l’economia è in recessione e il PIL cala, e per andare avanti si contraggono nuovi debiti, è ovvio che la percentuale tra debito e PIL sale. Per questo viene il sospetto che non ci sia una strategia coerente, ma di compromesso, che i rischi siano dietro l’angolo e che i tedeschi, sotto sotto, stiano pensando: “chi non è in grado di starci dietro, può pure accomodarsi fuori”.
Tagliare i rami secchi?
E’ un’idea molto pericolosa, perché questi rami non stanno solo all’ombra del Partenone. Come ho cercato di spiegare, è probabile che la possibilità di default ripetuti nella zona euro dipenda più dalla mancanza di solidarietà europea che dallo stato dei bilanci. La linea di rigore tedesca dovrebbe essere affiancata, con equilibrio, a misure che favorissero la spesa, agli Eurobond o a nuove immissioni di moneta in circolazione, che aumenterebbero l’inflazione ma farebbero ripartire i consumi. Al contrario, se si applicherà sempre e solo la politica del rigore, essa porterà alla fine altri paesi fuori dall’Europa e lascerà solo il blocco nordico, che si ritroverà così con ottimi bilanci, ma anche con una moneta fortissima. E a chi saranno venduti i prodotti industriali tedeschi con un cambio simile? Basteranno i ricchi cinesi? C’è da dubitarne. La Germania è il paese che più ha beneficiato della moneta unica, perché ha favorito l’export nel resto dell’Europa. Davvero ora vuole farne a meno? Poi ci sarebbe anche da capire se le banche tedesche possano ritenersi immuni dal rischio di ritrovarsi a pagare i CDS (credit default swaps) contro il fallimento degli stati.
Se la ristrutturazione del credito dei privati verso il governo greco non viene considerata (per un bizantinismo interessato) “volontaria”, teoricamente i premi dovrebbero essere pagati. Chissà poi quanti titoli di stato greci, italiani, portoghesi e spagnoli ci sono nei caveau tedeschi. Nessuno lo sa, ma a Berlino potrebbe non convenire venirne a conoscenza, un giorno, nel modo peggiore, se è vero, come è vero, che c’erano anche diverse banche tedesche tra le 114 dell’UE che l’altro giorno hanno subito il downgrade di Moody’s. La Germania dovrebbe riflettere bene se sia meglio perdere qualcosa oggi, o correre il rischio di perdere tanto domani. Ma se il problema è la contrarietà degli elettori tedeschi e la mancanza di coraggio dei loro politici, allora in linea di principio la Germania non è diversa dalla Grecia che, per accontentarli, i suoi elettori li assumeva.
Andrea Giannini