Mentre nei prossimi giorni è atteso il primo contatto con i sindacati per predisporre il piano esuberi, il mercato non fa sconti al Gruppo Carige. Il piano di consolidamento passa dalla vendita del credito sofferente, per il quale potrebbe intervenire il governo. Bce permettendo
Dopo la presentazione del piano industriale voluto dalla Bce, lo scorso 29 giugno, i titoli Carige non hanno ripreso la quota che si sperava, e, anzi, pochi giorni dopo si è assistito a un vero e proprio crollo, con un valore azionario che ha raggiunto l’abisso dei 0.27 euro, il minimo storico. Una situazione che complica tutto. Secondo il documento sottoscritto dall’amministratore delegato Guido Bastianini, il consolidamento dovrà passare attraverso la vendita del credito sofferente e il ridimensionamento della banca. Un programma cauto e di medio periodo, che non ha convinto i mercati. Nei prossimi giorni, la dirigenza presenterà ai sindacati i primi dettagli concreti per i 500 esuberi annunciati e le 106 filiali in chiusura: un ulteriore passaggio delicato, che vale 20 milioni l’anno, e che sicuramente avrà un impatto importante per il secolare legame con il territorio, l’unica cosa certa, al momento.
Per avere una dimensione di quello che sta succedendo, bisogna guardare ai dati storici. Negli ultimi sei mesi, il titolo ha ceduto circa il 70% del suo valore, il 77% nel corso dell’ultimo anno, il 93% negli ultimi tre anni. Il 99% dal 2002. Una discesa che non sembra arrestarsi e che, anzi, si è aggravata in maniera evidente nonostante il cambio dell’azionista di maggioranza e del Consiglio di amministrazione. La storia recente di Carige è tormentata e il contesto non è d’aiuto; i tassi di interesse vicino allo zero, imposti dalla Bce, infatti, complicano senza dubbio la situazione: il costo del denaro è quasi nullo, il che significa che per chi lo presta, le banche appunto, ci saranno meno ricavi. Per un istituto già in sofferenza, questo rischia di essere un cappio al collo. E poi la Brexit: secondo gli analisti, la scelta di Londra sta condizionando indirettamente il mercato, che in realtà sta aspettando al varco l’Unione Europea e la Bce. L’incertezza e la frenesia dei mercati non va a vantaggio di Banca Carige che, secondo rumors, avrebbe bisogno di 500 milioni di un ulteriore aumento di capitale. Un’operazione già difficile, di cui si fa fatica a parlare e che in questa situazione potrebbe avere esiti incerti se non deleteri.
Il piano industriale ha il suo fulcro nella vendita dei NPL (non performing loans, prestiti non performanti, cioè a rischio, le cosiddette sofferenze): Carige ne possiede circa 3,9 miliardi ed entro il 2017 vorrebbe dimezzarli per mettersi al riparo da rischi ulteriori. Fare ciò, però, significa non potere più mettere a bilancio il virtuale guadagno dei prestiti, registrando, quindi, una perdita che per l’istituto ligure è stata calcolata del 10%, cioè 180 milioni in due anni. Per procedere, quindi, bisogna trovare altre risorse per tamponare l’operazione. Ma non solo. Bisogna anche trovare un modo per disfarsene. Lo scorso 8 luglio, in occasione dell’assemblea annuale dell’Abi, sia Ignazio Visco (Bankitalia), sia il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, hanno dichiarato che è in corso “dialogo continuo” con le autorità della UE per trovare un modo lecito per assicurare un aiuto statale alle banche in sofferenza, proprio per quanto riguarda l’acquisto di NPL. Carige è in buonissima compagnia: 51 sono i miliardi di crediti deteriorati che è stato calcolato potrebbero finire sul mercato a breve giro, provenienti dalle banche italiane, tra cui 26 di Monte dei Paschi, 8 di Bpm e 2 di Unicredit. In un mercato così saturo, ci sarà spazio per Carige?
Ancora una volta, quindi, il futuro della banca dei genovesi è nelle mani dei mercati e delle scelte politiche. La nuova dirigenza ha preso il timone durante bufera di cui non si vede la fine; il mare in tempesta, inoltre, nasconde pericolosi scogli: l’ombra scura della fusione bancaria è sempre lì, che aspetta, immobile e silenziosa.
Il piano industriale prevede un ridimensionamento territoriale: il gruppo punterà su Liguria e Toscana, dove storicamente è più forte e presente. Messo nero su bianco è sicuramente un dato positivo per Genova, ma i numeri parlano chiaro: una filiale su sei sarà chiusa e sicuramente la cosa riguarderà anche la nostra regione. E poi gli esuberi: l’istituto si sta ridimensionando, cercando di far sgonfiare in maniera “controllata”, o quasi, la bolla creata negli anni precedenti, prima che scoppi. Fragorosamente.
Nicola Giordanella