Il pittore si racconta, partito da Chiavari nel dopoguerra conosce personalità importanti e raggiunge Milano dove entra a far parte del Movimento d'Arte Concreta, poi New York e la beat generation...
Luiso Sturla, pittore, nasce a Chiavari nel 1930. Ha fatto parte di uno dei più importanti movimenti artistici italiani, il MAC, ha visto nascere la Pop Art a New York, è stato amico di Gregory Corso, poeta della beat generation. Pittore informale, continua ancora oggi un’instancabile attività. Ci ha accolto nel suo studio di Chiavari per parlare della sua vita e della sua arte.
Come è avvenuta la sua formazione artistica e come ha scoperto di voler dipingere?
Il padre di amici era un pittore dilettante: prendeva una rosa o una calla dal giardino e ce le faceva copiare. Io ero piccolino, avevo sei anni, e ho cominciato così a disegnare. Mi piaceva. Tanto che ho fatto il liceo artistico, e quella è stata la mia formazione; lì ho conosciuto i pittori e gli scultori liguri importanti (come Verzetti, Alfieri, Micheletti) di due generazioni antecedenti la mia. Dovevo successivamente fare architettura, mi ero iscritto a Torino e avevo fatto un anno, però poi ho incontrato qui a Chiavari due “delinquenti” (ride) molto bravi, Bartolomeo Sanguineti, che faceva il falegname ma era un bravissimo pittore astratto, molto colto, e Vittorio Ugolini; ho cominciato una frequentazione con loro. Ma non c’eravamo solo noi: in quel momento a Chiavari – parlo del ’48-’50, appena dopo la guerra – c’era tutta un’aria novecentista che si era formata proprio lì, e che ci portava a interessarci di ciò che accadeva in Europa, a conoscere; avevamo fame di conoscere. Io, Costa e Ugolini siamo poi confluiti nel MAC, il Movimento d’Arte Concreta (il celebre movimento artistico fondato a Milano nel ’48 da Atanasio Soldati, Bruno Munari, Gillo Dorfles, n.d.r.). Già allora qui mi sentivo stretto, e a Milano ho avuto l’opportunità di conoscere tutti i grandi artisti italiani del mondo dell’astrattismo. Sono andato avanti con l’astrazione sette anni, fino al 1958 quando il movimento si è esaurito. Inoltre non riuscivo più a stare nei canoni dell’astrazione geometrica pura, ero troppo pittore, vivevo! E penetravo il tessuto pulsante della vita; bazzicavo già Firenze e conoscevo in quel periodo, presso la Galleria Numero, i pittori informali che suscitavano in me un interesse particolare. Così da Firenze sono partito, insieme ad un’amica, per New York, dove ho visto l’arte statunitense prendere forma: un vero scatto nel senso di formazione di un gruppo avveniva giusto in quegli anni, con la nascita della Pop Art. Nel mio anno di permanenza ho visto quella realtà, sono diventato amico di Gregory Corso, Michael Goldberg, Larry Rivers e altri tra poeti e artisti. Tornare non è stato facile. Le misure non erano le stesse, qui era tutto piccolo in confronto, a partire dagli atelier, che là erano enormi ex-capannoni industriali dismessi. Piano piano mi sono rimesso in corsa, con tante difficoltà, prima di tutto sul piano della vita, perché comunque era difficile vivere di pittura. Ho arricchito così il mio informale con qualcosa che appartenesse alla mia terra: attraverso l’uso della luce e del colore mi sono rivolto di più alla Liguria. Non so se sia stato un bene o un male, ma è stato così, il mio era un informale ligure. Attualmente invece i miei lavori sono incentrati sul mondo del sogno, dell’onirico, dei fantasmi. Il fare artistico è tutto un divenire, non sai mai dove arrivi, la fantasia ti porta dove non avresti mai pensato, quasi ad arrivare all’assurdo dell’immagine.
Oggi c’è l’impressione che l’atteggiamento più comune sia la mera constatazione dell’amara realtà che ci circonda. Non slanci propositivi, ma ripiegamento. Vede questo anche nel mondo dell’arte?
In realtà sono un po’ di anni che non seguo tanto i movimenti artistici, non conosco bene i giovani; è difficile anche perché oggi sono un esercito, allora eravamo meno, ma mi pare che oggi un movimento vero e proprio non esista.
Certe sue opere mi ricordano un po’ Turner… c’è qualche artista del passato o un periodo che l’ha influenzata particolarmente?
Non proprio. Turner, Monet, come dispersione della luce e dell’immagine, erano già dentro di me, e probabilmente erano insiti anche nella nostra luce ligure che si avvicina molto a quella francese; questa è una domanda che mi hanno posto in molti, perché ho dei quadri che si disfano e diventano luce. È interessante il fatto che a volte ci si trovi a riscoprire il passato rivedendolo in un altro mondo, attraverso una voce nuova. Io sono arrivato a certe immagini involontariamente, era il mio stesso tessuto pittorico che mi portava in quella direzione. Oggi vorrei cancellare 15-20 anni della pittura che ho fatto, proprio perché era troppo legata a un approccio fisico alla natura, a luce, mare, alberi…
Per molti poeti e musicisti liguri il fatto di avere questa terra dentro è stato determinante. Per lei essere ligure ha significato qualcosa?
La Liguria non l’ho cercata, semplicemente faceva parte di me, ce l’avevo dentro dalla nascita. Come artista informale ligure ho fatto parte di una tradizione ricca di artisti, Fasce, Repetto e molti altri. Noi avevamo una luce molto più ricca di colore rispetto ai lombardi per esempio, avevamo più suggestione lirica; anche se non avessimo visto i succitati Turner e Monet, o se li avessimo voluti cancellare, sarebbero tornati sempre, nella nostra luce, nel tessuto pittorico.
C’è un colore che predilige o che l’ha tormentata?
Tormentare no, comunque l’azzurro. È un colore su cui ho lavorato molto, forse troppo. Ora infatti non sono più tanto portato verso questo colore, ho in testa altre immagini.
In più di cinquant’anni di attività, c’è un momento in cui passa la voglia?
Cosa vuoi che ti dica, sono malato e vado avanti nella malattia! La prima cosa che penso la mattina è di scendere in studio e mettermi di fronte alla tela… ma è una malattia personale. Pensiamo tutti, io e gli altri miei colleghi, di andare alla stazione e prendere ancora un altro treno, ma il treno non passa più, ormai. Però dentro di noi ci costruiamo il nostro modus vivendi, chi scrive, chi dipinge. Io sono quello che dipinge.
Oggi cosa la ispira ancora?
Il mistero, il raccontarmi sottilmente, con pudore, il raccontare situazioni avvenute qui, nel mio giardino, sul fiume, episodi della mia storia che voglio tradurre in chiave più moderna, più astratta, meno figurativa, con la figurazione però. Voglio una figurazione che non sia figurativa, il che complica tutto! (ride).
Parte da dentro di sé o da fuori quando approccia la tela?
Il quadro si fa via via, non puoi mai dire “so cosa faccio”. Parto con un’idea che credo di poter dipingere, poi mentre lavoro il quadro diventa un’altra cosa, perché la pittura informale è così, l’immagine cambia come cambiano i miei pensieri, è un’unione tra la mia psiche e la materia pittorica; finché non sento che è finito, non abbandono il quadro, anche a costo di distruggerlo, ma non lo distruggo mai, voglio sempre portarlo a termine, in tutti i modi… non ho niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso.
Claudia Baghino
[foto e video di Daniele Orlandi]